«Proprio una pessima giornata!» sentì dire non appena arrivato alla porta. Tiberio sbirciò fuori. Era una giornata di pieno sole come non se ne vedeva da tempo. Anche se era mattino la luce prepotente che stava sorgendo a est illuminava un cielo che prometteva una meravigliosa giornata. Tiberio si voltò verso la persona che doveva aver pronunciato quella frase e vide un uomo di colore che stava ancora scuotendo la testa preoccupato.
«Una pessima giornata?» gli scappò di dire. «Ma se c’è un sole stupendo!»
«Tu non dici così se hai tutti quegli ombrelli da vendere, dottore» disse l’uomo guardando Tiberio con un sorriso disarmante. Alle sue spalle aveva un carrettino pieno zeppo di ombrelli che fuoriuscivano da una sacca grossa e ingombrante. «Io detto loro: ‘cosa fare io a Capaglossa in giornata radiosa come questa? Come possibile vendi ombrelli?’ ma loro niente…. Gente cattiva loro, sai…» fece scuotendo davanti a sé il palmo aperto della mano come se stesse salutando. «Loro dicono: ‘vai… vai… lo stesso‘.»
«E quindi che fai oggi con tutti questi ombrelli?» chiese Tiberio, preso ormai dalla conversazione.
«Allora io vado in campo appena qui fuori e sotterro ombrelli e poi torno a prendere quando piove… così loro contenti… Gente cattiva cattiva, sai…» e ripeté lo stesso strano movimento con la mano di prima.
«Ma quando torni loro vorranno i soldi degli ombrelli visto che non li avrai più con te…»
«Lo so, dottore… tu intelligente… tu studiato…»
I due si guardarono con aria interrogativa. Poi l’uomo di colore tornò a sorridere:
«Mi arrangio, dottore…» gli disse alla fine dandogli una leggera pacca sulle spalle.
Nel frattempo, il treno era arrivato a Capaglossa. Come al solito, un mucchio di ragazzi si stringeva intorno alle porte fin quasi a impedire il rapido deflusso di chi volesse scendere dal treno.
«Fai passare prima chi esce poi entra…» disse l’uomo di colore tirandosi dietro il carrello pieno di ombrelli e strattonando le persone davanti a lui. Poi, ancora pochi metri, e Tiberio non lo vide più, fagocitato dalle decine e decine di ragazzi che si affrettavano schiamazzando a salire sulle carrozze.
‘Che strana storia…’ rifletteva tra sé e sé Tiberio mentre stava guadagnando l’uscita. ‘È triste pensare che ci sia un racket persino per gli ombrelli e che poveri diavoli così ne siano vittima’.
Poi passò davanti al bar. Guardò l’orologio per sapere se aveva ancora qualche minuto per prendere un caffè. Ma l’orologio non c’era più.
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Treno, amore mio
La sala della esposizione, gremita di gente, era enorme con un unico immenso plastico di centinaia di metri quadrati che correva lungo tutto il perimetro. La ricostruzione era stata maniacale non solo per la riproduzione reale e in scala delle montagne, dei fiumi, delle centrali elettriche, delle case e delle stazioni ferroviarie, ma anche per i piccoli particolari curati, come i vestiti delle persone in attesa di prendere il treno, i cerchi degli pneumatici delle vetture in strada e persino per un cane colto nell’attimo di fare la pipì su un lampione. Ed erano riusciti inoltre a riprodurre addirittura le doghe delle panchine, le foglie degli alberi e finanche gli scoiattoli sui rami. E in questo mondo di perfezione viaggiavano e si intersecavano locomotive e vagoni di ogni tipo e foggia in un andirivieni continuo e complesso: le motrici si fermavano alla loro stazione, ripartivano, facevano manovra agganciando e sganciando vagoni; davano insomma l’idea, nell’insieme, di muoversi all’interno di un preciso ordine programmato, scandito da semafori rossi e verdi. Avevano fatto un lavoro magnifico, non c’era niente da dire, anche per il sofisticato software di gestione. Altro che spettacolo per bambini!
