Noah

Tombino - rifugio - barboneViveva nel tombino H4/837SP-5. Così almeno c’era scritto a rilievo sulla fusione in ghisa. Freeber Fonderie 1992, c’era anche inciso.
H4/837SP-5, Freeber Fonderie 1992, Lughi.
Se gli avessero scritto una lettera con quell’indirizzo chissà se sarebbe mai arrivata a destinazione. Si chiese Noah, disteso sul suo pagliericcio di trucioli, le mani dietro la nuca. Il postino ci sarebbe però diventato sicuramente matto a trovarlo. Il tombino, si intende. Lui abbozzò un sorriso in quel buio malato.
Era un tombino anomalo oltretutto perché era abbastanza ampio da far passare le sue spalle larghe. E non aveva un pozzetto: dava piuttosto su una camera sotterranea di pochi metri quadrati che era calda d’inverno per il passaggio di tubature condominiali del palazzo vicino e fresca d’estate per non batterci mai il sole. Si trovava infatti all’interno della stazione ferroviaria della città e questo faceva sì che si mantenesse anche asciutta. L’ideale insomma per viverci. Da barbone, si intende. E qui non sorrise affatto, pensandoci. Probabilmente anni prima si trovava all’aperto, sulla piazza antistante; ma con l’ampliamento della pensilina sul lato sud del complesso la copertura era stata tale che l’unica acqua che ora arrivava era quella della pulitrice dell’addetto. Passava sopra il tombino una volta soltanto nei giorni feriali e unicamente per pochi secondi, intorno alle sei del mattino. Neanche il tempo per far scendere qualche goccia.
E così Noah vi aveva eletto la sua dimora.
Nessuno si era mai accorto di lui quando per la cena risaliva di notte, come uno spirito maligno partorito dalla terra, per andare a frugare nei cestini prima che li svuotassero. Il cestino legato al pilastro a lui maggiormente vicino era il più generoso. Era quello infatti della zona commerciale, dei negozi e dei fast food. Ci si trovava di tutto. Pezzi di pizza, hamburger, dolci e pane. Una sera persino un grasso topo affamato che gli strappò di mano quel che rimaneva di un toast prosciutto e formaggio per poi fuggire a zig zag tra le macchine in sosta. E poi lui andava a dissetarsi nella vasca della fontana dei Fauni. Non era tanto pulita, lo sapeva bene, e puzzava di cloro. Ma lui ci era abituato. Bastava solo non badare troppo a cosa ci finiva dentro.
Ogni tanto giù dal tombino cadevano anche cicche accese, a volte qualche sputo, una volta cinquanta centesimi. Un giorno cadde una pastiglia. Aveva un’aria misteriosa quella pastiglia. Per quel colore strano, l’aspetto rugoso e per la lettera che vi era impressa. La incartò, come fosse una cosa preziosa, e la ripose in un anfratto del muro. Un giorno che si fosse sentito particolarmente giù l’avrebbe presa, qualunque cosa fosse stata. Per sballare di brutto o per il mal di testa o i dolori da mestruazioni; poco sarebbe importato, si intende.
Poi quel giorno di depressione, qualche settimana dopo, arrivò. Si prese una bella sbornia con tutti i rimasugli di birra che aveva pazientemente raccolto qua e là negli ultimi mesi. Furono sufficienti pochi sorsi per catapultarlo in un mondo di silenzio appiccicoso popolato da fantasmi agghiaccianti. Sarebbe rimasto in quello stato di sopore per un giorno intero, lo sapeva bene, ed era meglio così in giorni simili. Che si impiccassero tutti. Pensò constatando con la lingua che gli si stava staccando un molare. Compresa sua madre che lo aveva messo al mondo, si intende. E al beverone stantio aggiunse come leccornia la preziosa pillola. Se fosse stato fortunato avrebbe potuto farsi anche un bel trip.

