Bare affittansi

Era una mattinata tersa e radiosa, con un vago e fragrante sentore di promesse tutte da mantenere.
Un vento dispettoso si divertiva a spintonare per il cielo cilestrino alcune nuvole dense, di piccole dimensioni: erano come batuffoli di ovatta sporca in contrasto con il panorama ordinato e lindo che incartava il minuscolo cimitero di Cocoritos, perla incantata della Collina dei Tresospiri, la più struggente delle Colline Terse.
Là Arturo Passinnanzi, meglio conosciuto con il nome di ‘Pinolo’ (a causa della conformazione dolicocefala della testa), un ragazzo parecchio sveglio di circa diciotto anni, stava con grande impegno allenandosi, accovacciato sul suo masso di lancio, al gioco preferito dello Scarafobos in vista dei campionati internazionali di Brisbane .
Pinolo era in realtà imbattibile a questa disciplina o, perlomeno, davvero molto bravo, tanto da non aver trovato, da diverso tempo, nessuno sfidante degno di questo nome.
Il piccolo e inseparabile amico Nunzio Biedermeier (di madre napoletana, ma di padre tedesco, soprannominato dai detrattori O’ Bidè) di una decina d’anni più giovane, lo osservava ammirato per l’indubbia maestria che dimostrava.
Il bambino, contrariamente all’amico, era un tipo abbastanza strano, taciturno, con un viso smilzo su cui spiccavano due occhi a palla infossati nelle orbite sorrette, a loro volta, a mo’ di capitelli, da livide e capaci borse che gli disegnavano un’espressione contrita, direi sofferente. L’aria funerea era, oltretutto, accentuata dal perenne camicione di spessa lana grigia portata in ogni stagione, il cui orlo lasciava appena intravedere le sue scarpe completamente piatte.
Pinolo e Nunzio avevano ottenuto, mesi avanti, la gestione del piccolo camposanto di Cocoritos (che pare debba la sua denominazione al fatto che, anticamente, il posto era stato adibito ad allevamento di pappagalli da combattimento), avendo letto l’offerta di lavoro su di un dépliant arrivato loro a casa.
Per quanto fossero seriamente scettici sull’esito della loro domanda, riuscirono a farsi assegnare l’impiego, senza alcuna difficoltà e soprattutto senza alcun previo colloquio o referenza. Anzi, al loro interessamento, seguì l’immediato recapito, il giorno stesso dell’invio della domanda, della lettera di assunzione con l’esplicito invito a presentarsi a Cocoritos la mattina successiva. La mattina successiva, pur non trovando in loco anima viva (si fa per dire), si misero ugualmente a lavorare avendo rinvenuto, nella bacheca del custode, il loro mansionario e le principali istruzioni sul da farsi.
Tutto ciò parve loro molto singolare. Tuttavia non ebbero a lamentarsene (e a preoccuparsene) più di tanto dal momento che, alla fine di ogni mese, nella medesima guardiola del custode, trovavano immancabili le (cospicue) buste paga che mano ignota riponeva sulla scrivania.
A parte queste iniziali anomalie e la balzana questione che sulla montagnola di roccia all’ingresso del camposanto potessero notarsi scolpite, in rilievo, le facce terrorizzate (e assai realistiche) dei precedenti gestori, non vi furono in seguito altre sorprese.
I due ragazzi, in buona sostanza, da allora si occuparono di tutto ciò che poteva avere a che fare con la naturale conduzione del luogo: dalla pulizia dei sepolcri alla manutenzione della lampade votive, dalle veglie funebri sino alle sepolture vere e proprie. Forse non era granché come attività, ma certamente li teneva occupati facendo loro guadagnare anche non pochi soldi in un’epoca di spietata recessione.
Nunzio era in procinto di assistere all’esplosione della settantesima blatta consecutiva, quando il telefono dell’ufficio trillò. Non distogliendo gli occhi da Pinolo che, caparbio, stava inseguendo il primato personale di centosessantaquattro scarafaggi esplosi, il bambino si levò controvoglia per avvicinarsi distratto alla guardiola.