«C’è scritto dappertutto che non puoi toccare» ammonì il figlio che si stava sporgendo dalla ringhiera di protezione verso una littorina colorata che, in quel momento, sferragliava allungando il pantografo verso la sovrastante linea elettrica. Mariolino ritrasse subito la mano continuando però a seguire con lo sguardo ammirato l’intero convoglio. E subito, da dietro una collina, sbucò una locomotiva a vapore con cinque carrozze al seguito. L’interno, una riproduzione fedele dello stile dei vagoni dell’epoca, era illuminato tanto da potersi ben distinguere le persone sedute nei vari scompartimenti: una signora con la borsa della spesa in grembo, un uomo vestito con un tabarro scuro che fumava un sigaro, un bambino che guardava annoiato fuori dal finestrino.
«Guarda papà, quello è il paesino dove noi abbiamo l’albergo!» gridò Mariolino spostandosi improvvisamente qualche metro più in là e urtando diversi visitatori. Rocco non si mosse. Era come ipnotizzato da quel convoglio che sbuffava arrancando sulla salita. Gli ricordava tanto un trenino della Rivarossi che aveva invidiato al suo vicino di casa. Persino il vapore della motrice aveva la consistenza giusta. Per un attimo, come per farsi notare meglio, il convoglio si fermò proprio davanti a lui.
‘Chissà di cosa sono fatti… se di legno o di ferro…’ si chiese incuriosito e piegandosi per vedere meglio. E la sua mano fu più veloce della domanda.
«Dov’è tuo padre?» chiese la donna rivolgendosi a Mariolino.
«Non lo so mamma, forse si è stufato ed è andato in macchina…»
«Sempre il solito» fece lei sbuffando.
Rocco vide, seduto di fronte a lui nello scompartimento, la donna con la spesa in grembo e, vicino, l’uomo con il tabarro scuro che fumava il sigaro. La signora incrociò per un attimo il suo sguardo restituendogli un sorriso impacciato.
«In carrozza!» urlò il capotreno salendo sul convoglio. Rocco fece appena in tempo a osservare suo figlio che parlava distrattamente con la madre che il treno, con lui a bordo, partì.
«Hai toccato anche tu la locomotiva, vero?» gli chiese il bambino annoiato mentre continuava a guardare fuori dal finestrone.
Era in ritardo
Mentre trascinava con affanno il trolley lungo la strada, Tobia si accorse di quanto stesse ansimando. Si era davvero così appesantito? Faceva proprio così poco movimento? O era l’agitazione della giornata? Aveva comunque messo da conto, come buon proponimento, che con il nuovo lavoro si sarebbe concesso per sé più ampi spazi. Era un posto di responsabilità, quello, e doveva mettersi in forma; il tempo, del resto, era dalla sua.
Entrato in stazione, si indirizzò subito al tabellone elettronico più vicino. Era spento. Soffocando un’imprecazione si girò su sé stesso alla ricerca di un altro display funzionante, ma si accorse, solo in quell’attimo, che l’atrio era completamente vuoto. Nell’ora di punta di un giorno trafficato, come lo era ogni lunedì, non c’era nessuno. Com’era possibile? Raddrizzò la valigia e un sudore freddo si impossessò della sua schiena. C’era tutt’attorno un silenzio appiccicoso, come una vernice densa spalmata sulle cose. L’erba si stava riappropriando dei binari e alcuni gatti si contendevano chissà cosa sulla pavimentazione sbrecciata della sala, ingombra di macchinari arrugginiti come soldati pietrificati in una roccaforte abbandonata. Non c’era dubbio: avevano trasferito la stazione da qualche altra parte e lui non ne aveva saputo niente. Maledisse quel suo vizio di estraniarsi dal mondo intero. E ora? E ora avrebbe potuto anche perdere il treno! Quel treno!
Si precipitò di nuovo di corsa verso l’uscita intercettando un signore di mezz’età con una divisa scura. Avrebbe chiesto a lui le informazioni di cui aveva bisogno. L’uomo, vedendolo arrivare, lo anticipò:
«Lei, scusi, com’è entrato qui?»
«Senta, io devo prendere assolutamente questo treno» fece sventolandogli il biglietto sotto gli occhiali argentati non curandosi della domanda che gli era stata posta. «Mi dica subito per favore dove hanno spostato la stazione… Ma che si sposta una stazione ferroviaria così?»