«Sei proprio sicuro che dobbiamo fare così?» disse il muratore all’altro.
«Certo, ne ho parlato con il capomastro. E va terminato anche entro questa sera.»
«Ma che senso ha stendere qui una soletta di cemento?»
«Ci devono fare un parcheggio per i taxi. E poi cosa ti devo dire? Ho smesso di discutere con gli ingegneri… lo sai, hanno sempre ragione loro!»
«E per il tombino?»
«Ci buttiamo sopra del cemento a presa rapida e stendiamo una specie di tappo. Poi, appena asciutto, ci rovesciamo il cemento per la soletta. Anzi guarda. Portiamoci avanti. Lo faccio subito.»

E questo mentre, due metri sotto i loro piedi, nella sua tranquilla ‘abitazione’, Noah era già da tempo nel mondo degli incubi per l’alcol e la potente benzodiazepina che aveva ingoiato. Non si sarebbe svegliato se non l’indomani mattina.

L’uomo che fuma

Paolo andava di fretta, come al solito. E dire che avrebbe avuto tutto il tempo per procedere a passo lento. Aveva infatti puntato la sveglia con congruo anticipo, giusto per fare le cose con calma, secondo i suoi ritmi. Ma era più forte di lui: non appena il portone di casa sbatteva forte dietro alle sue spalle, gli prendeva la frenesia di arrivare in stazione il più presto possibile. E così si trovava a camminare svelto, in modo meccanico, qualunque ora fosse. Come quel giorno.
Dopo aver attraversato la piazza, all’altezza del Bar del Cinghiale ancora chiuso, intravide nella semioscurità un uomo che, in piedi, stava fumando una sigaretta. Non che potesse essere inusuale che qualcuno fosse in attesa che il bar aprisse, ma perché era tutto sommato troppo presto persino per quello; era, piuttosto, l’ora dei netturbini distratti, dei solerti fornitori di brioches ancora calde, degli oscuri pulitori di strada, visto che i nottambuli irriducibili erano appena andati a letto e i turisti di giornata ancora non avevano abbandonato il confort delle loro stanze d’albergo.
Ma l’uomo che fumava lo guardava fisso, con insistenza, come se reclamasse di essere notato. E invece Paolo gli passò davanti senza incrociare il suo sguardo, facendo persino  il minor rumore possibile con i tacchi delle scarpe, come se potesse diventare all’improvviso davvero invisibile.
Percorse tutta la via, senza voltarsi, anche se il disagio per quello sguardo inopportuno gli si era appiccicato addosso. Superò la gelateria, anch’essa chiusa a quell’ora, superò il monumento equestre al Gattamelata con sulla testa il grasso piccione di turno.
Poi si accorse che sul marciapiede di fronte, c’era una coppia di persone che lo fissava attentamente. Cominciò a preoccuparsi. Vide con la coda dell’occhio che la donna bisbigliava qualcosa all’orecchio dell’altro. L’uomo aveva preso a indicarlo.
Paolo accelerò ancora. Traguardato lo spigolo del palazzo nobiliare dei Gentiloni-Severi s’imbatté in un gruppo di persone che, vedendolo, si alzò dai gradini per andargli incontro. La stazione ferroviaria era ormai vicina, ma non voleva mettersi a correre. Sarebbe stato come ammettere di avere paura. E a lui non piaceva avere paura.
Ma le persone che presero ad avvicinarsi, adesso, erano sempre di più. Sbucavano da ogni dove, come se fosse la sua stessa angoscia a partorirle. Uomini, donne, persino bambini. Tutti lo squadravano con intensità, la faccia seria, imbronciata, quasi dolente.
Ecco la stazione. Si disse a voce alta per rincuorarsi.
Oramai attorno a lui si erano formate due ali inquietanti di persone che gli stavano lasciando libero solo un corridoio talmente  stretto che, se avessero voluto, avrebbero potuto aggiustargli la cravatta.
«Cosa volete?» si mise a gridare. «Lasciatemi in pace… non avete nient’altro di meglio da fare?»
Nessuno gli rispose. Il loro volto, i loro occhi, le labbra serrate erano la loro risposta.
Riuscì a raggiungere finalmente l’atrio della stazione. Era vuoto, come era normale che fosse a quell’ora. Anche se si sarebbe aspettato che non lo fosse affatto, considerate quante persone aveva incontrato fino a quel momento. In realtà, notò ben presto, non c’erano neppure altri passeggeri, né il personale ferroviario né un addetto alle pulizie. Il varco per controllare i biglietti non era presidiato. Lo oltrepassò di corsa e, arrivato nello spazio antistante i binari, si accorse che i display dei cartelloni elettronici erano spenti. Ma ciò che più era grave era l’assenza totale dei treni.
«Oddio, cosa è successo? Adesso come farò a raggiungere l’ufficio?»
Forse tutta quella gente che aveva incontrato voleva avvertirlo. Forse loro sapevano cosa era accaduto o cosa stava per accadere.
Senza pensarci un attimo tornò indietro.
Fuori dalla stazione non c’era però più nessuno.

