Loop intermedi

Milo aveva ancora un po’ di tempo prima della riunione. Era la prima volta che si recava a Molino dei Sesi. Così decise di approfittarne per fare un giro in centro.
I negozi erano moderni a dispetto del paese che sembrava essersi addormentato un secolo prima e non si fosse più risvegliato. Il mare gettava una luce obliqua che rimbalzava sulle nubi basse incendiando di luce le case sbilenche e bianche che ricordavano le coste marocchine.
Le vie erano gremite di gente. Chi passeggiava per far venire l’ora del pranzo, chi vendeva agli angoli delle strade elogiando enfaticamente le lodi della propria merce portata a braccio, chi s’affacciava alle finestre per godersi l’aria fresca del mattino.
Il navigatore, dopo percorsi tortuosi che lo avevano tra l’altro fatto passare davanti a un costruttore di flauti di Pan, finalmente lo condusse nella piazzetta centrale. Era uno spazio raccolto che sembrava creato lì per lì dalle stesse case cresciute attorno e che avevano deciso d’un tratto di fare qualche passo indietro, verso la schiena ruvida della montagna, giusto per accogliere un fontanone di pietra lavica che si imponeva per la sua austerità; una pietra color della notte, lavorata dal vento e dalle piogge violente del mare aperto. Sui prospicienti sedili di ossidiana, giovani e anziani erano seduti a guardare disincantati lo struscio incessante.
Fu in quell’attimo che Milo vide sbucare dall’angolo sud della piazzetta una ragazza giovane, bellissima, i capelli lunghi e biondi fermati da una fascia tecnica tesa sulla fronte. Un miniabito a stampa floreale sul violetto le ingentilivano la figura, mentre il passo era deciso, ma morbido, lo sguardo attento regolato sul fondo della strada. Milo ne rimase colpito. In particolare, per quel volto non comune, misterioso, assorto ma intenso. Lui, che non lo faceva mai, si era addirittura fermato ad ammirarla mentre gli sfilava accanto per raggiungere ben presto il budello di vie alle sue spalle e sparendo appena dopo. L’uomo era rimasto immobile un tempo indefinito, realizzando solo in un secondo momento di aver tenuto quel comportamento inusuale; si guardò attorno e riprese vergognoso la sua passeggiata.
Aveva fatto solo un passo in avanti quando la vide uscire nuovamente dallo stesso angolo davanti a sé come se il nastro della realtà fosse stato riavvolto. Era la stessa ragazza, non aveva dubbi. Lo stesso incedere, lo stesso piglio, lo stesso vestito, persino la stessa espressione enigmatica del viso.
Sentì il cuore accelerare e un sudore freddo imperlargli la schiena. Come era possibile? Il pensiero volò subito al film “The Truman show” e irrazionalmente, prima ancora di domandarsi se ci fossero state altre spiegazioni plausibili, cercò attorno a sé dettagli che gli confermassero che si era verificata una sorta di loop temporale, un maleficio oscuro in una bolla di tempo in una terra lontana. Quella signora che si stava ora sedendo al tavolino all’aperto del bar stava facendo la stessa cosa poco fa? E quel ragazzo, cui adesso era caduto il cappello, non lo aveva forse già raccolto? E il cane, sì il cane… era già passato di lì annusando lo stipite di quel portone? Ma no, non ci poteva aver fatto caso. Come avrebbe potuto, del resto? Se non sospettava nulla…
E mentre si stava facendo assillare da questi e altri pensieri inquietanti ecco che dallo stesso angolo a sud della piazzetta uscì per la terza volta la stessa ragazza. Questa volta Milo la squadrò intensamente mentre gli passava accanto, lo fece in modo ostentato, cosa che non turbò per nulla la giovane che non lo degnò neppure di un’occhiata allontanandosi anzi esattamente come aveva fatto le altre due volte.
Milo era allibito. Si accorse che stava trattenendo il fiato.
«Incredibile, vero?» gli fece a quel punto un edicolante che lo stava osservando da qualche secondo.
«Trova anche lei?» gli domandò lui, incredulo di star facendo una simile conversazione.
«Certo. Non ci si può proprio credere. Sono tre gemelle che escono ogni mattina dallo stesso portone. E pensi che vanno a prendere il battello che parte per la terraferma alla stessa ora e per andare a lavorare nel medesimo posto. Ma non stanno mai insieme, evitano persino di parlarsi per non litigare. Ma non rinunciano a vestirsi tutte quante allo stesso modo!»

