«Guardi, qualcuno ha versato della coca-cola laggiù, sotto il totem grande della pubblicità» fece il ragazzo all’inserviente, vestito di giallo come un canarino.
«Come dice? Ha versato della coca-cola?» fece l’uomo facendo finta di rassettare davanti a sé una busta gialla dei rifiuti sul proprio carrettino elettrico.
«No, non sono stato io, è che camminando ci sono finito con le scarpe sopra, perché il liquido è in una zona d’ombra e non si vede. Può essere pericoloso…»
«Cosa succede?» disse un signore in divisa, forse della sicurezza interna della stazione ferroviaria, avvicinandosi con i pugni piantati sulle proprie anche.
«Questo ragazzo dice di aver versato della coca-coca per terra… laggiù dai totem…» lo informò l’inserviente mettendosi poi subito dopo seduto comodo sul sedile consunto del suo veicolo.
«Ma non è vero!» fece il ragazzo facendo un mezzo passo indietro come per prendere le distanze «sto dicendo solo che qualcuno ha fatto cadere del liquido appiccicoso: ci sono finito dentro tanto da sporcarmi le reebok… e… e per la sicurezza della gente che passa… credo andrebbe pulito subito, volevo solo segnalarlo, ecco.»
«Allora deve venire con me a fare una segnalazione scritta, favorisca da questa parte per cortesia…» fece serio il vigilante puntandogli l’indice nodoso addosso, quasi avesse finalmente scovato il ladruncolo dei resti nei distributori di biglietti.
«Ma non posso, ho fretta, devo prendere il treno… non può bastare che glielo stia dicendo?» sbottò il ragazzo alzando con una mano la sua borsa e indicando con l’altra il tabellone elettronico delle partenze dei treni.
«Ho capito… lei butta la coca-cola per terra, crea un pericolo insidioso per le persone per bene di questa stazione e non vuole formalizzare l’accaduto?» fece il vigilante severo calcandosi il berretto in tinta, pronto per la rissa.
«Non sono stato io, gliel’ho già detto più volte… ho voluto solo avvertirvi che qualcuno l’ha fatto…»
«Qualcuno, vero? Non lei! E come no? È che a voi ragazzi i genitori non insegnano più ad avere rispetto per il prossimo…» fece di rincalzo l’uomo vestito di giallo spegnendo la macchina su cui era seduto.
«La segnalazione scritta è necessaria per avviare un intervento programmato» tagliò corto un secondo uomo in divisa da vigilante, le mani sprofondate nelle tasche. «E poi serve ai fini statistici, per sapere quanti come lei creano un surplus di lavoro per le già scarse risorse del personale.»
Nel frattempo, era arrivato un signore sovrappeso, con il cipiglio da sindacalista e l’aria di voler tenere un discorso. «Questi incidenti si stanno verificando ogni giorno di più, con un aumento esponenziale dell’impegno da parte di ogni singolo povero lavoratore» arringò il gruppo alzando la voce. «È assolutamente necessario al più presto indire un’assemblea sindacale su questo argomento onde rivedere la qualità e quantità degli incentivi aziendali…» aggiunse rivolgendosi a quel punto a una donna, vestita da ferroviere, che nel frattempo si era unita al gruppo. L’ispettrice per un po’ lo ascoltò poi lo interruppe:
«In realtà, per quel che fate, vi stanno pagando fin troppo. Siete sempre in giro per la stazione a ciondolare senza combinare nulla.» La donna era infervorata. Non si capiva a quale categoria di lavoratori in realtà si stesse rivolgendo. Ma insistette. «Le piattaforme sono sporche, i cestini della spazzatura sempre pieni, cicche dappertutto per non parlare dell’atrio biglietteria che è un immondezzaio. Le carrozze dei treni, poi, non parliamone. Bisognerebbe fare l’antitetanica prima di salirci.»
«Ma almeno noi non siamo stati assunti per raccomandazione, mica ce l’abbiamo un paparino a Roma…» fece il sindacalista rifacendo il verso all’ispettrice.
«Ripeta subito quello che ha detto, se ne ha il coraggio» fece la donna togliendosi il cappello per poter urlare meglio. «Lo ripeta e, quanto è vero iddio, la denuncio per oltraggio, molestie sessuali e fancazzismo…»
«Certo!» replicò ancora di rincalzo l’inserviente, ma questa volta fuori tempo, scendendo dal suo veicolo «se però dopo aver pulito ci sono persone come questo ragazzo che butta la coca-cola per terra…»
«A proposito…» fece il vigilante ruotando il busto a destra e a sinistra senza togliere i pugni agganciati alle anche. «Ma dove è finito?»