Poi la moglie lo scosse da sotto le coperte.
«Svegliati, Paolo, svegliati. Non ti deve essere suonata la sveglia. Fai presto o perderai il treno.»

Non piangere sulla coca-cola versata

Il ragazzo era alto, biondo, un viso irregolare ma franco; la sua energia era palpabile.
«Guardi, qualcuno ha versato della coca-cola laggiù, sotto il totem grande della pubblicità» fece il ragazzo all’inserviente, vestito di giallo come un canarino.
«Come dice? Ha versato della coca-cola?» fece l’uomo facendo finta di rassettare davanti a sé una busta gialla dei rifiuti sul proprio carrettino elettrico.
«No, non sono stato io, è che camminando ci sono finito con le scarpe sopra, perché il liquido è in una zona d’ombra e non si vede. Può essere pericoloso…»
«Cosa succede?» disse un signore in divisa, forse della sicurezza interna della stazione ferroviaria, avvicinandosi con i pugni piantati sulle proprie anche.
«Questo ragazzo dice di aver versato della coca-coca per terra… laggiù dai totem…» lo informò l’inserviente mettendosi poi subito dopo seduto comodo sul sedile consunto del suo veicolo.
«Ma non è vero!» fece il ragazzo facendo un mezzo passo indietro come per prendere le distanze «sto dicendo solo che qualcuno ha fatto cadere del liquido appiccicoso: ci sono finito dentro tanto da sporcarmi le reebok… e… e per la sicurezza della gente che passa… credo andrebbe pulito subito, volevo solo segnalarlo, ecco.»
«Allora deve venire con me a fare una segnalazione scritta, favorisca da questa parte per cortesia…» fece serio il vigilante puntandogli l’indice nodoso addosso, quasi avesse finalmente scovato il ladruncolo dei resti nei distributori di biglietti.
«Ma non posso, ho fretta, devo prendere il treno… non può bastare che glielo stia dicendo?» sbottò il ragazzo alzando con una mano la sua borsa e indicando con l’altra il tabellone elettronico delle partenze dei treni.
«Ho capito… lei butta la coca-cola per terra, crea un pericolo insidioso per le persone per bene di questa stazione e non vuole formalizzare l’accaduto?» fece il vigilante severo calcandosi il berretto in tinta, pronto per la rissa.
«Non sono stato io, gliel’ho già detto più volte… ho voluto solo avvertirvi che qualcuno l’ha fatto…»
«Qualcuno, vero? Non lei! E come no? È che a voi ragazzi i genitori non insegnano più ad avere rispetto per il prossimo…» fece di rincalzo l’uomo vestito di giallo spegnendo la macchina su cui era seduto.
