Barbarella

Lens guardava le sue arnie e aveva voglia di piangere. Era il terzo mattino di seguito che trovava diverse api morte all’ingresso dei ripari. Alcune erano a zampe in su, con l’addome rigonfio, altre erano agonizzanti, le ali sbattute all’impazzata nell’aria come fossero rinchiuse in una bolla invisibile; altre ancora vagavano in tondo spaesate.
«Venegutt, hai ripreso ad utilizzare il pesticida, è vero?»
Lens aveva scavalcato la recinzione e si era inoltrato nel terreno del vicino. Ora gli era davanti con la faccia furibonda. La voce gli tremava dalla rabbia.
Venegutt, dall’alto del trattore, procedeva lento nel campo. Teneva le mani ben salde sul volante come se dovesse far attenzione a evitare le vetture che gli sopraggiungevano contromano. Dopo un po’ il contadino si tolse la sigaretta dalle labbra e fece segno al vecchio che non sentiva bene quello che gli stava dicendo: il rumore del motore era troppo forte. Anche se in realtà aveva capito benissimo.
«Spegni questo catorcio di trattore e dimmi se stai usando di nuovo quel pesticida vietato che mi avevi promesso di non utilizzare più» gli urlò il vicino puntandogli contro il dito ossuto. «Mi stai massacrando tutte le api, maledetto testone…»
Ma Venegutt, fece segno che si stava facendo tardi e che avrebbero parlato con lui più tardi. E lo lasciò lì in mezzo al campo come uno spaventapasseri da buttar via.
Il vecchio se tornò indietro furibondo. Dando calci da tutto quello che trovava sul suo cammino.
E anche il giorno dopo Venegutt non ebbe tempo per parlare con lui, avendo trovato non so quante e quali scuse mentre le api, una dopo l’altra, morivano nel peggiore dei modi.
Lens non riusciva a darsene pace. Aveva messo tutti i suoi risparmi in quelle nove arnie e con quello che riusciva a ricavare con il miele arrotondava anche se di poco la magra pensione. Senza contare che si era affezionato alle sue api e non sopportava di vederle soffrire così.
Pensò e ripensò cosa poteva fare. Denunciare il vicino? Far intervenire le forze dell’ordine? Passare alle maniere forti? Tutto però gli sembrava inutile e soprattutto non tempestivo.
Poi l’indomani accadde quello che qualsiasi apicultore non vorrebbe mai voler sentire. Nessun ronzio si levava più dalle arnie. Solo il silenzio. Un pesantissimo silenzio.
Lens si aggirò incredulo tra le cassette di legno. Le scoperchiò una dopo l’altra: erano completamente vuote. C’erano qua è là solo delle nuove api morte, ma l’intera colonia non c’era più. Avevano dunque preso con evidenza la decisione più saggia per la loro sopravvivenza; erano semplicemente sciamate via.

Centinaia di metri più in là, Venegutt stava guardando la tv nella saletta di casa sua. Stava aspettando che fosse pronta la cena.
Rose, la sua piccola di sette anni, stava cercando la bambola preferita. Non era sotto il letto e neppure tra i cuscini della poltrona. La bambina controllò nella lavatrice e, visto che c’era, anche nel frigo. Poi aprì con le sue manine l’armadio dei suoi. Doveva essere lì, pensò. A volte Barbarella faceva la stupidina e si nascondeva nei posti più impensati, perché le piaceva tanto fare la preziosa. Lei la conosceva bene.
Quando aprì l’anta la sua attenzione fu attirata, però, da una forma oblunga che sembrava viva tutta attorcigliata com’era al cappotto della mamma. E poi quella forma strana emetteva un ronzio grave e melodioso. Quasi ipnotico. Era proprio bella. Rose sorrise e allungò la mano per saggiarne la consistenza.