Il talkabout dello stesso vigilante il quel momento gracchiò:
«Aò… mannate quarcuno a pulire subito qui dai totem… c’è sta ‘n macello pe’ terra… ‘na vecchietta è appena caduta e ha battuto ‘a capoccia…»
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Ticket to ride
Alla reiterazione della richiesta, sempre cortese, dell’uomo in divisa le due ragazze mostrarono il loro titolo di viaggio. Poi, una di loro, quella più carina, si alzò e, dando le spalle all’amica per non farsi sentire, fermò delicatamente per un braccio il controllore.
«Senta, deve intervenire…» gli disse con decisione.
«Prego?» fece lui alzando due sopracciglia a cespuglio. Il profumo costoso di lei gli arrivò alle narici come un’onda tiepida di risacca, riportandogli alla mente dal passato una sensazione piacevole che non riuscì però a mettere a fuoco.
«Deve fare assolutamente qualcosa. La mia amica, qui, non… non è lei…» insistette.
«In che senso non è lei?»
«Nel senso che sembra la mia amica, ma non lo è, me l’hanno sostituita. Poco fa è andata in bagno e quando è tornata non era più lei. Al suo posto c’è adesso un’altra persona. E io ho paura.»
Il controllore squadrò la ragazza facendo un mezzo passo indietro. Si chiese per un attimo se lo stava prendendo in giro. Si convinse però che era seria.
«Mi dispiace signorina ma a me interessa solo che abbia un biglietto valido» fece riavvicinandosi a lei in modo da rientrare nella nuvola di quel profumo che lo turbava. Sarebbe riuscito a recuperare prima o poi quel ricordo. Pensò.
«Che la sua amica non sia davvero… la sua amica è una questione che esula dalla mia competenza.» proseguì lui. «Quando sarà arrivata a destinazione, se proprio è convinta, può fare denuncia alla Polizia ferroviaria.» Quindi la salutò con garbo e proseguì a richiedere i biglietti agli altri passeggeri.
«Cosa ti diceva il controllore?» fece l’altra ragazza, sorridendo, mentre la sua amica riprendeva il proprio posto.
«Niente, niente, Olivia…»
«Come niente? Siete stati a parlare cinque minuti, ti sei pure alzata per fermarlo.»
«Ti ha messaggiato, poi, Carlo? Ci viene a prendere ad Alvòna?» tagliò corto lei.
«No, non ancora… ma che fai… cambi discorso, Rania?»
La ragazza carina adesso era a disagio. Guardava fuori dal finestrone: una catena montuosa innevata era apparsa all’improvviso sullo sfondo del paesaggio e una fascia larga e bassa di nebbia, adagiata lungo tutta la sua base, la staccava dalla terra consegnandola al cielo. In primo piano, invece, si stava avvicinando un ponte strallato, in acciaio, che brillava al sole. Sembrava lo scheletro di un animale preistorico rimasto incastrato tra due colline.
«No no… è che…»
«È, cosa? Dimmelo, ci diciamo sempre tutto, Rania: di colpo ti sei rabbuiata… cosa è successo?»
La ragazza carina non riusciva a trovare le parole. Poi si decise.
«Dunque, lo sai, Olivia… io faccio spesso questa tratta per lavoro e te lo posso quindi dire con assoluta certezza.»
«Cosa, mi puoi dire?» incalzò l’amica.
«Il controllore.»
«Cos’ha il controllore?»
«Appena l’ho visto l’ho capito subito, tanto che ho voluto parlargli per averne la conferma.»
«La conferma di cosa?»
«Il controllore… non è lui… cioè sembra lui… ma non lo è. L’hanno rimpiazzato con un sosia. È un impostore.»
«Oddio, Rania… ma sei proprio sicura?» fece allarmata l’amica «ma è terribile! Chi potrebbe mai fare una cosa simile? E perché?»
«Ma come sarebbe, Olivia, perché? Sei proprio un’ingenua! È tutto organizzato da ‘loro‘, da ‘quelli là‘» disse abbassando il tono della voce e facendo un gesto secco della testa come se si riferisse ai passeggeri dei posti accanto «’Loro‘, ci controllano, sono dappertutto.»
