Come la biacca

supereroe - legoQuando si risvegliò in ospedale si ricordava poco o nulla. Era da solo in quella stanzetta, nella luce attenuata e soffusa delle plafoniere notturne, ed era ancora intontito per l’anestesia. Cosa era successo? Stava guidando diretto chissà dove e poi, in un’esplosione di lamiere, il buio. Qualcuno lo aveva investito violentemente e lo aveva lasciato in mezzo alla strada, in stato di semi-incoscienza. Si ricordava a stento il proprio nome e quasi nulla della sua vita, solo stralci bucati tra ricordi sconnessi.
Ma ciò che più lo tormentava era il fatto che sapeva di essere una persona particolare. Era consapevole di essere cioè quello che comunemente si chiama un supereroe; aveva un potere speciale anche se non si ricordava quale; non sapeva perché lo avesse, ma era così pur trattandosi evidentemente di un potere che non lo aveva messo al sicuro da quanto gli era capitato.
Poi, pian piano, col tempo, riaffiorarono pezzi di esistenza come zattere senza ormeggio; si ricordò per esempio che non era sposato, ma che aveva una bella famiglia, che lavorava come architetto free lance, anche se in parte doveva essere una copertura di comodo; che faceva, chissà perché, collezione di acquasantiere. Ma, del suo superpotere, nulla.
Cercò di scoprirlo tentando di spostare oggetti o ascoltando pensieri altrui o cercando di vedere attraverso i muri; ma no, non era quello il genere di potere che aveva.
Tornò dopo più di un mese a casa e quando cessò la convalescenza ricominciò a lavorare. Oramai i ricordi gli erano tornati pressoché tutti meno quello che più gli premeva. Controllò il suo computer, rovistò nei cassetti della sua scrivania alla ricerca di qualche indizio. Niente. Anche se sapeva bene che non vi era motivo per lasciare in giro indizi in tal senso, se non altro per motivi di sicurezza.
Ma più però il tempo passava, più temeva che, forse, si era solo illuso. Probabilmente era una persona normale e quello di avere un superpotere, qualunque esso fosse, era dopotutto solo un sogno.
Qualche tempo dopo, un sabato, la nonna gli telefonò.
«Sono rimasta senza macchina, caro, me l’ha presa tua nipote, mi dai un passaggio in centro?»
Così lui l’accompagnò volentieri dall’assicuratore e al mercato e infine dal fiorista. Ci stava bene in sua compagnia: era una persona molto piacevole.
«Perché compri dei fiori, nonna?»
«È l’anniversario della morte di tuo nonno, caro. Facciamo un salto al cimitero, è l’ultima cosa che ti chiedo, oggi…»
Lui, non si ricordava di essere mai entrato in quel camposanto. Era dietro la chiesa di Collefili, in piena campagna; era appartato, assorto, con una compostezza e semplicità che gli piacquero. Sembrava di essere lontanissimi dal caos della città.
Mentre la nonna metteva in ordine la tomba del nonno, togliendo i fiori secchi e sostituendoli con quelli appena comprati si sentì una scossa di terremoto. Era lenta e prolungata. Temette che il campanile della chiesetta potesse venir giù da un momento all’altro ma non gli venne da scappare, anzi. Poi si accorse che non si trattava di una scossa tellurica vera e propria ma di uno scuotimento del terreno che smuoveva la terra attorno a lui come in un enorme setaccio facendo affiorare gran parte delle tombe. Si vedevano i feretri sbucare dal fondo come venissero a galla; le casse poi, uno dopo l’altra, si spalancarono e i morti uscirono caracollando e mettendosi in fila davanti a lui come fosse una truppa scelta che dovesse essere passata in rassegna. C’era anche il nonno, lo riconobbe, con lo sguardo severo e compreso nel ruolo.
Ecco il mio superpotere qual è’… si disse lui incerto se essere contento oppure no. Era però sollevato. L’ultimo tassello era andato a posto, anche se gli erano del tutto sconosciuti lo scopo e l’utilità di una simile capacità.
Aveva però voglia di abbracciare la nonna che lo aveva aiutato, suo malgrado, a superare definitivamente l’amnesia.
Ma la nonna era crollata sulle ginocchia. Il mento appoggiato sul petto. Il volto bianco, come la biacca.