Gemelli diversi

«Sei già qui?»
«Buongiorno anche a te, caro fratellino…» disse Helmet entrando in casa. Si era appena addentrato di un metro nel corridoio e già lo avevano assalito i mille odori della sua infanzia. E si sentì schiacciare.
Dag gli diede le spalle in un attimo, tornandosene nella sala. Una credenza in noce aveva le ante aperte, lo scrittoio aveva i cassetti che penzolavano nel vuoto e il contenuto di una cassapanca era sparpagliata sul pavimento.
«Sembra che ci siano stati i ladri!» commentò sarcastico Helmet guardandosi in giro con le mani in tasca.
I due fratelli si assomigliavano oramai solo per lo sguardo. Mentre quando erano giovani parevano uno la replica dell’altro, la vita li aveva profondamente modificati nel carattere e nell’aspetto. In particolare, Dag, per colpa di un improvviso rovescio economico, si era ammalato di una forte depressione che gli avevano fatto perdere peso e capelli imbruttendolo. L’altro gemello invece aveva goduto sia di fortuna che di salute: si era trasferito prima a Londra e poi in America ove era diventato un apprezzato e ricco project manager di una grande società internazionale. I rapporti tra loro, con il tempo, erano diventati pessimi.
«Invece è solo una casa vuota dopo la morte di nostra madre…» fece Dag acido «…di cui il Nostro Grand’uomo si sarebbe accorto se fosse arrivato per tempo per il funerale.»
«Non è colpa mia se mi trovavo in Asia per un ciclo di conferenze» disse con sufficienza Helmet lasciandosi cadere su una poltrona. «E dimmi… hai già trovato qualcosa di nostra madre da poter rivendere facilmente?»
Dag si girò a fulminarlo con lo sguardo e poi gli sibilò: «Proprio su quella poltrona ti dovevi sedere?»
«Io e la mamma abbiamo sempre avuto gli stessi gusti.»
«Ah… se è per questo, c’è molto di più!»
«Cosa vuoi dire?»
«Ti ricordi nostra madre che quando eravamo piccini scherzava sempre su fatto che eravamo così uguali che era facile scambiarci l’un con l’altro?»
«Ancora con questa storia?»
«Non è una storia, è tutto nero su bianco, caro il mio fratellino… Ho trovato il diario di mamma.»
«Mamma teneva un diario? Fammelo vedere!» disse Helmet alzandosi dalla poltrona e protendendo una mano.
«A suo tempo… a suo tempo.»
«E cosa c’è scritto?»
«C’è scritto che una sera, al ritorno di nostro padre dal lavoro, era trascorsa sì e no una settimana dal parto, lei lo ha accolto in lacrime confessandogli che facendoci il bagnetto si erano slacciati entrambi i braccialetti con i nostri nomi. In altre parole, non era più in grado di sapete chi era Helmet e chi Dag. Eravamo così identici…»
«Ma non è vero, ti stai inventando tutto…»
«Non è una storia, è tutto nero su bianco, ti dico. I nostri genitori sono rimasti entrambi nell’incertezza fino a quando non hanno dovuto iscriverci a scuola.»
«Insomma, dove vuoi andare a parare?»
«Che ci hanno iscritto a caso, tirando la monetina… abbiamo da allora avuto due istruzioni diverse, due esperienze adolescenziali differenti, due differenti modi di vivere per via di quello sbaglio iniziale.»
«Ma quale sbaglio?»
«Certo, uno sbaglio e ora ne ho le prove. Ho trovato anche la cartella clinica del parto. Bastava leggerla quando era il momento…»
«Cosa c’entra ora la cartella clinica del parto?»
«C’entra centra… durante il parto c’è stata subito una complicazione e per il primo bambino hanno usato il forcipe… L’ostetrico ha lasciato maldestramente una piccola lacerazione, poi subito guarita, sul collo di quello che fu poi chiamato Neonato 1. E al Neonato 1 è stato impartito il nome di Helmet… caro fratellino e tu eri il Neonato 2 con il nome di Dag.»
«Cosa stai dicendo?…» fece Helmet sempre più agitato.
Dag si girò di scatto e scostando un poco i capelli di lato sulla nuca mostrò orgoglioso al fratello una piccola cicatrice.
«Tu ce l’hai questa?» fece lui con gli occhi severi. «Tu sei Dag e io sono Helmet. Questa è la triste verità. Tutto quello che è capitato a me doveva capitare a te e tutta la tua fortuna doveva essere la mia. Hai rubato la mia vita.»
Per un attimo ci fu silenzio. Helmet era rimasto con la bocca aperta. Poi Dag si accasciò a terra e iniziò a piangere a dirotto.