Voci, suoni, rumori

Si era seduto sui gradini della chiesa. Si era chiesto molte volte che cosa si provasse a starsene lì, senza far nulla, a guardare quella splendida piazza, il sole di sbieco a illuminare il Poeta con l’aquila sottomessa ai suoi piedi. Ci passava spesso e sempre di fretta tra quelle case dai colori sbiaditi e non aveva mai trovato il tempo per indugiarvi anche solo un po’. E ora il momento era arrivato. Voleva anche solo rallentarlo, il tempo, e quello che conteneva e i pensieri soprattutto; voleva respirare un po’ la vita, scivolarvi dentro.
C’erano i soliti turisti che assumevano le posture più strampalate per farsi le foto, un bambino che correva dietro a un pallone più grosso di lui, un musicista malinconico che riservava lo stesso ritmo e la stessa cantilena a qualunque cosa cantasse. Voci, suoni, rumori. Niente di più che la vita di quartiere.
Sentiva che a poco a poco si calava in quello che vedeva, cominciava a far parte di quel tutto. Della foto strampalata dei turisti, dello sfondo indistinto per le persone distratte, del pubblico annoiato dell’improbabile menestrello: una sagoma confusa, insomma, ma presente in quel paesaggio da cartolina, come le sedie del ristorante che aspettavano impazienti i prossimi avventori o i lampioni stralunati che cercavano di dormire dopo la solita notte insonne.
«Lei non è di qui, vero?»
La domanda proveniva da una donna non più giovane, un cappello a larga tesa da uomo calata da un lato, un sguardo sincero e profondo come di chi ha avuto una vita interiore molto più lunga. Stava dipingendo la piazza e dall’accento sembrava slava.
«In verità abito laggiù» rispose lui divertito. «Vede quell’albero la cui chioma esce dalla sagoma della terrazza? Beh quella è casa mia.»
«Però! Ma allora è curioso che lei sieda qui.»
«Sono qui per rallentare il tempo…»
Lei lo squadrò per qualche attimo ma non aveva affatto la faccia stupita e continuò a dare alcune pennellate a definire il cielo nel suo quadro.
«Se è per questo, anch’io…» disse lei dopo aver sospirato in modo impercettibile.
Fu allora lui che la guardò sorpreso. «Davvero, anche lei?»
«Vede, nel mio paese di origine mi sono successe diverse cose piuttosto brutte che non voglio nemmeno più ricordare…» Si astenne per un attimo dal dipingere come se stesse decidendo se voler continuare a respirare oppure no. Stringeva il pennello in modo tale che si sarebbe detto si sarebbe spezzato tra le dita da un momento all’altro. «E così sono qui» seguitò. «Voglio ricominciare come se ogni giorno fosse il mio primo giorno…» La voce della donna si era incrinata. Stava trattenendosi dal piangere. Poi si scosse e si rimise a dipingere. Ancora alcuni ritocchi e poi, in basso a destra, fece la firma. Staccò la tela dal cavalletto, la rimirò per qualche secondo al sole di quel mattino e lo consegnò all’uomo.
«Tenga è per lei…»
Lui fece l’espressione di chi non capiva.
«Su, lo prenda» ripeté lei tendendo la tela.
«Guardi non…»
«È il mio modo per rallentare il tempo» disse lei velocemente. «Ogni tanto vengo qui a dipingere e poi regalo sempre il quadro a una persona che ha il suo stesso sguardo… Mi è di aiuto, di grande aiuto, glielo assicuro…»
Lui non seppe cosa dire. Prese in mano il quadro e se lo rimirò: era bellissimo, pieno di vita, di colore, di speranza. Da quando era nato non aveva mai visto la piazza in quel modo.
«Io non so proprio cosa dire… Lasci almeno che…» fece lui.
Ma la donna non c’era più.

