Una lettera è per sempre

letteraL’aveva vista per la prima volta al supermercato. L’aveva colpito il suo viso, gli occhi intensi, il sorriso aperto. Ma non ci aveva pensato più per diverso tempo, fino a quando non l’aveva incontrata nuovamente al Club del Libro del martedì ove si era iscritta con un’amica. E così aveva saputo il suo nome, la sua storia. Era rimasta vedova come lui, un lavoro trascorso da insegnante ed ora era in pensione approfittando di chissà quale ‘quota’. Parlarle era ancora più piacevole. Era spigliata, spiritosa, colta. Aveva un suo modo curioso di esprimersi facendo a tratti danzare le mani davanti al viso con un risultato che trovava ipnotico. Ogni volta che la vedeva in quelle riunioni si accorgeva di provare, suo malgrado, sempre più interesse. Ne era sorpreso. Da quando aveva perso la moglie non aveva più voluto rifarsi una famiglia e poi lui era di poche parole, timido e introverso e fare il primo passo, nonostante l’età avanzata, sarebbe stato un ostacolo insormontabile.
Cercò allora di ignorarla nei limiti del possibile, gli sarebbe passata quella infatuazione, pensò; ma poi parteciparono insieme alla gita sociale al Santuario della Maddalena Nera. Stettero in giro tutto il giorno e lui, pur non avendo il coraggio di farsi avanti, aveva avuto modo più volte di starle vicina. A tavola, sedendosi poco distante da lei, in alcuni tratti di camminata sul sentiero che portava alla chiesa, all’uscita dalla messa. Si era accorto che ne era davvero attratto riportando per fortuna l’impressione di essere in qualche modo ricambiato. Era bastato uno sguardo di lei un po’ più trattenuto, un contatto accidentale con il suo braccio, una battuta di lei che poteva avere, ripensandoci, un significato allusivo. Forse era la persona giusta, si disse. Forse non sarebbe stato più solo.
Così decise di farsi avanti, ma non mettendosi a parlarle, per carità. Non era mai stato infatti ‘l’arte sua’ il parlare. Le parole, soprattutto quando era agitato, gli venivano fuori come avrebbero potuto fare le persone accalcate in una discoteca in fiamme che avessero voluto mettersi in salvo attraverso un’unica uscita di emergenza. Si affastellavano l’una all’altra, senza un ordine e, a volte, senza neppure un senso logico. No, lui preferiva le parole scritte. Quelle rimanevano ferme, e poteva gestirle egregiamente. Sì, aveva deciso: le avrebbe inviato non una volgare mail, ma una lettera cartacea, come si usava una volta, scritta per di più con la penna stilografica del nonno. E se lei era, come lui era convinto che fosse, proprio quel tipo di persona, non solo avrebbe capito, ma anche apprezzato. E l’avrebbe conquistata.
Così, per un po’, non andò più alle riunioni del martedì del Club del Libro. Voleva concentrarsi sulla lettera senza distrazioni di sorta.
Così scrisse e riscrisse il testo più volte. Voleva che tutto fosse perfetto. Desiderava dire e non dire, usando parole che non fossero ricercate, ma neppure banali, che fossero intriganti ma non noiose. E anche il testo non avrebbe dovuto essere né breve da sembrare superficiale, né eccessivamente lungo da apparire prolisso. Voleva insomma farsi conoscere, interessarla, ma anche farle comprendere, con velati sottintesi, che avrebbe voluto qualcosa di più da lei di una semplice conoscenza amicale. Così, dopo svariati tentativi, finalmente il testo era pronto. In brutta copia, però. Ora doveva ‘solo’ riportarlo in bella grafia, visto che aveva deciso di scrivere la lettera a mano. Al computer o a macchina sarebbe stato infatti troppo impersonale e un modo freddo e distaccato di comunicare. E ricominciò il tormento. Fece diversi tentativi. Non aveva una buona grafia, è vero, ma non voleva neppure far sembrare la scrittura infantile. Doveva avere carattere rimanendo tuttavia leggibile, doveva essere dolce, ma forte. Non poteva accettare poi che lei potesse non capire qualche parola. Ognuna di esse aveva il suo posto e il suo significato irrinunciabile.