Sostituzioni

Il treno viaggiava sul filo dei trecento orari anche se la pianura si muoveva pigramente sotto ai loro occhi.
«Cosa vai a fare a Milano?» fece Francesco non smettendo di guardare fuori dal finestrone. Stracci di nebbiolina candida intanto galleggiavano eleganti sopra alle zolle scure smosse nei campi.
«Ho una riunione sindacale, sai, quella semestrale…» gli rispose Mario.
«Una vera scocciatura, allora…»
«Ma no dai… queste cose mi piacciono e inoltre mi hanno offerto la direzione interregionale.»
«Caspita, bel colpo… eh già, è vero, a te garbano questi incarichi. Ma non ti manca fare il macchinista?»
«Un po’ e a volte… soprattutto quando sto un po’ troppo dietro a una scrivania. E tu cosa ci vai a fare, invece?»
«Mi hanno messo sulla tratta Milano-Venezia per un mese, hanno aumentato le corse» gli disse con un velo di preoccupazione.
«Capisco.»
Nel frattempo, era arrivata la hostess di bordo. I tre si scambiarono un cenno d’intesa, segno di una pregressa amicizia. Francesco prese il giornale e Mario uno snack salato. Lo scompartimento era tutto pieno. Per lo più uomini e donne d’affari chini sui loro laptop o su telefonini di tutte le dimensioni.
Il cellulare di Francesco si mise a suonare.
«Ciao, Marta…»
«Ciao, Francesco…»
«Perché hai questo tono di voce? È successo qualcosa?»
«Sì, sono molto preoccupata per Roberto… è uscito questa mattina lasciandomi un biglietto sul tavolo della cucina. Ha scritto che la vuole fare finita… che dopo quello che è successo non ce la fa più ad andare avanti.»
«Ma sta così male?»
«Ultimamente si era un po’ ripreso, ma poi ha avuto un altro tracollo… questa notte è stato un inferno: era agitatissimo, andava avanti e indietro per la casa che sembrava una volpe in gabbia. Piangeva e si disperava come fosse stato il primo giorno. Io non ce la facevo più a vederlo in quello stato e così mi sono presa un sonnifero. Mi sono svegliata solo ora e andando in cucina ho letto questo biglietto… Dio mio cosa vorrà fare, France?»
«Vedrai che non farà stupidaggini… lo conosco bene; ha ancora te e tua figlia del resto… il senso di responsabilità prevarrà sicuramente… Hai provato a chiamarlo al cellulare?»
«Certo, in continuazione, ma risulta sempre staccato. Non so, ho paura. È la prima volta che scrive una cosa simile. Ha sempre reagito ma ora mi sembra un sacco vuoto. E poi… e poi ha anche scritto che ha passato una vita da macchinista su treni e morirà come tale… Guidare un treno è l’unica cosa che lo ha reso felice. Capisci? Come se noi non contassimo più nulla. È andato fuori di testa, France, succederà qualcosa di brutto, me lo sento…»
«Marta, devi avvertire subito il capo servizio per diramare lo stato d’allerta. È estremamente pericoloso per l’incolumità dei passeggeri. Pilota un treno ad alta velocità che, se non sbaglio, va giù a Salerno…»
«No, France…»
«Come no?»
«Non l’hai saputo? L’hanno messo a sostituire il Ganci che si è ammalato improvvisamente. Ora sta pilotando l’AV che porta a Milano. Proprio quello su cui state viaggiando voi.»