La cornetta, con un fremito nervoso, gli volò in mano.
«Sì?… cimitero di Cocoritos.»
Una voce roca e biascicata esordì:
«Sono io…»
«Oh, è lei, signore…»
«Lascia perdere il signore… Pinolo è lì?»
«Certo signore, glielo passo?»
«Uhm… no… non è necessario, ho un lavoretto per voi, deve essere eseguito entro oggi.»
«Sì entro oggi…» si raschiò nervoso la gola Nunzio patendo quella voce che poteva benissimo appartenere ad un moribondo cui era andata di traverso una caramella balsamica.
«Ne ho bisogno di una, di qualità medio/alta… misura media…»
«Sì, signore, certo signore, ma non mi risulta che siano in programma nuovi arrivi, signore…»
«Ci saranno, ci saranno… consegna al solito posto! Mi raccomando…» l’interlocutore riattaccò senza aggiungere altro, lasciando Nunzio pensoso e perplesso a squadrare il telefono come se potesse spiegargli il perché, quando chiamava quella persona, si avvertiva, prima o poi tutt’attorno un nauseante odore di zolfo. Quindi, la cornetta, staccatasi con delicatezza e di sua iniziativa dal palmo della mano, si adagiò musicalmente sulla forcella.
«Chi era?» domandò il Pinolo che con un gancio-cielo calibratissimo centrava il barattolo con il settantunesimo scarafaggio consecutivo.
«Indovina… ne vuole una per stasera, ma penso che sarà impossibile, tutto quello che abbiamo è roba vecchia… inutilizzabile e…»
«Non disperarti…» ribatté rassicurante Pinolo che, con disappunto, si era accorto che il settantunesimo insetto non era scoppiato nel termine consentito «ho preso io, mezz’ora fa, una telefonata mentre eri intento ad innaffiare i crisantemi. Ci sarà una sepoltura quest’oggi perciò, se procediamo di buona lena, per mezzanotte ce la potremmo anche fare» poi, alzandosi, con un gesto di stizza, commentò:
«Tanto, per ora, di battere il record non se ne parla.»
«Non è colpa tua!» lo rincuorò Nunzio per solidarietà constatando avvilito che l’ultima blatta lanciata, pur avendo emesso l’inconfondibile verso stridulo di terrore, non voleva assolutamente assolvere al proprio dovere di esplodere «avrei perso anch’io la concentrazione con quel maledetto telefono… ma, a proposito, ascolta… come poteva sapere quello là che ci sarebbe stato un servizio proprio oggi?»
La curiosità, più che legittima di Nunzio, rimase insoddisfatta.
E la sepoltura ci fu.
Nel pomeriggio, infatti, un sontuoso funerale venne celebrato nel grazioso camposanto privilegiato dai ricconi (per via dell’aria salubre e frizzicorina, del panorama suggestivo su entrambe le gaudenti vallate di Lamarmora, ma soprattutto a causa della maledizione che incombeva su quello comunale di Opperville, come si vedrà nel prosieguo della storia ).
Una pioggerellina impertinente aveva disturbato tutta la durata della funzione, cosicché, ben prima dell’imbrunire, la (pochissima) gente del corteo si era accomiatata con sollecitudine: fu allora che iniziò il lavoro febbrile dei ragazzi.
Smurato il loculo, con pochi, lesti e precisi movimenti, piazzarono il feretro sul carrello che spostarono, con facilità, fin sullo spiazzo retrostante dove c’era la discarica. Prestando molta attenzione ad arrecare il minor danno possibile al mobile, schiodarono la bellissima e lussuosa cassa in piuma di noce, con vetrocamera all’odor di mughetto, modanature in argento e impianto stereofonico.
Aperto il coperchio, comparve al suo interno il corpo ricomposto d’un signore dai lineamenti raffinati e dal viso sereno. Indosso, un elegante completo da pilota (comprensivo di cuffia e cloche ancora in pugno) reso inutilizzabile da uno spaventoso buco all’altezza del torace attraverso il quale poteva distinguersi il bianco del paracadute che foderava il fondo della cassa. Avrà potuto avere quarant’anni.