Infine, quando tutto fu pronto, preparò la busta e comprò il francobollo.
Ci aveva messo ben quindici giorni. Ma ne era valsa la pena.
L’indomani mattina uscì di buon grado. C’era una cassetta delle lettere vicino alla stazione, proprio accanto alla rivendita di tabacchi. Vi si recò deciso.
Ma durante il pur breve tragitto si accorse che, ad ogni passo, lo assaliva un nuovo dubbio. In che guaio si stava cacciando? Era proprio quello che voleva? E se poi lei lo avesse corrisposto? Come avrebbe dovuto comportarsi? Doveva davvero seguire il cuore, alla sua età?
Per un paio di volte si arrestò sul marciapiede a riflettere. Poi ripartiva titubante. Una volta addirittura fece per tornare sui suoi passi. Ma poi l’interesse per lei prevalse e, quando fu davanti alla cassetta, imbucò di getto la lettera prima di ripensarci.
Sulla via del ritorno sentì di essere felice. Aveva fatto la cosa giusta e poteva ritenersi soddisfatto. Si fermò poco distante a un bar per prendere un caffè e assaporare quella nuova sensazione piacevole. Sarebbe andato tutto bene, si disse, adesso ne era sicuro. Non restava che attendere.
Di lì a poco, un furgoncino delle poste si fermò accanto alla cassetta rossa. Ne uscì in fretta un ragazzo con un giubbotto giallo fosforescente. Da una tasca del marsupio estrasse un grosso sacco grigioscuro della spazzatura; in pochi gesti, la aprì imbustando dall’esterno l’intera cassetta. Poi, dopo aver messo lo scotch un po’ dappertutto, applicò un cartello autoadesivo sul bustone:

Come da programmazione aziendale la presente cassetta è dismessa a decorrere dalla data odierna.

Due gocce d’acqua

«Cosa abbiamo?»
Wilburn era arrivato di corsa, i capelli spettinati, gli occhi stanchi. Solo la divisa era in perfetto ordine.
Jack lo vide arrivare, ma lo aspettò comodamente appoggiato al muro.
«Un Jögger 1600, impazzito!» gli rispose quando era a una distanza tale che avrebbe potuto sentire la sua voce grave.
«Perché, ne fanno ancora?» domandò Will guardando in alto in direzione del terrazzino del nono piano della palazzina di fronte dove un geminoide urlante, stava buttando in strada tutto quello che gli capitava a tiro.
«No, li hanno ritirati dal mercato da almeno vent’anni. Se ne trovano solo al mercato nero. Fanno quasi lo stesso lavoro dei roboidi moderni ma costano un decimo. Un surrogato perfetto, se non fosse…»
Will era come ipnotizzato dalla scena che aveva sotto gli occhi. Da lontano l’illusione che si potesse trattare di un umano, nello specifico di una donna, era pressoché perfetta.
«Se non fosse…?» incalzò il sovrispettore che aveva sentito zittirsi improvvisamente il collega.
«Se non fosse che, per qualche motivo ancora sconosciuto, quando meno te lo aspetti, danno fuori di matto… e diventano pericolosi.»
«… pericolosi… » fece eco Will non distogliendo lo sguardo dal terrazzino «…  e ovviamente al mercato nero si sono persi il telemetro per disattivarlo a distanza.»
«Ovviamente.»
Seguirono alcuni attimi di silenzio.
Si udiva solo lo Jögger che sbraitava invettive contro la proprietaria. Aveva appena sradicato dal muro la caldaia termica e l’aveva fatta volare giù di sotto senza alcuno sforzo. Ora era il turno dei vasi dai fiori. Uno aveva appena centrato il parabrezza di una costosissima Hoover Stunt mandandolo in frantumi.
«Cos’è che attira così tanto la tua attenzione, Capo? È solo un ammasso di metallo sintetico» gli chiese Jack che conosceva bene il suo partner.