Un treno carico di stelle (seconda e ultima parte)
[RIASSUNTO della puntata precedente: i passeggeri di un treno di lusso sono in viaggio tra paesi europei ed esotici; sembra un viaggio noioso e costoso, quando...] --> leggi la puntata precedente Un treno carico di stelle (prima parte)
Di lì a pochi minuti il treno si fermò di nuovo. Lo fece dando l’impressione che da quel posto non si sarebbe più mosso. Forse per il rumore che aveva fatto nell’arrestarsi, forse per il tipo di frenata.
Molti dei 233 passeggeri cercarono di aprire le porte. Ma erano sigillate con una chiusura centralizzata. L’idea che si era diffusa era che fosse meglio lasciare il treno il più presto possibile, non essendo più percepito come sicuro: qualunque cosa potesse accadere e ovunque i passeggeri si trovassero in quel momento occorreva andarsene. I viaggiatori, come fossero stati un unico animale da preda, avevano fiutato infatti il pericolo. Si pensò quindi che sarebbe stato più sicuro, anche a quell’ora, raggiungere la stazione ferroviaria più vicina o raggiungere una strada per chiedere un passaggio e tornare così in qualche modo a casa. Dopo tutto, pensavano, sarebbero stati protetti dalle norme internazionali e dal passaporto straniero.
Cercarono di entrare anche nella cabina del macchinista per ottenere lo sblocco delle porte, ma era chiusa dall’interno. Uno dei due australiani sparò diverse pallottole della sua 45 contro la serratura per poterne avere ragione, ma non ci fu nulla da fare.
Poi d’un tratto, nella cupa oscurità, si videro dei bagliori lontani come lame di una sofisticata arma sconosciuta; diventavano sempre più vicini fino a diventare abbaglianti. Ben presto non fu più possibile vedere nulla al di là dei finestroni sgranati sulla campagna come enormi occhi ciechi. Qualcuno stava puntando dei potenti proiettori al led contro il convoglio. Erano stati scovati, loro erano lì, e ora forse poteva accadere solo il peggio. Si sentiva infatti parlare una lingua incomprensibile. Qualcuno impartiva ordini secchi, concitati. C’era tramestio, vibrazioni, rumori di cingoli.
Oliver si accorse che a quella luce gli occupanti apparivano pallidi e tesi e la maggior parte di loro era terrorizzata. Si guardavano l’un l’altro come per trovare una spiegazione plausibile per quello che stava loro accadendo; si interrogavano soprattutto su una possibile via di fuga. Non c’era modo però di andarsene, né di comunicare con l’esterno e comprendere quali fossero le reali intenzioni degli insorti, se poi lo erano davvero.
Le due sorelle si misero all’improvviso a urlare dai vetri in direzione delle persone sopraggiunte gridando che loro erano solo turisti e che non costituivano una minaccia. Battevano le mani sui finestroni e gridavano a squarciagola ottenendo solo l’effetto sinistro che le loro voci rimbombassero insicure e disperate all’interno del vagone. Poi rimasero in silenzio percependo tutta loro impotenza.
In quel mentre, iniziò, molto vicino al convoglio, il crepitio assordante delle armi automatiche. C’erano anche colpi di fucile e scoppi di bombe e di mortaio. Tutti gli occupanti si stesero immediatamente sul fondo. Tranne i due australiani che si misero a sbirciare fuori cercando di venirne a capo. Poi ci furono altre esplosioni, urla agghiaccianti, strepiti, boati. Gli spostamenti d’aria facevano vacillare il vagone facendo sentire gli occupanti in balia di una forza oscura e soverchiante. Ben presto però si accorsero anche che, nonostante i vagoni fossero sotto quelle luci abbacinanti e che ci fosse tutto quello strepito e confusione, non un colpo d’arma da fuoco li stava colpendo. Era in atto una battaglia, era certo, ma loro non costituivano il bersaglio. Non si capiva bene chi stesse combattendo chi, ma di fatto il treno si trovava in mezzo ai belligeranti.
Fu quello il momento in cui si avvertì un tonfo.
Temettero tutti che qualcuno stesse cercando di forzare una porta per fare irruzione nel vagone. L’uomo che viaggiava con il figlio si piazzò appena dietro un ingresso. Brandiva un grosso coltello che luccicava ad ogni esplosione. Le due sorelle erano poco distanti. Si tenevano per mano incitando però con gli occhi l’uomo a fare qualcosa. Non sembrava tuttavia che il rumore provenisse davvero da quel punto. Pareva piuttosto che qualcosa avesse colpito un vetro.