I gatti di Via degli Armonici

Scrutò il cielo attraverso il vetro della finestra. Era una bella giornata di sole e avrebbe potuto fare la sua passeggiata. Si vestì con calma, nel suo modo metodico e le sue routine. La donna che lo aiutava a tener a posto casa era efficiente e da tempo si era abituata al suo ordine maniacale. Quando da ultimo fu soddisfatto del suo aspetto che lo specchio della camera gli restituiva, prese il sacchettino con il cibo avanzato del pranzo. I gatti di Via degli Armonici avrebbero mangiato anche quel giorno.
A passo lento, come i suoi 75 anni gli consentivano, si diresse, come sempre, verso il fiume. Gli piaceva vedere l’acqua infrangersi sotto i piloni tozzi del Ponte Romano trasportando le cose più varie che la scelleratezza degli uomini affidava al fiume. Di lì si portò alla Farmacia degli Inglesi per comprare la medicina per la pressione e quindi allungò fin verso Piazza Ghega dove, da qualche giorno, avevano iniziato lo scavo per la nuova fermata del tram; poi, finalmente, andò dai suoi mici. Aveva in particolare fatto amicizia con uno di loro, nato da poco, che cercava sempre di intrufolarsi nel suo cappotto per farsi portare a casa. L’aveva chiamato Oreo per il colore del suo manto; era un arruffato batuffolo di pelo che faceva tenerezza solo a guardarlo. Infine, i giardini della Stazione: quando era bel tempo come quel giorno si sedeva sulla sua solita panchina. Gli piaceva osservare la gente, la variopinta e imperscrutabile gente. Quella che passava di fretta o per ingannare il tempo, le mamme premurose dietro a figli capricciosi, uomini in età da lavoro o ragazzi di ritorno da scuola. Gli piaceva esaminarli affaccendati nella loro quotidianità, immaginando storie strambe e vite vissute. Sì, si stava godendo quell’inverno mite pensando a cosa si sarebbe preparato per cena. 
E poi sentì un fischio lungo nella sua testa, così assordante che temette gli potessero sanguinare le orecchie. Poi un suono più breve, dolce, un trillo di tre note, come di un carillon.
Si alzò come un automa. Il suo passo era deciso, sicuro, determinato. Si diresse verso la Stazione accorgendosi che sapeva bene cosa fare anche se non capiva perché ne fosse a conoscenza. Superò la biglietteria perché il biglietto era riposto ben piegato nel portafoglio: sapeva anche quello. La sua destinazione era il binario 12, per Collefili. E infatti il treno delle 16.02 era lì che lo attendeva. Fece appena in tempo a salire che il regionale partì. Solo mezz’ora di viaggio. Giunto a destinazione, si portò al vicino Centro Direzionale, davanti all’uscita D6 e attese. Non aveva la minima idea del perché dovesse essere in quel luogo e a quell’ora. Dalla porta girevole principale, entravano e uscivano tanti uomini d’affari. Poi ne uscì uno in particolare che in qualche modo riconobbe. Aveva un cappello a larga tesa, come quelli di una volta, e una borsa marrone gonfia di chissà cosa. Allora capì e si mosse dall’ombra che il pilastro del porticato proiettava sul lastrico e andò incontro al suo uomo. Dalla tasca destra del suo cappotto sgusciò un coltello serramanico che non pensava affatto di avere, ma  che invece era lì. Lo fece scattare all’interno della manica e in una frazione di secondo, nel tempo in cui gli passò accanto, gli allungò un fendente nella pancia girandolo a destra come una chiave. L’uomo con il cappello si bloccò all’istante come se fosse rimasto agganciato alla porta da cui era uscito e, piegate le gambe, cadde bocconi.
Poi, così come era venuto, il vecchio si allontanò di tutto comodo mentre la gente alle sue spalle si era messa a urlare soccorrendo il malcapitato al centro di una pozza vermiglia.
Prese il treno delle 17.15. Un viaggio di ritorno tranquillo in uno scompartimento vuoto. All’uscita della Stazione si risedette sulla sua panchina ai Giardini ancora pieni di persone. Lo colse nella testa lo stesso fischio violento di un’ora e mezza prima e, dopo qualche secondo, le tre note di carillon.
Si sentiva bene, rilassato, sereno.
Guardò l’ora, non capacitandosi di quanto tempo fosse rimasto lì, e si alzò per tornare a casa.
«Lo devo proprio portare via con me, Oreo, un giorno di questi…» si disse sorridendo del suo pensiero «…sono sicuro che mi farebbe tanta compagnia.»