Il diario

Da quando mi sono messo in pensione mi concedo spesso delle ampie passeggiate sul lungo fiume e poi al parco del Castello. Se è una bella giornata mi fermo anche a guardare il panorama, ad accarezzare i gatti che incontro per strada e a dar molliche di pane ai passeri.
Lo so cosa state pensando: che è triste essere vecchi e soli. Ma neanche per idea! Certo, essere ancora giovani sarebbe proprio una gran bella cosa, tuttavia ora faccio la vita che ho sempre desiderato una volta smesso di lavorare: tranquillità e serenità con un pizzico di buona salute, frequentando all’occorrenza chi mi pare e quando ne ho voglia.
Oltretutto, a volte, mi do pure al volontariato; come vendere le uova di cioccolato o vasi da fiore per qualche onlus che finanziano la ricerca o come servire alla mensa dei non abbienti o persino fare il chierichetto per padre Ercole. Lo so, sono un brav’uomo, ma non credo sia dopo tutto un gran merito.
Qualche giorno fa mi è stato chiesto di mettere a dimora insieme ad altri amici nuove piante nelle zone verdi della città; ho fatto il contadino fino a pochi anni or sono e so come si fa e in Comune lo sanno bene. Ed è stato proprio quando preparavo lo scavo profondo per alcune cultivar di platano, con la lentezza che ora mi contraddistingue non avendo più tanta forza, che ho visto sulla pala qualcosa che luccicava. Ho pulito l’oggetto ben bene e mi sono accorto che era una fedina, una vera nuziale da uomo; l’ho guardata meglio mettendomi gli occhiali e nella parte interna erano incise queste parole “Maria e Lorenzo – 20 marzo 1910”. Mi sono subito rialzato per farla vedere agli altri, ma ero rimasto solo: ci avevo messo evidentemente troppo tempo per la mia buca. Così la vera me la sono messa in tasca e ho terminato il lavoro.
Del tutto dimentico del ritrovamento, dopo qualche giorno mi sono messo al tavolo della cucina di casa e ho preso carta e penna. Era già un po’ che volevo scrivere a mio figlio che vive da vent’anni in Australia e io che non ho mai avuto troppa dimestichezza con il computer mi affido ancora alle patrie poste.
Ho iniziato allora di buona lena a mettere nero su bianco, ma ben presto mi sono accorto che non mi stavo affatto rivolgendo al mio Gianni; stavo scrivendo invece una specie di diario e neppure il mio: era quello di una donna, una signora anziana che parlava del suo sposo, dell’uomo della sua vita che non c’era più e di una fedina che aveva perduto e che continuava a cercare senza requie. Da quello che potevo capire, la signora tentava insomma di ritrovare la vera del marito e a modo suo me lo stava facendo sapere. Questa scoperta, lì per lì, mi ha fatto impressione, spaventandomi non poco, e sono stato tentato perfino di pensare a una mia personale suggestione per il rinvenimento; ma poi nei giorni seguenti, per i ricordi di vita vissuta che la donna faceva attraverso la mia scrittura, mi sono convinto che non era affatto così.
Da allora ho cercato di incontrare la signora per darle il gioiello che le apparteneva. Nonostante però sapessi dal diario quali fossero i luoghi del parco da lei frequentati e la relativa ora, non sono riuscito mai a incontrarla.
Mi sono risolto allora a lasciare a malincuore la fedina su una panca solitaria, una, in particolare, che avevo individuato dalle descrizioni che mi aveva fatto la signora quale da lei frequentata più sovente durante le sue ricerche. Forse l’anello avrebbe trovato da solo la sua padrona. Sono rimasto anche per un po’ di tempo nascosto dietro a un albero per paura che qualcuno lo rubasse. Verso sera però cominciava a fare un po’ troppo umido per me e, per non prendere un malanno, me ne sono andato con il proposito di tornare la mattina successiva alle prime ore del mattino.
Una volta a casa, prima di coricarmi, mi sono messo a scrivere, come ormai di consueto. E mi sono uscite queste parole:

L’ho ritrovata! L’ho ritrovata! Che gioia indescrivibile, che sollievo! Mi sembra di essere di nuovo con il mio Lorenzo. Ora posso finalmente trovar pace.
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Conversazioni

Arrivato a quella rotatoria l’autista sembrava faticare a convincere il bus a rimanere in strada perché sentiva che in realtà se ne sarebbe andato volentieri da un’altra parte, libero di infrangere la routine del solito tragitto e andarsene a spasso, da solo, nel buio della città.
Ed era poco dopo, alla fermata appena successiva, che una giovane donna dai lunghi capelli bruni, avvitata in un giubbino blu informe, saliva sul bus dopo aver fatto segno al mezzo, in ritardo, di fermarsi.
Non era possibile darle un’età. Nonostante infatti lui non mancasse mai di incontrarla, non era mai riuscito a vederla in volto: i capelli sciolti finivano per mascherarne le sembianze, persino quando scendevano alla stessa fermata in prossimità dell’ufficio: lei si avvicinava alla porta centrale con il busto di tre quarti, quasi di spalle, per poi passargli davanti all’ultimo momento ostacolandone la discesa.
Di lei però sentiva la voce: da quando la vedeva sul marciapiede in attesa di salire sull’autobus fino a quando, dopo la discesa, non la scorgeva sparire in una delle tante vie traverse in prossimità del suo ufficio, lei era sempre al telefono che parlava con qualcuno. Ogni volta, immancabilmente, senza quasi neppure prendere respiro, nonostante fossero le 6 del mattino.
Un giorno salì il controllore e, nel momento in cui le chiese il biglietto con insistenza, visto che lei era assorta al telefono, ne nacque una discussione; la donna si stava giustificando, per qualche motivo, mostrando visibilmente di sentirsi a disagio più per il fatto di aver dovuto interrompere la comunicazione che per essere stata colta senza biglietto. Il controllore le parlava e lei guardava il display scuro del cellulare come per chiedersi come fosse possibile che le stesse accadendo tutto ciò; e il controllore si era finalmente appena allontanato quando il cellulare si mise a suonare.
«Non ci crederai mai…» disse lei con un largo sorriso che le spuntava da sotto la chiostra di capelli «ero qui buona buona che stavo telefonandoti quando mi è arrivato all’improvviso di lato il controllore e…» Le altre parole vennero mangiate dal rumore del motore e lei abbassò il tono della voce voltandosi verso il finestrino.
Trascorsero altri giorni in cui, a parte il controllore, si ripeté più e più volte la stessa scena. La donna era sempre al cellulare che fosse bello o brutto tempo, che fosse buio o ancora chiaro, che fosse estate o pieno inverno.
Poi, una mattina, mentre erano appena scesi entrambi alla solita fermata, mentre lei si camminava davanti a lui con l’orecchio incollato al telefonino, nell’attraversare la strada, una macchina che sopraggiungeva dallo stradone la prese in pieno. La vide volare, come se un gigante l’avesse presa in braccio e scaraventata lontano. Come altri, prese a correre. Trovarono la donna sbalzata contro un cassonetto e con la testa che perdeva sangue. Era attorniata da alcune persone che le prestavano i primi soccorsi. Era immobile, scomposta e pallida, almeno per quel poco che si poteva intravvedere, visto che i capelli le coprivano quasi interamente la faccia.
«Poverina…» disse una signora anziana mettendosi una mano tremolante sulla guancia «era così giovane…»
Nell’attesa che arrivasse l’ambulanza, nello strano e minaccioso silenzio che aleggiava sugli astanti, si sentì squillare un telefonino. La donna semi-svenuta ebbe un fremito. Con la mano tastò il marciapiede vicino a lei fino a quando non prese in mano il suo cellulare.
«Non ci crederai mai…» fece con un filo di voce tirandosi su a stento a sedere  «ero qui buona buona che stavo telefonandoti quando mi è arrivato all’improvviso di lato una macchina e…»