Quando un proiettore che illuminava a giorno il convoglio cambiò angolazione fece intravvedere di cosa si trattava: era una mano mozzata rimasta appiccicata al finestrone e ora stava scendendo lentamente verso il basso lasciando una striscia di sangue sotto le dita e il palmo aperto. Ad Oliver parve di riconoscere tra quelle dita un anello che aveva notato fosse stato Abner a portare, ma non ne sarebbe stato poi così sicuro.
Le tre ‘dame’, questa volta, urlarono all’unisono spostandosi istintivamente dalla parte opposta del vagone. La donna misteriosa si era messa invece, stupita, a fissare la mano mozza; la seguiva con attenzione, incuriosita, mentre scendeva sbilenca sul vetro come fosse stato un raro esperimento scientifico, fino a quando non si staccò per cadere senza rumore tra i binari. Poi anche la donna cadde riversa da un lato. Un proiettile vagante, entrato nel vagone chissà come e chissà da dove, l’aveva appena attinta alla gola. Oliver si gettò su di lei per prenderla al volo e impedirle di battere la testa. L’appoggiò lentamente sul fondo dello scompartimento per poi vederla spirare tra le sue braccia affogata nel suo stesso sangue. ‘Che brutta morte!‘ ebbe solo modo di pensare, in quel momento.
«Dobbiamo uscire di qui…» fece il secondo australiano con uno sguardo che brillò nel buio «… o ci faremo ammazzare tutti.»
«Ce l’ha un’altra pistola da darmi?» chiese l’uomo anziano con la polo blu.
«Ci sono dei coltelli nella cucina del ristorante…» svelò l’uomo che viaggiava con il figlio mostrando il proprio di coltello.
In quell’istante, quasi fosse stata una risposta, con uno strattone che per poco non fece cadere i viaggiatori, il treno prese a muoversi di nuovo, ma con la stessa lentezza delle ultime ore.
In capo a una mezz’ora il convoglio si era lasciato dietro le luci fredde dei proiettori e i rumori della battaglia. Poi si arrestò di nuovo nella campagna infinita. Ora era il silenzio che la faceva da padrone ad avvolgere ogni cosa come un sudario. L’interno del vagone era nuovamente nell’oscurità più totale; si udivano qua e là dei pianti sommessi: difficile capire da chi provenissero.
Quindi, d’un tratto, si avvertirono degli scatti metallici. Era lo sblocco delle porte.
Subito tutti si precipitarono verso le uscite del treno e in pochi minuti i passeggeri furono sulla massicciata all’aria pulita e tersa della notte che pareva volerli mondare da ogni brutto ricordo.
Il cielo sopra di loro era ingombro di stelle. Oliver si guardò in giro. La massa scura del treno alle sue spalle era un animale preistorico appena addormentato. Gli arrivò un lontano rumore di risacca e il profumo del mare, quasi una promessa di salvezza ancora tutta da mantenere.
Poi, in un attimo, come topi usciti da un tombino allagato, i viaggiatori sparirono in tutte le direzioni. Incontro ciascuno al proprio destino.
(fine)
Leggi –> Dietro al racconto
Un treno carico di stelle (prima parte)
Ad Oliver era sembrata una buona idea regalarsi per il suo pensionamento quel viaggio tanto reclamizzato. Più di tremila chilometri di fascino e mistero tra paesi ricchi di storia. Così c’era scritto sulla brochure. Ma, a parte un paio di capitali degne di nota, l’unica cosa piena di fascino e mistero, convenne, era rappresentata da una donna di mezza età, molto piacente, che se ne stava sempre in disparte, su una poltroncina tutta sua a guardare, senza mai stancarsi, dal grande finestrone dello scompartimento. Anche i pasti li consumava nel sontuoso vagone ristorante sempre da sola, mangiando poco e lentamente, con triste svogliatezza. Aveva cercato di saperne di più su di lei ma inutilmente, così come avevano avuto scarso successo i suoi timidi tentativi di avvicinarla.
