Il Professore

Erano già dieci minuti che si trovava nell’anticamera del Professore. L’attempata segretaria che, allo stesso tempo, batteva sulla tastiera del computer, rispondeva al telefono e metteva in ordine le pratiche su uno scaffale, ogni tanto gli mandava una fuggevole occhiata. Non ci poteva giurare, ma gli era sembrato che, per un attimo, gli avesse persino fatto l’occhiolino.
«Il Professore ora la sta aspettando…» gli annunciò trionfante, a un certo punto, allargando le labbra a un sorriso professionale.
Thomas si alzò impacciato, tentato dal desiderio di andarsene. Ma poi si convinse ad entrare dalla massiccia porta in mogano e noce che la segretaria aveva lasciato socchiusa. Non era la prima volta che andava dal Professore, ma era sempre come se fosse la prima volta.
«Venga venga…» gli disse il Luminare dalla sua scrivania direzionale, un uomo sui cinquant’anni, leggermente brizzolato e paffutello, non appena ebbe ad avvertire la sua presenza nella stanza. Non alzò lo sguardo finendo di compilare una scheda con una stilografica a inchiostro verde; e, dopo aver fatto sparire il cartoncino all’interno di un grosso schedario che lo inghiottì senza rumore, gli si avvicinò cordiale come se fosse passato a fargli visita un amico. «Si sieda, la prego… si sieda signor Thomas» lo invitò con voce persuasiva, calda e levigata da anni di esperienza. La luce era soffusa da alcune lampade sapientemente dislocate nella stanza contribuendo a dare all’ambiente un tocco rilassante e confidenziale. Thomas si accomodò sulla poltrona che gli era stata indicata. La adorava. Non solo per il profumo di pelle e tabacco che emanava, ma soprattutto perché era avvolgente e anatomica; sembrava di sistemarsi su una nuvola che, alla pressione delicata del corpo, gli si conformava in modo automatico.
«Mi dica, allora…» fece il Professore sorridendogli allo stesso modo che aveva visto fare alla segretaria; ma a pensarci bene anche al portiere all’ingresso dello stabile e persino a un signore che stava per uscire dall’ascensore proprio mentre lui si approssimava.
«È sempre per lo stesso motivo…» ammise Thomas sospirando.
«Incubi?»
«Incubi…»
«Mi racconti di nuovo per bene, l’origine di questi incubi…»
Thomas voleva ricordare al Professore che, visto quanto costava quell’ora di seduta, dover spiegare per l’ennesima volta la causa scatenante di tutte le sue angosce, lo riteneva inutile e frustrante. Ma si limitò a restituire il sorriso ricevuto che però non gli riuscì altrettanto bene.
«D’accordo, allora…» cominciò facendo schioccare involontariamente la lingua contro il palato «…tutto è successo tempo fa per la mia brutta abitudine a distrarmi… Stavo andando in stazione a prendere il treno per recarmi in ufficio quando sono sceso dal marciapiede e non ho visto una moto che è sopraggiunta a tutta velocità contromano… Contromano capisce?» e guardò lo psicanalista che si era sistemato davanti a lui, sulla sua solita bergère rossa. Aveva l’aria di seguire un filo di pensieri tutto suo e di immaginarsi di prendere il sole in qualche isola dell’oceano indiano. Ma poi il Professore lo sorprese:
«Prosegua… non arresti il flusso dei ricordi…»
«…così mi ha investito lanciandomi in aria a diversi metri di distanza e… e sono finito in ospedale…»
«E quindi…?» cercò di incoraggiarlo il Luminare abbassando il mento in modo che gli occhi superassero la montatura degli occhiali.
«E quindi, da allora, anche se sono guarito dalle fratture multiple e da un severo trauma cranico, ho degli incubi terribili…»
«Quali per esempio?»
«Sempre gli stessi.»
«Cioè?»
Thomas voleva ribadire che lui avrebbe dovuto conoscerli a menadito dal momento che glieli aveva raccontati più volte. Ma rimase zitto, anche questa volta. All’alzata di un sopracciglio del Professore aggiunse:
«Sogno di trovarmi in una foresta, forse in Alaska o in Siberia (chi può dirlo?) dove vengo attaccato da un branco di lupi affamati che finiscono per dilaniarmi le carni… oppure mi ritrovo abbracciato a un pezzo di legno in piena notte in mezzo alle onde di un oceano tormentato da una tempesta.»
«E poi?»
Thomas lo guardò stupito. Poi disse sottovoce: «È proprio necessario?»
Il Luminare annuì.
«E poi sogno di trovarmi in un polmone d’acciaio… Tunf-tunf-tunf, giorno e notte, giorno e notte: l’unico modo per rimanere in vita.»
«Ma è terribile!»
«Sì, gliel’ho detto, è terribile. Cosa ne pensa, allora, Professore?»
«Vede, Thomas… come le ho diagnosticato tante altre volte lei ha un solo modo per alleviare la sua condizione…»
«La mia condizione?»
«Sì, lei mi deve chiamare in modo che io possa venire da lei e fare delle vere sedute…»
«Come delle vere sedute? E queste cosa sono?»
«No, mio caro Thomas. Prima se ne farà una ragione e prima si sentirà meglio. Lei mi sta solo sognando. La sua vita reale è davvero all’interno di un polmone d’acciaio che l’aiuta a respirare, giorno e notte, a seguito di quell’incidente. Quindi mi chiami, per favore, solo così le potrò essere davvero di aiuto.»