La sveglia e il telefonino

La donna, ancora piacente e ben vestita, il capello tagliato di fresco, aveva la testa bassa. L’avvocato vicino a lei le faceva il gesto di tirarsi su con il busto, perché si stava presentando male al magistrato. Le aveva pure fatto un bel discorsetto prima dell’interrogatorio, ma ora, lei, sembrava essersi dimenticata di ogni cosa: era crucciata, il pensiero perso da qualche parte tra il pianale della scrivania davanti a lei e le sue scarpe alla moda.
«Per il verbale… lei si chiama…» chiese il PM con voce atona e distaccata.
La donna declinò le generalità a bassa voce, non senza incertezze.
«Nata a… il…» insistette il magistrato.
E lei meccanicamente completò i dati.
«È morto dottore?» fece a un certo punto la donna, preoccupata. Il PM la squadrò, sorpreso per quella domanda.
«Se la sente di raccontarmi com’è andata?» chiese senza rispondere, abbozzando quello che avrebbe dovuto essere un mezzo sorriso.
«Stavo dormendo, dottore, quando nel cuore della notte ho sentito dei rumori. Sa, quella sera ero sola perché le bambine si trovavano con mio marito, a Collefili: era la serata che le doveva tenere lui. Ma quando mi sono alzata e sono andata nel corridoio verso la porta d’ingresso per capire cosa stesse succedendo era già troppo tardi: “loro” stavano già entrando…»
Le ultime parole le morirono in bocca: non riuscì a continuare a parlare e si mise a piangere. L’avvocato tirò fuori un fazzoletto di fiandra d’altri tempi e lo porse alla donna con gentilezza.
Il PM attese paziente.
«A quel punto…» si schiarì la voce la donna «…a quel punto ero davvero terrorizzata: vedevo già la luce di una torcia filtrare sotto la soglia…»
«Li ha aspettati che entrassero e così ha colpito uno di loro…»
«Ma no, dottore. Sono tornata subito a letto; ho pensato che se mi trovavano a dormire profondamente si sarebbero limitati a rubare solo qualcosa e se ne sarebbero andati…»
«E invece?»
«Stava andando tutto bene, diciamo così… nel senso che si erano messi prima a rovistare un po’ in sala e poi sono entrati in camera da letto. Hanno preso la mia veretta e una collana di perle sul comò…»
«Ed è stato questo il momento in cui lei così si è alzata dal letto e ha colpito…»
«Ma no, dottore, no… li ho lasciati fare sperando che si sarebbero accontentati… avevo troppa paura…»
La donna si stava tormentando le dita delle mani come se se le volesse svitare.
«Uno di loro, quello più giovane… mi si è quindi avvicinato e mentre io ero impietrita sopra le coperte lui mi ha abbassato il pantalone del pigiama… aveva proprio quello sguardo lì, sa cosa intendo dire…» fece assumendo nel volto un’espressione di involontaria sensualità «perché ho l’abitudine di non portare niente, sotto, quando mi metto a dormire…»
«Ed è stato quello il momento in cui…»
«No, ma cosa dice, per così poco… e poi l’altro complice, quello che era rimasto sulla porta e che doveva essere il capo, lo ha ripreso seccamente dicendogli di venir via perché, secondo lui, non c’era più nient’altro da rubare…»
«E quindi?»
«E quindi quello che mi era vicino, e che non voleva affatto andarsene, non so se mi sono spiegata, ha notato il mio cellulare sul comodino e se l’è preso.»
«E lei?»
«E io non ci ho più visto. Mi sono allungata fulminea sul comodino e con uno scatto ho afferrato la sveglia in mano e gliel’ho fracassata sulla testa…»
«La sveglia sulla testa? Per il telefonino…?» ripeté automaticamente il PM.
«Certo, dottore. Con tutti i selfie che mi ero fatta l’estate scorsa al mare con le mie amiche… ma scherza davvero? E così il balordo è rimasto lì a terra, mezzo secco… mentre l’altro è scappato via subito.»
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L’abbraccio fatale