Il filtro

Oliver aveva scaricato sullo smartphone un nuovo filtro per le fotografie. Era una app davvero geniale. Era possibile trasformare gli oggetti in buffi animaletti da cartone animato, così come era possibile farlo per le persone. Ne aveva visti diversi di questi applicativi, ma una app così divertente non l’aveva mai trovata.
Quando tornò a casa fotografò il gatto per trasformarlo in un simpatico sottomarino giallo, ma quando vide la foto si accorse che c’era anche qualcos’altro che non avrebbe dovuto esserci. Il gatto era effettivamente diventato il sottomarino sperato, che parlava e sbuffava, ma dietro di lui, sullo sfondo, appena sopra un pensile della cucina, c’era dell’altro che non aveva subito alcuna trasformazione grafica. Nella foto era una macchia scura rannicchiata, un po’ pelosa. Per capire meglio di cosa si trattasse, prese una sedia e ci salì. A parte la polvere, però, il pianale era completamente vuoto. Gli venne allora in mente di scattare con il filtro un’altra foto in quello stesso punto, e nell’immagine subito gli comparve di nuovo quell’animale a metà strada tra un pipistrello e una lucertola eretta sulle zampe posteriori; lo stava fissando ed era a pochi centimetri da lui. Per poco non cadde dalla sedia. Quella strana cosa insomma non si vedeva ad occhio nudo, ma solo attraverso la app del cellulare. Ed era viva, ed era nella sua casa.
Il primo istinto fu quello di scappare. Ma volle fare un ulteriore controllo. Scattò altre foto con lo stesso sistema in diversi punti della casa. E così scoprì che c’era un’altra bestiola simile, altrettanto invisibile a occhio nudo, sulla sua poltrona preferita e un’altra ancora sul tavolo della cucina oltre a un paio sull’armadio dell’ingresso e persino nel portaombrelli. Quegli strani animali non sembravano badare a lui. Non più grandi di una ventina di centimetri, erano dotati di forti unghie adunche e denti che fuoriuscivano dalle mascelle solide. Erano orribili a vedersi, tuttavia parevano tranquilli, quasi sedati. Ciondolavano curiosi, lentamente, qua e là oppure se ne stavano raggomitolati in un angolo a dormire come animali da compagnia. Qualunque cosa fossero, però, pareva avessero preso possesso di casa sua.
Quella sera, preoccupato e inquieto, andò a dormire da un amico. Gli fece anche vedere le foto scattate, giusto per spiegargli cosa era successo; di quegli strani animali però, nelle foto, non c’era più traccia. Oliver non se ne capacitava.
«È semplicemente casa tua» gli disse l’amico controllando bene le immagini. «Forse hai visto delle ombre e le hai interpretate come chissà cosa. In realtà sei tanto stressato dal lavoro. Te lo dico sempre. Anche se da qualche tempo lo sei in modo piuttosto preoccupante. Dovresti concederti un po’ di tregua, Oliver. Stacca un po’. Domattina, invece di andare al lavoro, vai a farti un giro in montagna. Ti piace tanto… così ti rilassi.»
Oliver, lì per lì, gli disse che ci avrebbe pensato. Ma poi l’indomani non resistette e tornò a casa sua. Doveva saperne di più.
Così quando aprì la porta di ingresso accese la luce e tirò fuori il cellulare.
Scattò foto a ripetizione con il nuovo filtro, ma era tutto sgombro. Corridoio, sala, cucina, bagno.
Forse il suo amico aveva ragione, dopotutto. Era stanco. Chissà cosa si era immaginato. O magari era un bug della app.
Si stese allora sul letto. Aveva bisogno di farsi una doccia e di cambiarsi.
Chiuse un attimo gli occhi. Li sentiva arrossati. Avrebbe voluto volentieri dormire un poco. Ma non poteva. La giornata era lunga. Ed era probabilmente in ritardo.
Quando riaprì le palpebre quegli strani animali erano tutti intorno a lui; erano un accanto all’altro, in modo ordinato, in silenzio: sul letto, sul comò, sull’armadio, sul lampadario. Erano centinaia e centinaia. Ora lui li vedeva bene anche senza la necessità del filtro del cellulare. Lo guardavano fisso. E poi lo attaccarono all’improvviso e all’unisono, cominciando a sbranarlo.