«La segnalazione scritta è necessaria per avviare un intervento programmato» tagliò corto un secondo uomo in divisa da vigilante, le mani sprofondate nelle tasche. «E poi serve ai fini statistici, per sapere quanti come lei creano un surplus di lavoro per le già scarse risorse del personale.»
Nel frattempo, era arrivato un signore sovrappeso, con il cipiglio da sindacalista e l’aria di voler tenere un discorso. «Questi incidenti si stanno verificando ogni giorno di più, con un aumento esponenziale dell’impegno da parte di ogni singolo povero lavoratore» arringò il gruppo alzando la voce. «È assolutamente necessario al più presto indire un’assemblea sindacale su questo argomento onde rivedere la qualità e quantità degli incentivi aziendali…» aggiunse rivolgendosi a quel punto a una donna, vestita da ferroviere, che nel frattempo si era unita al gruppo. L’ispettrice per un po’ lo ascoltò poi lo interruppe:
«In realtà, per quel che fate, vi stanno pagando fin troppo. Siete sempre in giro per la stazione a ciondolare senza combinare nulla.» La donna era infervorata. Non si capiva a quale categoria di lavoratori in realtà si stesse rivolgendo. Ma insistette. «Le piattaforme sono sporche, i cestini della spazzatura sempre pieni, cicche dappertutto per non parlare dell’atrio biglietteria che è un immondezzaio. Le carrozze dei treni, poi, non parliamone. Bisognerebbe fare l’antitetanica prima di salirci.»
«Ma almeno noi non siamo stati assunti per raccomandazione, mica ce l’abbiamo un paparino a Roma…» fece il sindacalista rifacendo il verso all’ispettrice.
«Ripeta subito quello che ha detto, se ne ha il coraggio» fece la donna togliendosi il cappello per poter urlare meglio. «Lo ripeta e, quanto è vero iddio, la denuncio per oltraggio, molestie sessuali e fancazzismo…»
«Certo!» replicò ancora di rincalzo l’inserviente, ma questa volta fuori tempo, scendendo dal suo veicolo «se però dopo aver pulito ci sono persone come questo ragazzo che butta la coca-cola per terra…»
«A proposito…» fece il vigilante ruotando il busto a destra e a sinistra senza togliere i pugni agganciati alle anche. «Ma dove è finito?»
Il talkabout dello stesso vigilante il quel momento gracchiò:
«Aò… mannate quarcuno a pulire subito qui dai totem… c’è sta ‘n macello pe’ terra… ‘na vecchietta è appena caduta e ha battuto ‘a capoccia…»