In nessun altro luogo

E poi quando il sole si è fatto all’improvviso strada, sgomitando tra le nubi, mi hai chiesto se io volessi ugualmente fare due passi.
Giornate strane quelle. Ho pensato. Un po’ reclusi, un po’ frustrati nelle nostre quotidiane aspettative, un po’ increduli. Non si può partire, non si può andare… Ma almeno una passeggiata “nei nostri posti” ce la si può concedere. Hai detto in un sorriso.
Era piovuto tutta la notte e avevamo sentito la pioggia frugare curiosa tra le tegole; prima in modo lieve poi sempre più forte ma con una insistenza ossessiva e le note incolori di chi vagabonda perplesso sotto il peso dalla malinconia.
Quello sprazzo di sole ora pareva invece una promessa di tregua, giusto per far pace, un invito sussurrato a bassa voce che poteva anche non essere sentito. E invece noi l’avevamo raccolto, con entusiasmo.
E così siamo andati incontro al tepore della tarda mattinata, sul lungo fiume, a guardare le onde piene di gravità sospinte verso monte; a sentir ansimare i goffi runner che ci sfilavano distratti avendo in mente chissà quali mete.
I giardini erano sorprendentemente pieni di verde nonostante la stagione avanzata; le foglie, maculate di giallo rugginoso, erano sparse ad arte sul marciapiede da un vento che aveva ingentilito il grigiore della pietra serena; una canoa, poco lontano, sdrucciolava pigra sull’acqua opalescente lasciando dietro di sé un’esile bava di schiuma leggera.
Il suono dei nostri passi sottolineava l’incrociare a tratti dei nostri sguardi dopo tanti anni di vita assieme; e mentre sentivo il vago calore del sole sulla schiena sciogliersi in un tenero abbraccio e tu guardavi lontano inseguendo i tuoi pensieri, riflettevo che non avrei voluto essere in nessuna altra parte del mondo se non lì, accanto a te, in quel momento, contro il chiarore finto di quel cielo incerto; in nessun altro luogo e in nessun altro momento, ma solo sentirmi speciale camminandoti a sfioro, parlando di tutto e di nulla, in quello che mi sembrava il posto più bello della Terra. Progettavamo il nostro futuro come fossimo ancora ragazzini, come se il tempo davanti a noi fosse infinito e la nostra giovinezza fosse iniziata daccapo. I nostri desideri erano intatti, i nostri sogni rinnovati, il mio e il tuo domani, intrecciati come i rami di un glicine ostinato, la vita dell’uno delle mani dell’altra, ancora e sempre, perché tutto ha un senso solo se lo vediamo con i nostri occhi e con quel nostro modo unico di esistere e sentire. Sì, in nessun altro luogo e in nessun altro momento, Amore mio, in nessun altro luogo e in nessun altro momento.

I due infermieri si erano fermati sulla porta. Guardavano accigliati il paziente dalla soglia: era pallido e sembrava fosse intrappolato in una selva di esili tubicini che uscivano da sotto le lenzuola come tanti radici di una pianta d’acqua stagnante. Il respiro era regolare, ma spesso e rumoroso.
«Ce la farà?» chiese la donna al collega che pareva più anziano.
«Ce la deve fare…» fece l’altro aggiustandosi la mascherina.
«Forse dovremmo dargli un calmante… continua ad agitarsi nel sonno… e poi parla… chissà con chi…»
Intanto aveva ripreso a piovere. Il sole era stato cancellato in un attimo da una nube densa e incalzante. La promessa era stata infranta. La luce flebile della camera d’ospedale aver ripreso vigore come la fiamma in un caminetto.
«Andiamo Clelia… sta arrivando il Professore. Lui saprà cosa fare» e richiusero piano la porta.