«Poraccio!» esclamò Pinolo «chissà chi è .»
«Un giorno o l’altro mi aspetto che all’apertura, uno di loro, accogliendoci con un sorriso, ci apostrofi: ‘ce ne avete messo di tempo ragazzi!’ disse Nunzio non riuscendo, però, a rimanere serio.
«Non dire stupidaggini…» sbottò il ragazzo pensando a quanto c’era ancora da sbrigare «… aiutami piuttosto con ‘sto coso che è pesantissimo!»
Con un colpo secco, all’unisono, ingegnandosi anche con una leva per alzare il feretro da un lato, rovesciarono il contenuto sull’antistante declivio di margheritine (che diedero segni visibili di non aver apprezzato il gesto).
Il cadavere rotolò su se stesso imbucandosi, con un gran tonfo, nella cavità da loro preparata in precedenza e spesso utilizzata a mo’ di fossa comune.
I due giovani stettero, per qualche minuto, sull’orlo della buca come per accertarsi che il morto non si fosse fatto troppo male, quindi, gettati il cappello da aviatore e un garbato mazzolino di mughetti che sparì proprio nella voragine del torace, se ne andarono guardandosi bene dal ricoprire il cadavere; sapevano che quello sarebbe stato un richiamo irresistibile per le migliaia e migliaia di scarafaggi dei dintorni, di cui Pinolo (esercitandosi parecchio in quel periodo) non ne aveva mai abbastanza.
Lavarono e disinfettarono ogni cosa, provvedendo persino a sprimacciare il cuscino, a stirare il raso della copertura interna e a spruzzare, con acqua profumata di verbena, i mughetti rimasti nel cofano sistemandoli, a corona, lungo i fianchi interni.
Un bel risultato, non c’era nulla da obbiettare! Anche per questa volta il committente sarebbe stato contento.
Era ormai quasi mezzanotte, quando la macchina (una fiabesca, introvabile Polpot ), con a bordo Pinolo e Nunzio si allontanava, speditamente da Cocoritos, sotto un insistente fortunale. Trenta minuti dopo, all’estrema periferia di Lamarmora, sulla strada per la Collina Sparuta (l’altra Collina Tersa), i ragazzi giunsero nel cortile di un casolare di campagna.
Il motore non era ancora spento, che un signore dall’aspetto malaticcio, di un’età indefinibile, venne loro incontro. Alla luce fioca di una lampadina sudicia che dondolava sopra alla porta d’ingresso, partorito dal buio, apparve infagottato in una lunga vestaglia bluastra che lo copriva fino ai piedi, noncurante dell’acqua che gli sferzava il cranio glabro (a dir la verità Pinolo ebbe chiara la sensazione che le gocce rimbalzassero intorno alla figura di quel tizio senza peraltro bagnarlo). Giunto più vicino, puntando un dito che ricordava il ramo di un bonsai pietrificato, esalò:
«Ce ne avete messo di tempo ragazzi!»
Nunzio, trasalì per quella frase.
«Ascolti signor Salmortimer, abbiamo cercato di fare del nostro meglio e consideri che è già sin troppo se siamo qui…»
«Mi chiamo Solmartimer, deficiente, quando lo imparerai il mio nome… e, comunque, evita di pronunciarlo in questi frangenti… persino le foglie qui sono in ascolto…» l’uomo si guardò ripetutamente attorno con rapidi e scricchiolanti scatti del capo come per sottolineare ciò che andava dicendo; in quel medesimo istante una paulonia tomentosa, poco lontana, sentendosi osservata, ritrasse in tutta fretta i rami più sporgenti. Poi, con un ampio movimento della mano, da cui pendeva una pelle pallida e floscia, richiamò l’attenzione di una persona che, fino a quel momento, era rimasta nascosta nella penombra della stamberga.