Per un po’ il sovrispettore Wilburn stette zitto, poi disse: «È che da qui assomiglia tanto a Carla, la mia povera moglie… soprattutto quando si arrabbiava… aveva quel piglio lì… che mi piaceva tanto» fece con la voce incrinata dall’emozione.
Passò ancora qualche secondo; continuavano a piovere sedie e suppellettili.
«Che dici allora Capo… lo abbattiamo? La faccenda si sta facendo critica» chiese Jack tirando fuori dalla macchina il fucile di ordinanza, giusto per rompere l’imbarazzo del momento.
«Sei impazzito?» gli chiese Will. «Le conosci le regole, no? Solo quando diventano pericolosi per gli umani e non mi sembra che quella…»
«Poco fa ha buttato giù un gatto… la signora Miggersmith ci teneva molto…»
Will si girò a guardare il sottoposto. Era serio e ora stava fissando anche lui il terrazzino. A Will non gli era chiaro se stesse scherzando oppure no. Jack era fatto così. Faceva le battute di spirito stando serissimo per poi dire le cose più serie sorridendo. Ma non era sempre così.
«In ogni caso un gatto non è una persona…» sentenziò Will rendendosi conto di quanto suonasse ridicola quella frase.
«Per alcuni lo è…» insistette Jack che continuava a essere serio.
«Faremo invece al solito modo… come da protocollo… non vorrai avere una denuncia del Sindacato Androidi, vero? Sai che scocciatura sarebbe. Lascia lì l’arnese e andiamo.»
I due arrivarono in un attimo al nono piano della palazzina. L’anziana signora Miggersmith era sulla soglia in attesa.
«Avete fatto il vostro comodo, eh? E intanto quella mi sta sfasciando tutta la casa…» li rimproverò l’anziana.
«Sì, buongiorno anche a lei, signora… guardi che lo Jögger l’ha comprato lei… e nonostante il divieto di legge: dovremmo farle la multa» gli ribatté Jack passandole sui piedi.
«E questo cosa vuol dire?» fece la donna irrigidendosi e indurendo la voce.
I due poliziotti erano già entrati circospetti cercando il terrazzino.
«E allora voi che ci state a fare? Lei è proprio un insolente caro giovanotto! Lo sa?» alzò la voce la signora Miggersmith, per farsi sentire senza però mollare la presa sulla maniglia della porta.
Appena il geminoide vide i due poliziotti scavalcò rapidamente la ringhiera e si buttò giù dal nono piano. Cadde malamente.
Il sovrispettore Wilburn e il gerente scelto Jack si sporsero dalla balaustra a guardarlo mentre si rialzava a fatica. Una gamba si era storta nella caduta e stava rilasciando liquido bluastro.
«È spacciato» sentenziò Jack, questa volta sorridendo. «Non esistono più sul mercato i pezzi di ricambio, né tantomeno quel fluido.»
Will rimase un po’ lì a guardare l’androide che, zoppicando, si stava allontanando a fatica. Lasciava dietro a sé una triste macchia scura.
«Andiamo, Capo?»
«Peccato… potevamo arrestarla e chissà… una volta riconvertita, con un adeguato programma educazionale, io avrei potuto…»
«Potuto cosa, Capo?» chiese Jack spazientito per quelle parole.
«Sono… sono davvero due gocce d’acqua, Jack… davvero» disse Will sporgendosi ancora di più per vedere meglio l’androide.
«Quello che stai dicendo, Capo, lo trovo molto morboso… con tutto il rispetto.»
«Hai ragione… Jack» ammise. Poi riprendendosi: «ti va un cheeseburger?»

La signora è qui

«La signora è qui» fece l’avvocato entrando lentamente nell’aula per non fare rumore.
Il giudice alzò lo sguardo, prima su di lui poi su un’anziana signora che aspettava in corridoio. Aveva un cappellino curioso e una borsetta d’altri tempi, l’aria arcigna e battagliera. Si guardava in giro come per capire dove dovesse andare.
«Ha 93 anni…» aggiunse l’avvocato quasi per scusarsi.
«D’accordo la faccia venire…»
L’avvocato uscì per avvertire la cliente. Si offrì anche di darle il braccio per farla entrare con maggior agio, ma la donna si divincolò in malo modo. «Non sono un’invalida!» si sentì dire.
