Giornate di vento

Il piccolo ‘Svaldi, il nipote di otto anni del mio vicino Nello, mi aveva appena portato la sua casetta degli uccellini. Una folata di vento, di quelle potenti come a volte capitano qui a Poggiobrusco, l’aveva sganciata dal ramo di quercia e sbattuta per terra sgangherandola.
«Per fortuna non c’erano uccellini, dentro…» mi fece notare lui mentre mi accorgevo, nel maneggiare i resti, che sarebbe stato più semplice costruirne una nuova.
«Già per fortuna».
«Questa storia del vento è seccante, però» mi disse assumendo involontariamente una delle espressioni di Nello. «Uno fa tanto per dare una casa alle ghiandaie e poi basta poco per rovinare tutto. Ma come si forma il vento?»
Gli chiesi di passarmi il martello e dei chiodi piccoli, giusto per prendere tempo e trovare così le parole giuste. Accesi un paio di luci in più nel garage per vederci meglio.
«In poche parole…» dissi schiarendomi la voce «il vento, almeno credo, ma posso sbagliarmi…, si forma quando c’è uno spostamento d’aria da un punto a un altro dell’atmosfera. Uno strato caldo insomma prende il posto di uno freddo, che è più pesante».
Lui mi squadrò in quel suo modo strano: inclinando la testa da un lato e chiudendo un occhio. Sembrava stesse scegliendo l’inquadratura giusta da mandare a memoria. Si vedeva che non l’avevo convinto.
«E se fosse invece che un gruppo di angeli, tutti insieme, hanno deciso di prendere il volo? Sbattono le ali così forte qui che fanno tutta quell’aria là…» e indicò con le sue dtine i due diversi punti in questione.
«Non ci avevo mai pensato» gli confessai.
«Lo sai? Anche mia madre è volata in cielo ed è un angioletto» mi disse subito dopo.
«Sì, lo so bene, ‘Svaldi».
Il viso del bambino era sereno. Stava guardando il cielo che si preparava al tramonto novembrino, con qualche nuvola pallida e solitaria qua e là che provava a valicare il monte. «Per quanto io non l’ho mai capita ‘sta cosa qui…»
«Cosa ‘Svaldi?»
«Come faccia a volare la mia mamma… ci aveva le vertigini, lei».

L’ospite in giardino

Guardavo l’erba del giardino e non ci volevo credere. Il manto era rialzato, la rosa sbilenca, il muretto sembrava scricchiolare. Una cicatrice irregolare color bruno inferta da un gigante arrabbiato.
«È una talpa» mi diede di voce Nello appoggiato alla recinzione.
«Una cosa?» feci sorpreso.
«Ce ne sono, ce ne sono…» mi rispose passandosi subito dopo la mano grinzosa sul viso come faceva spesso. «Se hai il fucile ti merita spararle!» sentenziò con la brevità concreta del contadino.
«Il fucile non ce l’ho e non ho nessuna voglia di spararle».
«Te lo presto io…»
«Non mi sembra il caso».
«Allora non te ne liberi».
Allora non te ne liberi. Mi ritornò mille volte in mente quella frase mentre nel reparto giardinaggio dei magazzini ‘Comprabene’ di Lughi cercavo qualcosa che facesse al caso mio. Raccomandavano unicamente aggressivi chimici peraltro poco efficaci appena dopo una sola pioggia. Poi su internet scoprii l’esistenza di un talpifugo a ultrasuoni: una sorta di grosso piolo di plastica verdastra che ogni quaranta secondi emette una vibrazione ad altissima frequenza. Tu non la senti, la talpa sì e non le piace, così se ne va.
Allora non te ne liberi. Pensai ancora dopo aver liberato il dispositivo dalla variopinta confezione piantandolo soddisfatto in mezzo alla trincea. Il reticolo di gallerie nel frattempo si era allargato attorno al nespolo che pareva voler tenere le foglie ancor più sollevate dalla terra non capendo cosa fosse. Ci vuole una settimana per avere un qualche effetto, c’era scritto sulla confezione. Perché mai? È il tempo che la talpa ci mette a stancarsi di tenere le zampe sulle orecchie? Pensai. Ma una settimana fu. I cunicoli sul terreno si erano diramati ancora, ma allo scadere della settimana il complicato ricamo era cessato di colpo. Feci una ricognizione per constatare i danni. Avrei dovuto seminare di nuovo, questo è certo, ma solo a marzo, intanto me lo sarei tenuto così. Il nespolo aveva inoltre un’aria offesa, alcune rose stavano già appassendo e il muretto andava ripreso.
«Marilè, Marilè!!!» sentii gridare all’improvviso. Era il mio vicino. «O Gesummio… o Gesummio, come m’ha conciato le piante! Marilèèèè… c’è una talpa nell’orto!»
Allora non te ne liberi mi venne ancora in mente. Le devi sparare: sennò quando avrà finito con lui tornerà da te.