La chiamata

Era la prima volta che Tiberio dormiva alla Torre Galimberti. Non capiva le necessità in quel luogo di un custode anche di notte. È ben vero che vi fossero stivate ai piani inferiori molte opere d’arte che non avevano trovato posto al vicino Museo Gaddi, ma era anche certo che non si erano mai verificati furti negli ultimi cinquecento anni. Così gli avevano assicurato. Forse semplicemente perché nessuno sapeva di quel posto circondato da ampio giardino fortificato; oltretutto, per sicurezza e per non dare nell’occhio, i pochissimi carichi e scarichi delle opere erano sempre avvenuti in piena notte.
Il suo compito era dunque di occupare l’ultimo piano della torretta dove, accanto al letto, ronzavano numerosi monitor collegati a sensibili fotocamere dislocate nei punti strategici del perimetro. Gli sembrava di essere in piena campagna e il silenzio era pressoché totale se non fosse stato per i canti degli uccelli notturni. Eppure, si trovava a meno di cento metri dal Duomo e da casa sua, pensò. Quel senso di isolamento lo inquietava un poco ma era disoccupato da troppo tempo e a quarant’anni doveva ritenersi fortunato di aver trovato quell’impiego, anche se grazie alla zia del cugino. Bastava non pensarci e le sette del mattino sarebbero arrivate in un baleno.
Erano circa le due di notte quando sentì un coro di voci bianche. Si svegliò di soprassalto. Aprì gli occhi a fatica e fu come se dal soffitto in legno fosse entrato un potente fascio di luce gialla che gli illuminava il letto. Il cuore prese a battergli a mille.
«Ti annuncio che sei stato chiamato…» fece la Voce profonda e ferma. «Fra tre giorni Lui verrà da te e ti parlerà del suo disegno imperscrutabile… Dovrai abbandonare la tua vita di agi e mollezze, vestirti d’un saio grigio e vivere nella più totale povertà, fede e obbedienza…»
«Vivere in povertà… ?» chiese Tiberio spaventato cercando di vedere chi stava parlando con lui. «Se è per questo già ora non ho un euro da mettermi in un occhio per cui non sarebbe una gran rinuncia… Ma tu chi sei?» Più cercava di scrutare attraverso la luce e più rimaneva accecato. I muri della sua stanza erano nel frattempo spariti, vedeva la natura attorno a sé in pieno giorno e un’ondata di calda felicità e di calma ieratica lo stavano pervadendo. «E… a dirla tutta… quanto a fede» disse scivolando dal materasso e mettendosi in ginocchio «sono piuttosto scarsino…. anzi ti devo confessare che credo poco persino in me stesso…»
«Tu sei un brav’uomo… lo sappiamo bene, e quando Lui apparirà tu sarai stato già raggiunto dalla Grazia piena diventando un soldato di Dio…» il tono adesso era in crescendo, solenne e celebrativo, quello delle grandi occasioni bibliche. «E ti recherai sulla collina più alta della città e, dopo quaranta giorni e quaranta notti, durante i quali lotterai strenuamente ma da vincente contro il Diavolo, edificherai una cattedrale per la rinnovata Pace tra Dio e gli Uomini per i secoli a venire…»
«Mi sembra piuttosto impegnativo…» fece lui schermendosi «vivo ancora con i miei e non mi rifaccio neppure il letto, figuriamoci se sono in grado di costruire una cattedrale… tuttavia se è per la Pace nel mondo… potrei tentare… hai visto mai? Mi ricordo che da piccolo ho costruito un piccolo ricovero per tartarughe…»
«Lui ti dirà cosa, come e quando cimentarti nell’intrapresa che ti è stata affidata, Settimio: sarà la Chiesa più grande e la più imponente al mondo e si potrà vedere sin dalla Luna.»
«Addirittura? Però se mi assicuri che sono io il Prescelto, ebbene lo farò… farò un botto di follower sui social, ne sono sicuro… abbandonerò la mia vita guduriosa tra fast food, videogiochi e partite allo stadio e mi consacrerò totalmente a Dio costruendogli la Chiesa che vuole… eccheccavolo! Forse questo è davvero lo scopo della mia vita. Ehi, un momento… perché mi hai chiamato Settimio? Guarda, Coso, che io sono Tiberio!»
«Tiberio? Come, non sei Settimio Astolfini?» domandò stupita la Voce perdendo l’aplomb.
«No, sono Tiberio Giangi detto “il Ganga”… Settimio Astolfini è a casa con il COVID. Mi è stato chiesto all’ultimo momento di sostituirlo, qui come custode.»
Si fece silenzio.
«Ma perché non mi dicono mai niente!» disse a un certo punto la Voce attraverso la luce sempre accecante. Seguì un parlottare concitato e poi: «Va bene, scusa…» fece la Voce spegnendo la luce e abbassando il coro di voci bianche: «fai finta che non ti abbia detto niente; c’è stato un errore di persona… torna pure a dormire.»