Dislocazioni

Quando cercò di riaprire gli occhi non ci riuscì. Erano come sigillati. Dal sonno, dall’intensità dei sogni, dalla stanchezza spossante di quei giorni. L’incubo da cui era appena uscito gli aveva cucito addosso una sensazione di timore, di allerta, di straniamento. Strinse i pugni come per raccogliere le forze.
Riprovò ad aprire gli occhi e finalmente si spalancarono tra mille spilli che gli parevano bucare le cornee. Doveva decidersi a darsi una regolata. Non poteva più prendere la vita in quel modo. Occorreva un reset, nuove regole, nuovi limiti. Ci doveva provare, lo doveva quantomeno a sé stesso.
Ma dov’era?
Peraltro era sicuramente tardi. La mattina sarebbe stata come al solito impegnativa. La riunione con il personale, la videoconferenza con la Direzione, il tavolo ristretto con i dirigenti di compartimento per le problematiche insorte la settimana precedente. E chissà cos’altro. Doveva far presto. Saltare giù dal letto e farsi una bella doccia ristoratrice; la colazione l’avrebbe fatta in ufficio, solo se ci fosse stato tempo.
Non sentiva però il respiro della moglie accanto a sé. Forse allora non era a casa.
Adesso che ci pensava meglio non poteva che trovarsi nel suo solito albergo ad Alvona. Per l’assemblea mensile. Solo in quell’hotel ci poteva essere tanto buio; avevano la mania di serrare le tapparelle per la sicurezza degli ospiti tanto da indurre effetti claustrofobici. Era uscito anche sul giornale. Doveva cambiare albergo. I colleghi gliene avevano consigliato un altro, sul lungomare, così vicino alla spiaggia da poter sentire in stanza, alla sera, lo sciabordio della risacca e il profumo della salsedine. E con in più, annesso, un ristorante diventato famoso per cucinare in modo divino gli spunciacorrente. Sì, la prossima volta non avrebbe fatto lo stesso errore. Basta.
Ma no, che gli diceva la testa? Era domenica, adesso sì che ricordava: era nella casa di campagna; poteva rimanere a dormire quanto voleva. Altro che riunioni o incontri. La moglie, che si alzava sempre presto, sapeva bene che non voleva essere disturbato. Era per questo che era solo, nel lettone, avvolto dal silenzio delle colline di Poggiobrusco. E quelle prime ore della domenica erano sacre: si sarebbe alzato solo quando sarebbe stato il momento; quando avrebbe sentito le “pile” ricaricarsi. Anche se, a dire il vero. non pareva proprio che volessero saperne di ricaricarsi persino solo un po’. Non si rammentava di essersi mai sentito così. Come se stesse covando una qualche malattia. Già, una malattia…
Pian piano si ricordò che alcune settimane prima si era sentito male. Era stato ricoverato. Ricordava il volto rassicurante del medico che parlava a sua moglie al suo capezzale. Ma lui non aveva capito quale fosse il problema. La moglie in seguito era rimasta per ore seduta accanto a lui. Gli sussurrava ogni tanto qualcosa, con dolcezza e accarezzandolo, ma senza che lui potesse comprendere cosa stesse accadendo.
Oddio. Pensò. Allora era ancora in ospedale, a Lughi! Dov’era l’infermiera? Doveva assolutamente parlarle.
Però, a esser sinceri, non c’erano i suoni tipici dell’ospedale. Non si sentiva neppure il vicino di letto russare come un trombone stonato; e dal soffitto non spioveva quell’odiosa luce arancione. No, non era affatto lì. Era sicuramente altrove.
Poi gli tornò in mente che le sue condizioni di salute si erano a un certo punto aggravate. Dopo qualche giorno di ricovero era entrato in coma. È strano che ora lo rammentasse così bene. Si era sentito come risucchiato in un buco nero, dove l’anima era rimasta da una parte e il corpo era caduto nel pozzo senza fondo come un oggetto inutile.
Quindi, il fatto che adesso fosse sveglio, non poteva che significare che ne era appena uscito. Stava meglio. Doveva parlare con un medico. Subito.
Provò ad alzarsi, ma sbatté la testa. Allargò le braccia. Capì.
Era dentro a una bara.
Cominciò a urlare. Con tutte le sue forze.