Lo zaino abbandonato

Il ragazzo era molto alto, tanto che il cespuglio di riccioli biondi che aveva sulla testa, dall’aria indomabile, stava spolverando il soffitto della carrozza del treno.
«Buonciorno, sono tetesco da Potsdam, Branteburco..»
Il capotreno guardò il ragazzo con sufficienza: non vedeva l’ora di smontare e tornarsene a casa.
«Ho trovato qvesto…» disse il tedesco con aria trionfante alzando uno zaino gonfio con tanto di sacco a pelo arrotolato che debordava dagli spallacci.
«Mi spiace, ma ora che lei lo ha raccolto, né è giuridicamente responsabile» sentenziò il ferroviere proseguendo il controllo della carrozza oramai vuota.
«Ciuridichewas?» fece il ragazzo sbarrando gli occhi chiari in una espressione esageratamente stupita.
«Lei doveva lasciare lo zaino dov’era» fece il capotreno voltandosi di fretta pur continuando ad allontanarsi. «Non posso ritirare l’oggetto. Non saprei cosa farne. Ora che lei l’ha preso ne è anche il suo custode… e ci deve pensare lei.»
«Ma racazza italiana che afefa zaino scesa due fermate fa. Senza zaino. No possibile qvesto. Io faccio solo favore a non abbandonare dov’era.»
«Lo capisco, provi però all’Ufficio Oggetti smarriti della Stazione…»
«Ma zaino non perso in Stazione, perso qui, in treno, e lei responsabile treno…»
«Io sono solo il “capotreno”; il mio servizio peraltro è appena finito proprio con l’arrivo in questa Stazione e sono anche in ritardo. Lo zaino lo ha lei e lei ne è…»
«Ciuridikamente responsapile…» gli fece eco il tedesco.
«Ecco…» concluse il ferroviere sparendo nell’altra carrozza.
Il ragazzo scese in silenzio dal treno con lo zaino ingombrante; aveva ancora mezz’ora prima che il suo bus partisse per l’ulteriore destinazione. Decise di andare alla ricerca dell’Ufficio Oggetti Smarriti.
Girò in lungo e in largo il grande terminale per poi rivolgersi a un uomo che indossava la maglietta con su scritto «STAFF».
«Buonciorno, sono tetesco da Potsdam, Branteburco…»
Anche se il giovane si accorse subito che non era riuscito a richiamare l’attenzione di quell’uomo, che continuava a fare zapping sul cellulare come se non avesse sentito, non si lasciò scoraggiare e iniziò a spiegare, mostrando lo zaino abbandonato come prova tangibile del suo problema. Alla fine, l’uomo dello staff lo squadrò appena e quindi gli mormorò:
«L’Ufficio Oggetti Smarriti è chiuso da cinque anni, per mancanza di fondi. Provi al Posto di Polizia.»
Il ragazzo riprese la sua ricerca senza perdere il suo entusiasmo, anche se ci mise un bel po’ per trovare la Polizia.
«Buonciorno, sono tetesco da Potsdam, Branteburco…» fece presentandosi.
Il piantone, grosso come un furgoncino dei gelati con le porte lasciate aperte, gli sbarrò il passo quasi volesse lavorarlo di manganello. Poi lo fece bonariamente parlare per rivelargli infine che avrebbe dovuto presentare regolare denuncia per poter lasciare lo zaino lì da loro. Il tedesco obiettò che doveva proseguire il viaggio e che non avrebbe avuto il tempo per fare una denuncia e poi per cosa? Per un oggetto che, oltretutto, non era neppure suo?
«Mi dispiace» gli fece il furgoncino extralarge, dandogli ormai le spalle avendo accertata la totale innocuità dell’interlocutore. «Ora che lei lo ha preso, né è anche giuridicamente responsabile.»
Quando uscì dal Posto di Polizia al ragazzo sembrò di scorgere nella calca di persone che sciamava da un treno ad alta velocità la ragazza che aveva abbandonato lo zaino. La seguì per un po’, quindi si mise persino a correre per arrivare alla fine a fermarla. Ma no, non era lei. ‘Ach! Stessa faccia da matta‘, pensò ‘ma non è lei‘.
Oramai si era fatto tardi. A quel punto il tedesco si portò sul piazzale antistante la Stazione. Di lì sarebbe partito il suo autobus. Lo individuò, tra i tanti, e vi salì posando con disinvoltura lo zaino della ragazza sul sedile dell’autista per poi sistemarsi negli ultimi posti, in coda.
Trascorsero alcuni minuti. Salì diversa gente e da ultimo l’autista che trovò lo zaino al suo posto di guida.
«Di chi è questo zaino?» chiese seccato, nell’accento aspro del posto, mostrandolo ai presenti come fosse stato il mandrillo Rafiki con Simba nel film “Il Re Leone”.
Nessun rispose.
Poi dal fondo dell’autobus si sentì dire:
«Ora tu hai lui e sei ciuridikamente responsapile.»