«Buongiorno, si accomodi…» fece il giudice indicando la sedia dall’altra parte della scrivania.
«Guardi che è un po’ sorda» bisbigliò l’avvocato accennando a un sorriso di intesa.
Il giudice fece un cenno con il capo e poi, rivolgendosi alla signora che aveva preso posto davanti a lui senza togliersi il cappellino, disse ad alta voce: «lei lo sa perché è qui, vero?»
«Sì certo… per quei due mascalzoni dei miei nipoti che vogliono mettere le mani sulla mia roba prima ancora che io tiri le cuoia…» e si fermò a guardare il giudice con gli occhi chiari e sbarrati come fosse anche lui il responsabile di quella situazione incresciosa. «Mi vogliono mettere l’amministratore di condominio… Hanno fretta. Loro.»
«L’amministratore di sostegno…» precisò il giudice.
«Sì, quella cosa lì… uno è un fannullone che vive alle mie spalle e sta a Milano, chissà in quale tugurio di sottoscala, e l’altro è un tossico che si fa di barbiturici da mattina a sera e vive con i sussidi della Caritas…» fece lei agitandosi.
«Il “fannullone” vive a Milano ed è primario al reparto di ortopedia del San Francesco di Sales di Opera mentre il “tossico” è professore di medioevalistica alla Normale di Pisa…» chiosò l’avvocato sottovoce per non farsi sentire dalla cliente.
«Ho capito…» fece il giudice chiudendo entrambi gli occhi per qualche secondo «allora, per il verbale… lei è nata a…?».
«Rovigo» rispose la donna cercando di attenuare il tono concitato ma mantenendo il viso imbronciato.
«Il…?»
«12 agosto…»
«Del…?»
«Non si chiede l’età a una signora…»
«Ma è per la procedura» le spiegò l’avvocato.
«È che ci tengo alla mia privacy… e poi è già scritto tutto in quei maledetti fogli lì» indicando con la testa il fascicolo che era tra le mani del giudice. «Non sa leggere?» chiese sfrontata al magistrato.
«In questi fogli c’è scritto anche però che lei dilapida i suoi soldi… fa spese inconsulte… del tipo che compra ogni settimana un nuovo divano per la casa e poi se ne disfa regalandolo al primo che capita perché non le piace più… oppure regala i soldi a chiunque venga a casa sua a chiederglieli… o ancora lascia mance vertiginose al macellaio, neanche fosse il suo tassista.»
«I soldi sono miei e ci faccio quel che mi pare.»
«Certo, niente di più vero. Il problema è che, appena dopo tre giorni aver ritirato la pensione, lei non ha di che comprarsi da mangiare. I suoi nipoti sono preoccupati per lei. Anche perché sta pure cercando di svendere l’appartamento dove attualmente vive. Dove andrà abitare, poi?»
«I miei nipoti fanno finta di essere preoccupati per me, in realtà non vengono neppure a trovarmi. Sono due egoisti. E poi ho ancora il box anche se la macchina l’ho venduta perché ci vedo poco. Andrò a vivere lì, se proprio ci tiene a saperlo, signor cancelliere… magari sul divano che mi è rimasto…» e strizzò un occhio per sottolineare l’ironia.
«È un giudice Marta, il dottore qui è un giudice non un cancelliere.»
«È lo stesso.»
«Cosa ci può comprare con mille euro, signora?» continuò il giudice, paziente.
«Con mille lire? Poco o niente… un chilo di patate?»
«Con mille euro, signora, le ho chiesto con mille euro… non ci sono più le lire… da tempo» cercò di chiarire il magistrato.
«E da quando?»
«Senta… mi può dire che giorno è oggi?»
«Il 12 febbraio, che diamine!»
«Sì, molto bene, ma di che anno?»
«Dell’anno che vuole lei…» disse sgarbata sbuffando.
«Marta, rispondi bene e con gentilezza al giudice» la incalzò l’avvocato. «La scusi, la prego…»
Il magistrato fece un gesto per rassicurare il difensore mentre la donna volse la testa da un lato, come volesse ritrovare la calma che aveva perduto. Poi prese un largo respiro.