Il paracadutismo non aveva più segreti per lui. Era diventato un vero maestro in quel settore, tanto da tenere un corso di lancio estremo da quote basse e con attrezzature sempre più leggere.
Poi a Mark venne in mente una variante originale e mai provata fino a quel momento: l’aveva battezzata “abbraccio fatale” e sarebbe consistita nel lanciarsi insieme al suo amico Fred; ma mentre lui si sarebbe buttato senza paracadute, Fred, lanciandosi subito dopo, l’avrebbe raggiunto e glielo avrebbe consegnato in caduta libera.
“Geniale”, pensò Mark.
“È da pazzi”, gli disse subito Fred che non ne voleva sapere.
Mark sapeva però come convincere l’amico; non ci mise infatti molto a rassicurarlo dicendogli che non avrebbero tentato dal vero la nuova figura prima di averla provata infinite volte nel simulatore di caduta. E così fu, fino a quando almeno non riuscirono effettivamente a ritrovarsi a occhi chiusi e Mark non fu capace di indossare il paracadute con facilità. Anzi, per l’occasione Mark ne aveva progettato uno di nuova concezione in modo che si potesse indossare senza sforzo e nel minor tempo possibile.
Poi venne il giorno della prova dal vivo.
Il lancio andò benissimo. L’emozione era molto forte, ma a parte una leggera incertezza di Fred al momento di consegnare all’amico il paracadute, il passaggio materiale avvenne circa 300 metri di altitudine prima di quanto concordato. L’abbraccio era perfettamente riuscito tanto che atterrarono pressoché insieme.
Da quel giorno ripeterono la figura tante altre volte ancora facendola diventare una routine. Si scambiarono spesso di ruolo in modo da provare la reciproca ebbrezza di chi portava il paracadute e di chi lo riceveva.
Dopo qualche mese, decisero di alzare la posta, lanciandosi da due Piper diversi. La sincronia avrebbe dovuto essere maggiore, così come la concentrazione: il tasso di adrenalina sarebbe risalito.

“Ci vediamo il primo marzo alla solita ora?” scrisse nel messaggio Mark, dopo qualche mese di lanci eseguiti con successo.
“Sì certo, contaci” gli rispose Fred. “Arriverò però con il mio Piper dall’aeroporto di Collefili. Alle 9.00 esatte sarò il tuo angelo salvatore.”

Mark si preparò con la cura di sempre. Si sentiva particolarmente bene quel giorno e in pace con se stesso. La giornata era radiosa e la visibilità perfetta. Alle ore 8.55 spalancò il portellone di lancio sopra a un paesaggio nitido e lussureggiante. Vide in quell’istante il Piper di Fred che arrivava da sud, in orario, come previsto. Le ali dell’aereo luccicavano alla luce del mattino come per un saluto. Gli sorrise per ringraziarlo. Alle ore 9.00 Mark si lanciò proprio mentre l’aereo di Fred era sopra di lui.
Ma capì subito che qualcosa non andava perché il Piper di Fred era troppo veloce. No, non era il suo amico, come realizzò pochi istanti dopo: era un altro aereo, probabilmente da turismo.
Mark, cercò di rallentare la velocità di caduta aprendosi a X e offrendo all’aria il massimo di resistenza. Doveva capire. La lancetta dell’altimetro al polso girava vorticosamente. Aveva ancora pochi secondi. Ma cosa era successo? Poi l’occhio gli cadde sul datario dell’orologio. Era il 29 febbraio, non il primo marzo. Quell’anno era bisestile. Come poteva averlo dimenticato? Il primo marzo sarebbe stato l’indomani.
Chiuse gli occhi e scosse la testa.
La mano volò alla maniglia del piccolo paracadute ventrale di nuova progettazione che un giorno o l’altro si era ripromesso di testare anche se con la sicurezza del paracadute principale. Quel giorno, dopo tutto, era arrivato. Le cascine d’intorno e la torre di controllo diventavano sempre più grandi mentre l’asfalto dell’aeroporto sempre più vicino. Era il momento di sapere se aveva fatto un buon lavoro e se le cinghie avrebbero retto l’eccessiva velocità di caduta.
Tirò con forza e il paracadute nella sacca vibrò violentemente come se avesse voluto solo esplodere; poi fece un rumore come di un urlo liberatorio. E si aprì.