Increspature

Mark arrivò trafelato. Si era alzato tardi e aveva dovuto fare tutto il tragitto verso la stazione di corsa. E quando varcò il portone con il suo solito passo lungo stava considerando che, visto che cosa lo stava aspettando al lavoro proprio quel giorno, non avrebbe potuto e dovuto arrivare tardi in alcun modo. Dopo aver fatto, meditabondo, alcuni metri si fermò di colpo. Non era in stazione, ma si trovava all’interno di un capannone enorme, dismesso da tempo, almeno da quello che poteva vedere in quella penombra: forse era il magazzino di qualche grossa industria fallita. Mark si girò più volte su sé stesso come una trottola. Non riusciva a raccapezzarsi. Aveva preso il treno delle 7.32 al binario 15, poco distante, ormai da chissà quanti anni. Com’era possibile?
Appena dietro di lui arrivò un uomo anche lui di corsa. Appena si accorse di dove si trovava fece una faccia stralunata. Avendo visto Mark, però, si ricompose.
«Che fine ha fatto la stazione?» chiese Mark approfittando che l’uomo sopraggiunto avesse incrociato la sua occhiata interrogativa.
L’uomo sostenne il suo sguardo ma non rispose. Si capiva che stava pensando, forse alla risposta più corretta da dare.
Mark pensò invece che il suo interlocutore non avesse compreso la domanda, anche se in quel capannone grigio e inospitale c’erano solo loro due, a pochi metri di distanza, e non era possibile un qualche fraintendimento.
«Che fine ha fatto la stazione ferroviaria?» ripeté Mark scandendo bene le parole.
«La stazione?» chiese allora l’uomo come se volesse rappresentarsi nella mente che cosa si volesse intendere con quel termine. «La stazione?» ribadì aggiungendo una intonazione involontariamente comica. Poi l’uomo sospirò, si guardò in giro quasi per prendere ispirazione dall’ambiente circostante e finalmente disse: «La stazione l’hanno spostata questa mattina, all’alba, in zona Crocetta!»
«Zona Crocetta? Questa mattina? Senza avvertire?»
«Come no, Signore, sono mesi che hanno dato l’avviso del trasferimento, persino sui giornali nazionali.»
«Ma davvero?» domandò Mark incredulo. «Non ci posso credere, proprio questa mattina… in zona Crocetta, poi. È dall’altra parte della città! Ma perché hanno fatto una cosa simile?»
«Per i lavori dell’Alta velocità. Però ho visto un taxi qui di fronte. Se corre forse c’è ancora. Può prenderlo e arrivare in stazione in meno di venti minuti. Non c’è traffico a quest’ora.»
«Oh, sì grazie» fece Mark come se si fosse ricordato solo in quel momento che doveva andare in ufficio. E si mosse.
L’uomo lo seguì con lo sguardo mentre Mark usciva correndo. Il suono dei suoi passi rimbombò nella struttura vuota come in un film dell’orrore. L’uomo attese ancora qualche secondo per essere sicuro che fosse andato davvero via e poi estrasse dal giubbotto un cellulare. Compose un numero.
«Ma cosa fate, siete impazziti?» gridò.
«Oh, Capo… è lei? Sì, mi spiace per quello che è accaduto… è tutta colpa… è tutta colpa di quello nuovo che abbiamo assunto l’altro ieri… Nathan… l’abbiamo lasciato solo al computer per cinque minuti e ha fatto tutto questo casino… Me ne sono accorto proprio in questo istante. Mi spiace tantissimo, Capo, non so che dire… spero che non ci siano danni.»
«Un novizio? E lei lo lascia da solo davanti alla Plancia Operativa?»
«Ha ragione Capo, dovevo stare più attento… non pensavo che potesse fare una cosa simile… ha traslato uno scenario da un settore a un altro della Cartografia Virtuale: è incredibile che ci sia riuscito e…»
«Rimettete subito le cose a posto, immediatamente…»
«Sì, Capo, certo Capo…»
«E non creda che finisca qui, Thomas. Questa leggerezza la pagherà cara…» e chiuse in modo brusco la comunicazione.
Trascorse ancora qualche secondo. Poi ci fu una increspatura nell’aria gelida. Comparvero i binari, i treni e il personale ferroviario tutto intorno all’uomo. Una signora anziana che trasportava un trolley colorato gli si avvicinò caracollando e, con un sorriso molto dolce, gli chiese a che binario sarebbe arrivato il regionale per Alvona delle 7.38.