«Siamo nel 1943, se non se lo ricorda! È preoccupante che uno come lei che fa un lavoro di responsabilità non lo sappia» rimbrottò la signora Marta facendo gli occhi a spillo quasi volesse fulminare il suo interlocutore. «Si faccia vedere da qualcuno bravo… Anche se, prima o poi, quel bravo baffetto vincerà e vi sistemerà tutti quanti: una volta per tutte.»

Il Prof. Iginio

La prima volta che, uscito dalla stazioncina ferroviaria, lo vide era un lunedì. L’uomo poteva avere qualche anno più di lui, difficile dirlo, anche se per tenere la posizione eretta si aiutava con un bastone. Lo notò perché sembrava aspettarlo per potersi incamminare anche lui verso il centro. Gli era ben chiara quella strana sensazione che gli parve peraltro ancora più singolare per il fatto di aver notato quell’uomo tra le tante altre persone, tra pendolari e studenti, che animavano a quell’ora la stazione.
Man mano che la settimana trascorse, che piovesse o che il cielo fosse sgombro di nubi, al suo arrivo l’uomo era sempre nella stessa posizione, accanto al bel lampione in ferro in stile liberty appena fuori dall’edificio; era magro e longilineo, calato in un elegante vestito giacca e cravatta, un bel cappello ad adornare un viso bonariamente serio; sì lo aspettava e insieme a lui avrebbe fatto tutto il tragitto fin verso l’ufficio.
Ma ciò che Iginio non riusciva proprio a capacitarsi era come faceva quel tipo, che aveva un incedere molto più lento del suo, a mantenere il suo stesso passo, rimanendogli poco distante. Un po’ più avanti, un po’ più indietro, ma vicino.
Poi, un giorno, l’uomo sconosciuto incrociò qualcuno che, nell’incontrarlo nella via, con gesto ampio si cavò il cappello dalla testa e con una leggera riverenza gli disse:
«Prof. Iginio, buongiorno!»
L’uomo rispose con appena un sorriso garbato portando a sua volta la mano alla tesa del proprio borsalino.
Come sarebbe a dire, buongiorno professor Iginio?’ si chiese Iginio. Anch’io mi chiamo così e anch’io faccio il professore. Come è possibile una coincidenza simile?
Una mattina, che lo aveva a distanza di meno di qualche metro, prese coraggio e volle avvicinarlo. Doveva saperne di più. Ma nell’avvicinarsi, in un attimo, si inframmezzò tra loro un gruppo vociante di bambini in gita scolastica e ben presto lo perse di vista. Un’altra volta, in un secondo tentativo, quello improvvisamente entrò in uno stabile chiudendo dietro di sé il pesante portone. Una terza volta, ancora, il tipo salì all’ultimo istante su un autobus che se lo portò via in pochi secondi.
Si fece così strada nel suo cervello che quell’uomo poteva essere lui, la sua immagine fatta persona. Lo sapeva bene che ciò non era possibile, razionale com’era, e che era tutto frutto della sua immaginazione, ma le coincidenze erano troppe. Quell’uomo era forse lui di lì a qualche anno? Ma per quale motivo gli si mostrava? E perché non riusciva a parlargli?
Così la sua preoccupazione crebbe a dismisura quando una mattina, era un lunedì, uscendo dalla solita stazione, non lo vide. Lo cercò attorno al ‘suo’ lampione controllando bene se si fosse attardato altrove, ma era sparito. Lungo il tragitto dalla stazioncina all’ufficio si voltò spesso indietro per accertarsi che non sbucasse da qualche parte. Ma niente. Così accadde il giorno dopo e i giorni a seguire.
Cominciò allora a convincersi che forse era questo il messaggio: che lui aveva ancora pochi anni davanti. Che doveva andare in pensione, godersi la vita, prima che fosse troppo tardi.