Nello scompartimento, oltre a lei, c’erano altre tre donne attempate (le “dame” come le aveva soprannominate Oliver) che non stavamo mai zitte; dal momento della colazione fino a quando non bevevano lo cherry della buonanotte era tutto un chiacchiericcio fitto fitto, frammentato da risate sonore e rapidi cambi acuti di tono.
Inoltre c’erano due uomini d’affari australiani, vestiti in modo impeccabile, che parlottavano tra loro sommessamente, fumando un sigaro perenne, senza neppure dare un’occhiata al mondo che sfilava loro accanto. Se si fossero trovati anche altrove, che so, all’ora di punta sulla metropolitana affollata di Sidney, per loro sarebbe stato lo stesso. Completavano la carrozza un padre quasi completamente calvo con il figlio piccolo, due sorelle gemelle e un uomo anziano distinto con una polo blu elettrico.
Insomma, un viaggio noioso. Costoso e noioso. Si disse Oliver, tra sé e sé.
Poi il treno perse slancio fino a fermarsi in aperta campagna, quasi avesse perso la voglia di proseguire.
Fino a quel momento il viaggio era stato rigorosamente rispettoso della tabella di marcia, nonostante l’enorme tragitto trascorso e i molti paesi stranieri attraversati. Sicché quella fermata colse tutti di sorpresa.
Dopo circa dieci minuti passò tra i vagoni Abner, il capotreno/leader group, che annunciò pomposamente, come il maggiordomo di un antico manor inglese, che erano in attesa di istruzioni da parte della Centrale operativa di Edimburgo; non c’era comunque nulla di cui preoccuparsi. Ben presto avrebbero ripreso il viaggio e recuperato il tempo perduto. Nel frattempo, per scusarsi del disagio, il Tour Operator offriva ai passeggeri una flûte di Krug per ingannare l’attesa.
Purtroppo, a quei dieci minuti se ne aggiunsero altri e altri ancora.
Dopo due ore in cui ormai regnava malumore e disappunto generali, Abner via interfono avvertì che la situazione era precipitata e che, ci tenne a precisarlo più volte, ciò non dipendeva dall’Organizzazione. Nel Paese in cui si trovavano si era verificato un colpo di Stato: proseguire poteva essere pericoloso essendo la campagna battuta da rivoluzionari armati.
I due australiani, all’annuncio, si erano a quel punto alzati. Entrambi avevano estratto dal panciotto un revolver. L’uomo più alto, con la barba curata, teneva in mano addirittura una Smith & Wesson cal. 45 a sei pollici, alla cui vista le tre dame si misero una mano davanti alla bocca per non gridare. La donna misteriosa invece continuava a guardare fuori dai vetri, completamente assorta nei suoi pensieri, come se non avvertisse alcun pericolo. Le due sorelle erano al loro posto, agitate, mentre l’uomo che viaggiava con il figlio, in preda anche lui a un evidente nervosismo, si era messo ad andare avanti e indietro per il vagone. Oliver avrebbe voluto volentieri invitarlo a sedersi, ma lo sguardo allucinato dell’uomo lo dissuase.
Dopo il tramonto le luci all’interno del treno non furono accese. Era per motivi precauzionali, fu detto. Era una notte senza luna e il buio avrebbe protetto il convoglio che sarebbe diventato così invisibile.
Arrivò il momento della cena, ma nessuno volle mangiare, neppure i piatti freddi che il ristorante aveva appositamente preparato per gli ospiti; così come nessuno volle ritirarsi nel proprio scompartimento per la notte. Dormire non sarebbe stato possibile. Regnava infatti sgomento e preoccupazione anche solo per l’atmosfera cupa e tesa che si era venuta a creare. Persino le tre dame si erano azzittite del tutto.
Inaspettatamente, erano appena passate le due, il treno si rimise in movimento. Procedeva in modo cauto, quasi non volesse far rumore né dar conto al mondo della propria esistenza. La campagna era nera a ricordare il fondo di un pozzo e, ogni tanto, l’ombra furtiva di un albero che sfilava accanto al treno sembrava un fantasma che gridava loro di scappare.
Alle tre e un quarto, mentre il convoglio procedeva ancora a passo d’uomo, si sparse la voce che Abner era sparito. Non era più sul treno, questo era certo. Lo avevano cercato per ogni dove, senza alcun esito. Questo fatto, come se la misura fosse stata colma per tutti, scatenò il panico.