Libero Ascolto

L’aveva notato subito andando a fare le analisi in ospedale. Nella grande hall destinata al ritiro dei referti, dove avevano anche aperto una farmacia, un bar e negozi vari, c’era questo bancone. Sopra, un cartello invitante: “Libero ascolto” e, dietro, un addetto, un volontario probabilmente, pronto ad aprirsi agli altrui problemi e a dare consigli. E lui di problemi ne aveva sempre avuti. Tanti.
In attesa che fosse il suo turno per il ritiro gironzolò intorno al bancone. C’era un ragazzo alto. Un mucchio di capelli ricci in testa che sembrava un extracomunitario. Aveva la faccia non troppo simpatica, a dire la verità. A uno così, pensò, non avrebbe proprio detto un bel niente. Anche se sembrava saperci fare perché la donna che si era seduta davanti a lui chiacchierava sfogandosi. Si era messa persino a piangere e lui l’aveva consolata. No, no, con uno così non si sarebbe aperto. Se lo sentiva. Troppo pieno di sé.

E così quella volta se ne tornò a casa, le idee un po’ confuse, preoccupato più che mai. Le analisi andavano bene, per carità, anzi andavano benissimo. Il che confermava quello che già sapeva. Il problema ce l’aveva nel cervello. Rimuginava troppo e male, in modo nocivo, in modo tossico. E poi da quando aveva maturato quelle idee malsane aveva capito di essersi definitivamente calato in un pozzo lasciando cadere dietro di sé la corda della salvezza. La soluzione era andare da uno strizzacervelli, uno adatto; così almeno gli aveva consigliato il suo medico di base, ma forse lo aveva detto solo per toglierselo dai piedi. Ma lui non avrebbe potuto andarci, non con il lavoro che faceva. E se si fosse risaputo in giro? Che figura ci avrebbe fatto? In questo senso il “Libero ascolto” poteva essere una soluzione, dopotutto, almeno per l’immediato.

Ci ritornò qualche giorno dopo. Dietro al bancone c’era un ragazzo diverso. Era più allegro e gioviale dell’altro, ma anche meno professionale, secondo lui. Si toccava continuamente il naso e si infilava le dita nelle orecchie come in una sorta di tic. E poi sembrava spiccicato suo cugino. E a suo cugino non avrebbe di certo spifferato nulla con quella pettegola di moglie che si ritrovava. Peccato però, aveva proprio l’aria di un bravo ragazzo. Prendeva persino appunti.

Il giorno dopo stava davvero male. Aveva buttato giù qualcosa preso dal mobiletto del bagno giusto per alleviare l’ansia che lo stava divorando, ma era stato del tutto inutile; si sentiva solo un po’ più intontito del solito.
Tornò ancora in quella hall come un automa. C’era adesso una bella ragazza, giovane anche lei, ma dal modo di fare avvolgente, dolce, attento. Di una così si sarebbe potuto anche innamorare. Perdutamente. Per lo sguardo, per come muoveva la testa nel ravvivare i capelli, per il suo sorriso che parlava dritto al cuore.
«A chi sta?» si sentì dire. La ragazza lo ripeté più volte guardandolo dritto negli occhi, visto che peraltro c’era solo lui seduto sul divanetto davanti; ma lui non ascoltava: le stava guardando le labbra ben disegnate.
«Oh sì, tocca a me… mi scusi» disse lui dopo un po’ alzandosi di scatto.
E si ritrovò di fronte a lei come se fosse stata la scelta più naturale e ineluttabile della sua vita.
«In cosa posso esserle utile?» chiese melodiosa.
Lui fece un respiro profondo e attaccò:
«Guardi… mi chiamo Christian e sono disperato. Fin da piccolo ho avuto un rapporto molto conflittuale con i miei genitori. Perché mia madre era troppo debole di carattere e mio padre troppo autoritario e manesco. Ero un bambino introverso, molto sensibile e i miei compagni a scuola mi bullizzavano perché ero più intelligente di loro e mi sentivano diverso; e poi loro stavano in compagnia il sabato sera, si ritrovavano, si divertivano, mentre mio padre non mi faceva uscire di casa; troppo rischioso, diceva. Troppo rischioso per chi? Per cosa? E intanto la mia adolescenza finiva giorno dopo giorno in fondo al water. E così ho fatto fatica ad andare a scuola, a studiare, a realizzarmi. I miei rapporti sociali ne hanno profondamente risentito; sono sempre stati minimi e non sono mai riuscito a trovare una compagna degna di questo nome, benché avessi voluto farmi una famiglia ed avere dei figli. Da qualche anno a questa parte, poi, dormo poco e male; sono preda di incubi ricorrenti e spaventosi e mi sento un enorme vuoto dentro che cresce ogni giorno a dismisura; mi sembra di essere inutile perché non so più quale sia il senso nella mia vita; anche il mio lavoro, che pur mi piace tanto, ha perso da tempo ogni significato; sono depresso, frustrato, rancoroso e sto maturando sempre più spesso propositi suicidiari. Cosa posso fare? La prego, mi aiuti.»
La ragazza, che era stata ad ascoltare in silenzio fino a quel momento, aveva ora sul volto un sorriso disarmante. Non diceva nulla, si limitava a sorridere come se lui stesse ancora parlando.
«E allora, cosa mi consiglia?» insistette lui assaporando la soddisfazione di essere stato capace di arrivare fino in fondo.
La ragazza deglutì vistosamente e poi disse:
«Vede, mi spiace, ma il banco del “Libero ascolto” si è appena trasferito al piano seminterrato. Questa è la nuova agenzia della Figmore London Insurance, ‘polizze di successo per persone di successo’… Posso farle una polizza sulla vita, però, se vuole…»
[space]