Entrò in depressione. Anche se si ripeteva che in realtà era tutta una semplice suggestione. Forse, a prescindere da quello che gli stava accadendo, mettersi in pensione era dopotutto quello che davvero doveva fare, da tempo. Avrebbe potuto fare quei viaggi che aveva sempre rimandato. Era arrivato il momento di smetterla sul serio con quelle cartacce, le estenuanti riunioni inconcludenti e le continue beghe di ufficio. L’età in fondo c’era. Il suo lavoro nella sua vita l’aveva fatto. Un po’ di riposo non ci stava tanto male.
Sì, forse era così anche se passò il resto dei giorni di ottobre in piena crisi.
Poi, all’inizio del mese successivo, era sempre un lunedì, notò che l’uomo aveva ripreso il suo solito posto aspettandolo appena fuori dalla stazioncina vicino al lampione in stile liberty. Si sentì felice. Per sé stesso, per quell’uomo che stava bene. Era stata tutta una supposizione, allora. Pensò. O forse no. Sì sentì anche stupido e credulone. Avrebbe voluto di slancio andare incontro a quella persona anche se non la conosceva, per abbracciarla. Ma poi pensò che l’avrebbe preso per matto. E poi non voleva farla sparire, un’altra volta.
Così rimase fermo per un po’ a guardare quell’uomo così particolare. Era vestito bene, come sempre. Con il suo cappello, il suo bastone. Si era solo fatto crescere un po’ la barba bianca, peraltro curata, che gli stava molto bene. Stava come sempre immobile a guardare davanti a sé la strada, come se nulla potesse turbarlo, pronto a muoversi non appena lo avesse fatto lui. Gli parve persino che per un attimo si fosse girato nella sua direzione e gli avesse sorriso, ma non ci avrebbe giurato. Poi il Prof. Iginio, in servizio, si incamminò e l’altro Prof. Iginio, in pensione, fece lo stesso. Passo dopo passo.

Ginger

I due anziani erano seduti sulla loro solita panchina vista lago. Un ampio cedro del Libano protendeva verso di loro i propri robusti rami gentili come a volerli proteggere. Accanto a ciascuno di loro una gabbietta dentro alla quale saltellava un usignolo cinguettante. Si ritrovavano sempre lì, nella tarda mattinata del sabato, per far prendere un po’ d’aria ai loro compagni piumati.
«Lo so che mi ripeto spesso, Fred, ma il tuo usignolo canta che è una meraviglia… fa gorgheggi che il mio non imparerebbe neppure se facesse mille corsi di canto… se ovviamente esistessero corsi di canto per usignoli…»
«Sì, hai proprio ragione, Stan…»
In quel mentre, un bambino su una carrozzina aveva fatto cadere a terra un guantino di lana; si spinse fin che poté per seguirlo con gli occhi, guardando anche la mamma senza dire però nulla. La donna, chiusa nella sua bolla di pensieri, non se ne era accorta, come i due amici del resto, che sembravano ipnotizzati dal luccichio del sole che aveva appena rilasciato della polvere d’oro sulla superficie dell’acqua.
«Ah… ho ragione, quindi…» gli disse l’altro un poco risentito «anche tu sei d’accordo sul fatto che il tuo usignolo canta molto meglio del mio…»
Fred si girò a osservarlo. Si capiva dal suo sguardo che erano molti i pensieri che gli stavano agitando la mente; ma poi decise di dar sfogo solo a uno di essi.
«No, dicevo, che hai ragione quando dici che ti ripeti spesso… Me lo fai notare quasi ogni volta che ci vediamo. ‘Ginger ha un piumaggio più bello del mio, canta meglio del mio, saltella come nessuno mai, ha l’occhio più vispo che si sia mai visto…’. Ginger mi è stata regalata da un mio vecchio commerciante di tè Gyokuro… viene dallo Kirishima nel sud del Giappone… È una usignola speciale.»
«Ginger? Tu ti chiami Fred e il tuo usignolo Ginger?» gli chiese Stan sbarrando gli occhi.
La domanda rimase sospesa nell’aria, come le due piccole nuvole che si stavano rincorrendo nel cielo in quel momento.
«Da quanto tempo ci conosciamo, Stan?» gli chiese sospirando.