Il vigilante prese con calma dalle mani il cartoncino che gli era stato allungato e si aggiustò la montatura degli occhiali riposizionandola esattamente nello stesso punto del naso.
«Come fa ad avere questo biglietto?»
«In che senso? L’ho comprato, per via telematica. Come faccio sempre tutte le volte. Perché?»
«Perché non li fanno più così, e da tempo sa?… E poi il suo biglietto è per un treno di trentacinque anni fa…»
«Ma cosa dice?»
«È scritto qui, sul suo titolo di viaggio, non lo vede?… E la stazione ferroviaria l’hanno spostata molto più a nord, verso Alvona; saranno oramai cinque anni.»
L’uomo si era ammutolito.
«Lei quel treno, l’ha perso… oh sì se l’ha perso!» sorrise il vigilante pensando di aver fatto una battuta.
A Tobia, a poco a poco, riaffiorarono tutti i ricordi. Sì, quel treno non l’aveva poi preso. Aveva rinunciato all’ultimo momento a quell’allettante offerta di lavoro, e non si ricordava più neppure perché. Non aveva avuto il coraggio necessario e quell’occasione non si era ripresentata; era rimasto al paese dove si era ingrigito e immalinconito rammaricandosi per sempre di quella sua avventata decisione.
E si mise a piangere, senza riuscire più a smettere.
Il Paradiso non può attendere
Se ne stette così, fermo, in quel silenzio assoluto, senza peso e senza tempo. Fino a quando si accorse che, in lontananza, un puntino luminoso avanzava lentamente verso di lui. Ci volle molto perché capisse che era un Angelo. O meglio era quello che aveva sempre pensato dovesse apparirgli come un Angelo. Era vestito di bianco, la barba lunga, gli occhi azzurri, un’aura iridescente dietro la testa. Si sentiva emozionato: era il primo Angelo che vedeva e soprattutto non c’era dubbio: era in Paradiso. Era certamente venuto a prenderlo per portarlo oltre le porte celesti. Quando gli fu accanto si beò di vederlo sorridere; era imponente, maestoso, la sua vista infondeva pace e serenità. Poi vide che l’Angelo alzò solennemente un dito come per indicare il Signore Altissimo che lo aveva mandato sin lì per lui e, parlando con l’eco, in quel modo cioè che aveva sempre pensato potessero parlare gli Angeli, disse:
‘Avesse ‘na monetina…’
Il regionale delle 23 e 02
«Ti dispiace se mi siedo qui?» chiese la giovane volgendosi attorno come temesse chissà quale pericolo. «Così sono più tranquilla». Il berretto di lana le copriva la fronte e un piccolo strass al lobo scoperto dell’orecchio mandò un luccichio che precedette un vago sentore di mughetto. Il giubbotto similpelle era troppo grande per lei e la faceva sembrare ancora più minuta. Seppe che si chiamava Sonia, che abitava in un paese dell’entroterra e che stava studiando senza molto profitto. Le parole si perdevano distratte nel treno vuoto; finanche il capotreno si era dimenticato di passare e, se non fosse stato per il fatto che ogni tanto il convoglio si fermava ubbidiente in qualche abitato, si sarebbe detto che non vi era neppure il conducente. Dopo mezz’ora il regionale arrivò a Collefili. Ci fu silenzio tra loro, poi Sonia si alzò.
«Ti ho raccontato un mucchio di cose» disse voltandosi ancora attorno. «Ma non ti ho detto la cosa più importante: sono una tossica». Sembrava dispiaciuta, come di chi si fosse pentita di non essere stata sincera. La donna la squadrò con aria interrogativa: non capiva il punto. In quel mentre la ragazza tirò fuori dallo zainetto una siringa che subito puntò sotto il mento della donna; lei si ritrasse, irrigidendosi, e non si mosse neppure quando la giovane le sfilò dalle mani la borsa. Sonia scese in un soffio, poco prima che le porte si richiudessero dietro di lei. Mentre il treno ripartì, la donna e la ragazza si guardarono a lungo negli occhi, senza quasi respirare. Fino a quando la carrozza precipitò nel buio della galleria.