Uova fresche

Di prima mattina ero andato da Nello a tagliare la siepe. Nonostante gli ottant’anni e un braccio al collo per una distorsione avevo fatto fatica a convincerlo a farsi aiutare. Entrai nella cucina spoglia, essenziale, dove una stufa antica macinava calore e profumo di legna bruciata: ‘Svaldi, da un lato, era seduto sul tavolaccio, con i gomiti inchiodati sul pianale e le mani a nascondere il viso, quasi non mi saluta.
«Ehi, che fai?» gli domandai per smuovere il tempo che sembrava incespicare. Non mi rispose: era arrabbiato, aveva voglia di piangere, ma si tratteneva.
«Ogni mattina la stessa storia» mi fece Nello alzando gli occhi al cielo. «La Mariolina mi fa delle uova grosse così, con due tuorli enormi e lui fa tutte quelle scene». Mentre parlava indossò con pochi gesti bruschi gli stivali consunti: la pioggia della notte aveva lasciato fango dappertutto e sembrava voler ricominciare a scrosciare. In verità speravo in una buona tazza di caffè, magari con qualche biscotto alle castagne di quelli che fa lui, ma non disse altro e uscì brandendo il forbicione da siepe, lasciandomi lì come se non fossi venuto apposta. Stavo per seguirlo quando nel vedere ‘Svaldi, così imbronciato e scontroso, mi si strinse il cuore. Mi avvicinai:
«Guarda che tuo nonno ha ragione! Sono uova freschissime, ti fanno bene, ti fanno crescere…» ‘Svaldi fece con forza di no con la testa come un cagnolino avrebbe potuto fare per scrollarsi l’acqua dal pelo. Stetti a guardarlo. «È forse che non ti piace l’uovo sbattuto?» insistetti. Poi scorgendo dalla finestra Nello che aveva preso a sforbiciare con una mano sola aiutandosi con il mento, decisi di andare da lui. Anche perché la conversazione con il bambino era a un punto morto. Ero sulla porta finestra quando ‘Svaldi mugugnò:
«Mi fa schifo!»
«Come dici?» gli chiesi girandomi.
«A te piacerebbe mangiare qualcosa che esce dal sedere di un animale?»

Le foto e il trasloco

Stavo riducendo i rami della quercia appena tagliati in pezzi più piccoli per la stufa quando, fuori dal cancello, vidi ‘Svaldi, il nipote di otto anni di Nello.
«Ciao!» gli dissi continuando a lavorare.
«Ciao, cheffai?» mi chiese con quel suo modo strano di strizzare un occhio e reclinare il capo da una parte.
«Sto tagliando i rami in tronchetti, così li brucio nella stufa». In quell’istante, come se fosse stato il cielo a rispondere, ci fu un lampo seguito da un tuono baritonale ancora lontano.
«Mi sa che si mette al brutto» feci io buttandogli un occhio. Lui fece di sì con la testa. Nel frattempo aveva preso un bastone appoggiato al pilone del cancello e aveva cominciato a dar fastidio a un piccolo formicaio.
«I miei amici dicono che quando si vedono i lampi è Dio che fa le foto con il flash…» mi rivelò serio prendendo il bastone con entrambe le mani. «Ma io mica ci credo. Mimmo crede sempre di sapere tutto e invece è solo uno scemo…»
«Chi è Mimmo?»
«Boh, uno che vedo lì al muretto in piazza…»
«Ma tuo nonno lo conosce?» Il rumore di un altro tuono, questa volta più profondo, avanzò a ondate verso di noi cancellando la mia domanda. «Forse è meglio rientrare» consigliai io che volevo che ‘Svaldi tornasse a casa.
«Io invece so esattamente cosa sono i tuoni» se ne uscì il bambino con l’aria saputella.
«Ah sì?»
«Già! È la Madonna che non è contenta!»
«Come sarebbe a dire?» gli chiesi posando la roncola.
«Sì, non è contenta di come sono i sistemati i mobili di casa. Così Gesù l’aiuta a spostarli da una stanza all’altra facendo tutto ‘sto chiasso…»

Dulcis in fundo

 

Tirava vento forte, come a volte accade a Poggiobrusco. A ogni folata si vanificava il mio tentativo di raccogliere le foglie in grossi mucchi. Chissà perché, ero convinto che dovesse smettere da un momento all’altro.
«Ne hai da tirarne su» mi fece ‘Svaldi, il nipotino di Nello, nella sua pausa pomeridiana. Con le mani dietro alla schiena accennò quasi ad un giro completo del corpo tenendo però ben salde al terreno le sue gambette nude. Quando cominciò a perdere l’equilibrio, smise.
«Sì, sono più di trenta querce» gli risposi io con rassegnazione.
Lui si guardò ancora attorno e si capiva che stava rimuginando qualcosa. Si morse un paio di volte un labbro quindi sparò:
«Ma perché gli alberi anziché far cadere le foglie, non le ritirano dentro, nei rami? A primavera potrebbero averle già belle e pronte senza doverle rifare.»
Mi appoggiai al rastrello. Quel bambino aveva sempre la facoltà di stupirmi.
«Le foglie cadono perché sono diventate vecchie, è il ciclo della vita» feci io cercando di non assumere un’espressione paternalistica.
«Eh… ma in questo modo si spreca un mucchio di roba e mio nonno mi dice sempre che non si deve mai buttare via niente» così dicendo aveva chiuso gli occhi facendo no con l’indice mosso nell’aria: stava ripetendo a memoria un gesto tipico di Nello.
«Ha ragione tuo nonno. Infatti le foglie non vanno sprecate, servono a nutrire il terreno. Diventano secche, si frantumano e si trasformano in cibo per la terra.»
«E allora perché tu le stai togliendo?»
Cominciavo ad essere a corto di argomenti. Poi aggiunsi:
«Perché a lasciarle sul prato soffocano l’erba.»
«Ho capito» fece lui sorridendo. «Allora avrai un’erba molto bella, ma affamata.»
Avrei voluto spiegargli che, a tempo debito, avrei sparso il concime, ma il discorso si sarebbe fatto più complesso. Ripresi così a rastrellare e a lottare contro il vento anche se stavo meditando di lasciar perdere. Nei miei movimenti a trottola mi girai e vidi che il bambino aveva le mani nell’erba.
«Cosa fai, ‘Svaldi?» gli chiesi incuriosito.
«Le ho dato un cioccolatino così l’erba può mangiare intanto qualcosa. Poi vado a vedere in casa, deve essere rimasto del panettone.»