«Praticamente da sempre…» rispose l’amico, contento di sapere la risposta.
«E da quanto tempo ho Ginger?»
«Da quando sei andato in pensione, pari a me… cioè quindici anni fa circa.»
«E ti accorgi solo ora che io mio chiamo Fred e la mia usignola Ginger? Perché Ginger è oltretutto una femmina, Stan, una F-E-M-M-I-N-A! Sennò si chiamerebbe Gingerino, il che sarebbe orribile.»
Stan aveva aperto la bocca giusto per ribattere, ma si era accorto di non avere a disposizione le parole giuste.
In quel momento arrivò Albert, il terzo amico. Era così alto che, nonostante fosse curvo di spalle, sovrastava gli altri due minacciosamente. Spingeva un’asta da fleboclisi davanti a sé solo che, anziché far penzolare un flacone di medicinale, c’era attaccata una gabbietta, anch’essa con dentro un usignolo. Albert abitava vicino al parco, diceva, e gli faceva fatica portarsi la gabbietta in mano; così aveva inventato quel sistema.
«Buongiorno, giovani…» esordì come se li avesse notati all’ultimo momento.
E poi, come d’abitudine, si mise goffamente sull’attenti aspettando che Fred gli dicesse di sedersi. Fred era stato il suo comandante in guerra, e quel legame, dopo tanti anni, per gioco o per rispetto, era rimasto tra loro irrisolto.
«Riposo, sergente, riposo…» gli disse Fred accondiscendente «siediti pure con noi.»
«Grazie» gli rispose lui tirandosi dietro rumorosamente l’asta della flebo. «Allora ne approfitto.»
E poi tutti e tre presero a guardare in silenzio il riverbero del sole sullo specchio immobile del lago. Le giornate si erano fatte più tiepide e i primi fiori stavano colorando i rami spogli dei mandorli.
«Chissà cosa pensano di noi…» fece a un certo punto Fred.
«Cosa pensano di noi, chi?» chiese Albert non smettendo di guardare il luccichio.
«I nostri usignoli. Cosa pensano del fatto che li teniamo in gabbia… che li portiamo un po’ fuori perché respirino l’aria fresca del mattino, perché capiscano che c’è tutto un mondo qui fuori, per poi impedir loro di godersi la libertà; e questo solo per l’egoismo di volerli sentir cantare.»
«Cosa pensano?» fece Stan stralunato. «Ma cos’hai oggi? Sei strano forte. Gli uccellini non pensano e poi senti come cantano!» e mise teatralmente il palmo della mano attorno all’orecchio.
«Che ne sai tu che è un canto di felicità?»
«Guarda che la tua, come del resto i nostri» osservò Albert fermando la gabbietta davanti a sé che si era messa a dondolare per la brezza «è nata in cattività e non saprà neppure cosa significhi volare….». E indicò Ginger con un mezzo sigaro spento che si mise tra le labbra.
«È arrivato il momento di scoprirlo» masticò Fred tra sé e sé; poi, d’un tratto, si alzò andando a posare repentinamente la sua gabbietta su un masso piatto di fronte. Aprì la porticina della voliera tornando subito dopo alla panchina proprio nel momento in cui i due amici esclamavano all’unisono un sonoro: ‘NOOOOOOO!!!’.
Ma poi i due rimasero immobili, come in una istantanea, con il braccio teso verso la piccola voliera come per ripararsi da chissà quale pericolo. Si ricomposero seri, lentamente, senza dire più nulla; tutto sommato erano curiosi di vedere cosa sarebbe successo.
Ginger si arruffò le ali, guardando prima lo sportellino aperto, poi i tre anziani davanti a sé e infine i due usignoli in gabbia. Ma non si mosse.
Albert aveva appena avuto il tempo di dire ‘VISTO?’ che Ginger saltò dalla mangiatoia fin davanti all’uscio della gabbietta. Quindi in un attimo spiccò il volo nell’aria tersa di quel sabato di marzo prendendo, senza il minimo ripensamento, la direzione del sole.
Ben presto fu solo un puntino.
Fred finalmente sorrise.