Bramadivina

Umme l’aveva sempre odiata, sin da bambina. Non solo perché Naim era la più bella e la più intelligente del paese, sapendo leggere e scrivere, ma anche perché faceva parte di una delle famiglie più povere della zona e, nonostante ciò, quando la incontrava per strada, non salutava mai per prima, né abbassava lo sguardo, anche se lei, Umme Muzmallah Ashraf, apparteneva a generazioni di rispettabili e temuti khan e aveva sposato Sabir Zamel, il potente boia della regione.
Così quando il marito le rivelò che Naim era uscita in strada senza l’accompagno di un uomo e che Nabil Malik, il severo maulana venuto dalla città, l’aveva denunciata al Consiglio degli Anziani, provò una gioia incontenibile nel sapere che era stata condannata, all’indomani, al taglio del naso sulla pubblica piazza. Un colpo preciso della Bramadivina, come Sabir chiamava affettuosamente la lama consacrata impiegata per le esecuzioni ed ereditata dagli avi, e Naim sarebbe stata costretta a girare con il burqa per tutta la vita. Suo marito sapeva del resto fare bene il suo mestiere: era anche famoso in tutta la valle per aver una volta tagliato in due, a occhi bendati, un cece mentre cadeva dal tavolo. Ma Umme voleva di più, molto di più.
Approfittando che Sabir si fosse assentato quel pomeriggio per far visita a un parente, si recò nel lazzaretto di Kandabar ai confini sud del villaggio. Si era portata dietro alcune pezze di cotone che passò più volte sulle piaghe del vecchio Latif Narrafat, moribondo, gravemente malato di una malattia terribile e contagiosa. E quelle pezze le strofinò, una volta a casa, sul taglio affilatissimo di Bramadivina perché, oltre al disonore del naso mozzato, Naim morisse lentamente nel peggiore dei modi.
Così arrivò la mattina successiva, stabilita per il taglio esemplare. Umme, sebbene l’inflizione della pena fosse pubblica, decise di non andare per mostrarsi disinteressata. Ma quando Sabir tornò per pranzo avrebbe voluto sapere subito tutto, nei minimi particolari. Il marito però taceva.
«E allora?» chiese lei dopo un po’ non resistendo più per quell’attesa.
Sabir la guardò perplesso perché la domanda presupponeva che lui avesse dovuto conoscere la risposta. Gli occhi tornarono sul suo piatto e mormorò: «Allora cosa?»
Umme si spazientì. «Insomma, com’è andata? A Naim, voglio dire.»
«Naim? Naim chi?»
«Come chi…: la figlia del pecoraio, la figlia di Abzaldebeh: dovevi tagliarle il naso, proprio questa stamattina, come fai a non ricordarlo?»
«Ah lei… Il Consiglio degli Anziani ha commutato la pena all’ultimo minuto… È saltato fuori che era uscita da sola unicamente per comprare delle medicine all’unico maschio di casa che non poteva alzarsi dal letto; sarà comunque affidata alla madrasa di Malik per un corso di rieducazione…»
Umme rimase impietrita. Non sapeva più cosa dire. Squadrò di nuovo Sabir come se pretendesse da lui una spiegazione per quella decisione troppo mite. Poi si accorse della sua mano.
«Ma cosa hai fatto alle dita?»
«Questa cosa qui?» fece lui con un mezzo sorriso e alzando la mano fasciata «ma nulla… è che sto proprio invecchiando… mettendo via Bramadivina mi sono tagliato… Niente di che, passerà.»