Mentre la bara veniva scaricata nell’inclemenza degli elementi dal tettuccio eiettabile della Polpot, con celerità e competenza, Solmartimer si appropinquò ai nuovi arrivati, rendendo loro del tutto visibile lo sguardo carminio e cavernoso dentro cui galleggiava un paio di pupille nere e spente.
«Sì non c’é male…» masticò l’uomo assestando una sonora pacca al feretro come se fosse stato il quarto posteriore di un cavallo.
«Come non c’è male?!?» obiettò Nunzio, che, pur avendo ripreso coraggio, si teneva a debita distanza da Solmartimer avendo notato che un enorme arcigufo gli si era appena posato torvo sulla spalla «non solo le scodelliamo in tempo di record un dignitosissimo cappottino di legno come uscito dalla fabbrica, ma ci prendiamo pure il rischio di essere scoperti e…»
A quel punto Pinolo cominciò a tirare indietro per un braccio l’amico. Aveva, infatti, scorto, nel chiaroscuro della notte e tra la pioggia battente, un lampo violaceo nel fundus oculi dell’uomo (e del gufo) che non gli era piaciuto per nulla.
L’aiutante che trasportava il feretro sotto braccio come fosse un’anguria, a quella concitata discussione, si era fermato mostrando, alla luce rantolante della casa, un aspetto che lo faceva assomigliare ad un clone mal riuscito di Frankenstein .
«Mollami!…» protestava Nunzio che voleva liberarsi dalla presa; poi, mettendosi sulle punte delle scarpe piatte, sintomo questo inequivocabile che si stava arrabbiando, seguitò concitato: «non ho affatto finito… e credo che…»
Ma Pinolo, più forte e risoluto, avvantaggiandosi del fatto che la Polpot, intelligentemente, aveva aperta loro la portiera, vi infilò, senza tante cerimonie, l’amico per la testa, mentre l’involucro che l’uomo gufato aveva loro teso, lì seguì con docilità all’interno.
«Arrivederci…» farfugliò Pinolo infilandosi al posto di guida, mentre la macchina, con la sua solita efficienza, si autoaccendeva «come si dice… è stato un piacere…»
Forse Solmartimer, quando la vettura si mise sgommare a tutto gas sul terriccio melmoso, replicò qualcosa, ma, se lo fece, le sue parole si persero nelle pieghe dell’oscurità e nel rimbombo sordo del temporale che cresceva di minuto in minuto d’intensità.
Nello specchietto retrovisore (a forma di cuore, così caratteristico, del resto, nella fiabesca Polpot) Pinolo, mentre scivolava nelle ore più tenebrose della nottata (quelle in cui, citando il noto scrittore noir B.B. Bobby Blue, ‘neppure gli zombies affetti da AIDS si sentono tranquilli’) intravide quell’uomo sinistro, nel breve chiarore di alcuni fulmini scoccati nella loro scia, che, insieme all’aiutante, all’animale grifagno ed alla bara in piuma di noce, in uno sbuffo di fumo giallastro, levitavano prima nell’aria di qualche metro e quindi sparivano, subito dopo, in un turbine repentino d’acqua e fango, nel comignolo della casupola.
«Ma si può sapere che ti ha preso…??? Non dovresti essere tanto arrendevole con quel tizio… se non l’hai ancora capito… se ne approfitta!» scattò Nunzio con il piglio di voler rimproverare il compagno.
I biglietti da diecimila, nel frattempo, usciti spontaneamente dalla busta, si stavano contando da soli «in fondo lui, con la sua ditta di pompe funebri, ci fa un sacco di soldi rivendendo i feretri usati come se fossero nuovi, mentre la fatica e il pericolo sono solo nostri… ehi… ma qui manca almeno la metà del denaro pattuito e… e come puzzano di zolfo… ma che schifo!»
Pinolo deglutì fragorosamente, ma non rispose all’amico continuando pensieroso, tra ali di pioggia impenetrabili, a rigare di giallo (per via della Polpot) una cupa nottata che sarebbe stata sgradita finanche ai gufi mannari.
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