Buon Natale

«Allora, dove passerai il Natale?»
Hap alzò lo sguardo dal libro. Sembrò far fatica a mettere a fuoco l’amico che gli era di fronte. Posò gli occhiali e fece un sorriso stanco gettando un’occhiata per un attimo verso il muro dalla parte opposta.
«Penso che come tutti gli anni andrò negli Hamptons, con moglie, figli e cani al seguito…» rispose dopo un po’ Hap cercando ora gli occhi di Leo.
«E quanto tempo ci resterai?»
«Due settimane, come al solito, tempo e lavoro permettendo» fece lui mostrando i palmi delle mani come se quel concetto dovesse essere evidente. «In quella villa così grande non ci vado quasi mai… dovrò decidermi a venderla. Nemmeno Ann ci si trova bene: si sente sola persino con la servitù; anche i ragazzi… se non li porto ogni tanto a far un po’ di pesca d’altura al marling si annoiano facile.»
«Ti capisco, è l’effetto deprimente che a volte fa il mare…» disse Leo lisciandosi la barba di un paio di giorni e sedendosi vicino all’amico. «Io infatti preferisco la montagna.»
«E tu dove andrai invece?»
«Io che sono più vecchio di te me ne starò invece tranquillo nel mio chalet sul Lago Tahoe anche se assediato dalla mia tribù di nipotini. Faranno un gran baccano, come sempre, ma vederli al mattino di Natale starsene a rovistare sorridenti tra i regali ai piedi dell’abete di otto metri che ho comprato apposta per loro, è un vero balsamo per gli occhi.»
«Eh già già…» annuì Hap posando il libro e mettendoci l’indice in mezzo per non perdere il segno. «Mia figlia grande, per ora, non ne vuol sapere di mettere su famiglia: ci ha presentato questo suo nuovo ragazzo, che, per carità è pure di buona famiglia, educato e rispettoso, ma è lei che non mi sembra granché convinta…»
«Forse perché il ragazzo non piace al papà» fece Leo ironico.
«No, che dici, ho smesso da tempo di impicciarmi di queste cose; no, è piuttosto che non mi sembra innamorata, ecco, tutto qui… Prendi per esempio l’altro giorno: lui, questo ragazzo, questo John, ha preso l’aereo dall’Europa dove si trovava per non so quale motivo e si è fatto 6.000 miglia solo per essere presente al pranzo del compleanno di Margaret, mia figlia; e lei, quando l’ha visto entrare, gli ha rivolto un gelido ‘ah, sei qui?»
«Mah, sono i ragazzi di oggi… non ci badano mica alle formalità; loro sono concreti, vanno dritti alla sostanza non sono come eravamo noi…»
«Dici?»
«Dico dico… te lo assicuro… e che regalo farai a tua moglie?»
«Quest’anno sono vent’anni di matrimonio… le regalerò un anello bellissimo che ho fatto arrivare tramite il mio gioielliere di fiducia direttamente dal Sud Africa…»
«Caspita che regalone! Io invece ho pensato a una serra.»
«A una…?»
«A una serra, una serra nuova per le piante: a lei piace tantissimo, ma anche a me del resto. Coltivare le orchidee e le piante grasse dà molta soddisfazione: sai, è un passatempo che abbiamo entrambi, che ci accomuna, ed è un modo come un altro per stare insieme, dopo tanti anni…»

«Ma che bella coppia di inguaribili sognatori…» si sentì dire alle loro spalle. I due ergastolani si girarono. Chuck il secondino, li stava squadrando con l’aria strafottente di sempre. «Se non spegnete subito quella luce, come vi ho già chiesto di fare da un po’, vengo lì dentro e vi rompo i denti a tutti e due.»
Hap e Leo si guardarono senza dir nulla. Hap allungò la mano e spense lentamente la luce della cella salendo poi sul superiore dei letti a castello; subito dopo anche Leo prese posto nel suo letto in basso. Calò il silenzio. Si sentivano solo rumori lontani e indistinti che in un carcere di massima sicurezza non si sa mai da dove provengano. Il buio si era già rarefatto e le ombre si stavano dividendo quella stanzetta sghemba.
«Allora buon Natale, Hap.»
«Sì, buon Natale anche a te, amico mio.»

La seconda parte segue con –> Maricopa
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