Leggi –> Dietro al racconto

[space]

[space]
Questo racconto è stato inserito nella lista degli Over 100.
Scopri cosa vuol dire –> Gli Over 100

 

 

Il Destino è in attesa

Da quando era andato in pensione aveva preso a tornare sul luogo di lavoro. Ma non per darsi da fare e aiutare gli altri, quanto piuttosto per vederli lavorare e godere del fatto che quella vita non gli appartenesse più. Questo lo faceva sentire meglio. Veniva tutti i giorni, anche solo per una mezz’oretta. Si metteva in un angolo e non diceva nulla. E osservava.
Ma un po’ perché gli ex colleghi a un certo punto gli fecero capire che non era più gradito, un po’ perché voleva fare qualcosa di diverso, prese a frequentare altri ambienti anche se con le stesse finalità.
Andò così in Tribunale, a seguire alcuni dibattimenti penali e, anche se ci capiva poco, passava ore a guardare attraverso le sbarre della gabbia ove erano rinchiusi gli arrestati in attesa di giudizio, giusto per osservarli. Li vedeva a capo chino, parlare preoccupati con i loro difensori oppure seduti, le mani a sorreggere la testa, incerti per il loro futuro. Sì, tutto ciò lo rincuorava.
Poi iniziò con i funerali ove si imbucava facilmente; controllava gli annunci mortuari il giorno prima e poi andava alla messa, seguiva il corteo fino al camposanto assistendo a tutte le operazioni successive compresa l’inumazione o la posa della lastra. Il fatto che tutto quello che vedeva riguardasse qualcun altro era rasserenante e migliorava notevolmente il suo umore.
Libero com’era da impegni di lavoro aveva poi preso anche a viaggiare; una volta arrivò sino a Calascura Marina, dov’era sepolto il Santo cui lui era tanto devoto. Si era ripromesso per tutta la vita di andare sulla sua tomba a pregare, senza riuscirci mai, vista la notevole distanza da casa. Ora era era arrivato il momento. Si prese tutto il tempo necessario facendo persino una visita guidata alla Basilica e alla Cripta del Santo.
Nel pomeriggio, prima di ripartire, andò invece nella sala attesa dell’ospedale del luogo. Ormai era diventata la sua routine. Era rassicurante vedere che erano altri a dover soffrire.
Stava appunto osservando una bambina che giocava tra le ginocchia della mamma che la accarezzava dolcemente — la bambina aveva una vistosa fascia che le copriva un occhio — quando entrò nella sala l’infermiera: era una donna bassa ma corpulenta, dai modi bruschi e spicci. Disse qualcosa nel dialetto del luogo che non capì. Poi fece alcuni metri nella sua direzione.
«Signor Guidi, sto chiamano proprio lei, ma non mi ha sentita?»
Lui si ridestò come da un sogno.
«Io?» fece sorpreso. «Guardi che ci deve essere un equivoco, io non sono di qui… sono in gita. Mi ha confuso sicuramente con qualcun altro.»
«Lei è Ernesto Maria Guidi, vero?»
«S..sì» rispose lui ancora più disorientato.
«E allora si sbrighi, su, venga con me, non mi faccia perdere tempo. Il Primario questa mattina ha visto le sue lastre e non ci sono affatto buone notizie per lei. Venga, venga da bravo… che glielo spiega meglio lui.»
[space]

Questo racconto è stato inserito nella lista degli Over 100.
Scopri cosa vuol dire –> Gli Over 100