Continua la prossima domenica --> Un treno carico di stelle (seconda e ultima puntata)
Vuoto pneumatico
Quando fu svegliato dalla moglie era già tardi. E lui odiava fare tutto in fretta. Lavarsi in fretta, far colazione in fretta, mettere le ultime cose in borsa senza la dovuta calma e attenzione.
E quando fu in strada non poté tenere neppure il suo passo consueto. Sollecito, ma non veloce, non da passeggiata, certo, ma neppure concitato. E quel contrattempo era capitato proprio nel giorno in cui l’agenda era fitta di impegni fin dal primo mattino. No, di saltare quel treno proprio non se ne parlava.
Così, quando arrivò in piazza, i versi strozzati di chi stava, in modo inequivocabile, soffocando lo fecero fermare. La donna si trovava lontano da lui una decina di metri ma si capiva che le era andato di traverso qualcosa, perché si agitava tenendosi entrambe le mani alla gola strabuzzando gli occhi. Lui guardò l’orologio tentato dal proseguire. Sì, il treno proprio non poteva perderlo, però d’altronde quella povera donna aveva bisogno di aiuto… Ma lui cosa ci poteva fare? Non era un medico, la manovra di Heimlich non la conosceva e se anche avesse telefonato a un’ambulanza non sarebbe riuscita ad arrivare in tempo per salvarla.
Intanto che lui cercava di decidere cosa fare la donna era caduta sulle proprie ginocchia, si teneva con una mano alla parete di un edificio e stava per accasciarsi sul marciapiede. Lui guardò un’ultima volta l’orologio. Se avesse accelerato il passo sarebbe ancora riuscito a prendere il treno. Ma alla fine si risolse di avvicinarsi in qualche modo a quella povera signora, anche se non sapeva bene in che modo avrebbe potuto soccorrerla.
Nel frattempo, dall’altra parte della strada, una persona anziana stava avendo la stessa sorte. Si contorceva, girando su sé stesso, come se cercasse di capire chi gli stava tirando quel brutto scherzo. L’anziano aveva lasciato cadere a terra il bastone e nell’agitazione il cappello e anche lui si teneva con le mani la gola nel tentativo disperato di far entrare uno filo d’aria nella gola. Allora lui si arrestò nuovamente. Non sapeva da chi dei due andare per primo. Ma che strana situazione! Pensò. E che coincidenza! Proprio a lui poi, e proprio quella mattina, che era più che in ritardo.
Poco dopo, si accorse che più in là c’erano anche altre due persone che si affannavano in mezzo alla strada, in preda alla medesima disperazione. Non respiravano. Erano due turisti che fino a pochi minuti prima stavano trascinando le loro valigie in direzione della stazione, e ora erano entrambi in preda alla stessa crisi acuta. Ma allora non si trattava di un boccone di traverso! Si disse. Mancava loro l’aria per qualche altro motivo. Anche se non riusciva a capire perché lui invece respirava bene. O lo potesse fare ancora. Preso allora dal panico, cominciò a correre. Si doveva allontanare di lì. Se ci fosse stata una fuga di gas o qualcos’altro di nocivo nell’aria avrebbe dovuto andarsene immediatamente. Corse a perdifiato e, così facendo, passò davanti ad altre persone con le stesse problematiche: un senzatetto, il receptionist di un albergo, un fornitore di acque minerali. Chiedevano tutti aiuto con gesti scomposti, esagitati, lo sguardo vuoto e incredulo. Sembrava che l’aria fosse stata risucchiata tutt’attorno a loro e si fosse creato un vuoto pneumatico. C’era anche un topo riverso in un angolo e, più in là, un paio di piccioni a zampe all’aria.
Arrivò in stazione che andava ancora di corsa. Anche nella grande hall la maggior parte della gente era stesa sul pavimento e si dibatteva nel tentativo vano di respirare. Alcune persone non si muovevano più o si muoveva a scatti in preda a convulsioni. La situazione era agghiacciante.
Senza indugiare ulteriormente diede un’occhiata al tabellone elettronico alla ricerca del suo treno. Procedeva per abitudine ma anche nella speranza di andarsene via da quel posto il più presto possibile. Si accorse che il treno era ancora al binario nonostante fosse passato da un minuto l’orario di partenza. Corse ancora più forte. Riuscì a salire sulla carrozza anche se disperava del fatto che il macchinista potesse essere in grado di condurre il convoglio.
Ma di lì a poco le porte si chiusero. E il treno iniziò la sua corsa.