Emy è stata una moglie adorabile. Prima che un destino avverso se la portasse via all’improvviso aveva colmato la vita della sua famiglia in modo indimenticabile. Nonostante avesse il suo lavoro impegnativo, ad Aldo, suo marito, e ai suoi figli non erano mai mancati affetto e attenzioni. Era capace di organizzarsi brillantemente in modo che nulla potesse mai sfuggirle: dal cibo in frigo alla camicia pulita, dall’appuntamento dal dentista del figlio all’anniversario del primo bacio. Una donna, insomma, che aveva saputo rendersi insostituibile tanto che, a distanza di un anno, il vuoto che aveva lasciato pareva incolmabile.
Tutto in casa parlava ancora di lei: i mobili, la cura per il dettaglio, l’ordine preferito delle cose, persino la scansione del loro ritmo di vita.
Aldo e i ragazzi trovavano poi ancora i suoi biglietti che a lei piaceva nascondere tra le loro cose in modo che li potessero trovare nei momenti più impensati della giornata. Un pensiero, un saluto, un bacio.
Ancora l’altro giorno nel tirar fuori per la prima volta il cappotto dall’armadio, Aldo aveva trovato un suo biglietto nella tasca, ripiegato con cura:
Aldo caro, un pensiero dolce da portare con te al lavoro, fino a quando non mi rivedrai.
Chissà quando lo aveva scritto. La grafia era sicura, il tratto leggero. Lui riusciva persino a immaginarla seduta al tavolo della cucina mentre lo scriveva, tutta presa nel suo compito: il viso un po’ piegato da un lato, il sorriso radioso sul volto.
Anni dopo, Aldo capì che la casa era diventata troppo grande per lui. I figli erano ormai adulti e avevano messo su famiglia per conto proprio. I ricordi tra quei muri con il tempo anziché diminuire erano aumentati ed era adesso il momento, per non impazzire, di voltare pagina e di smettere di vivere in un mausoleo. Aveva deciso così di dividere l’appartamento e di tenere per sé solo alcune stanze.
E fu quando rifece parte del tetto che scoprì una intercapedine tra una trave e la soletta; non l’aveva mai notata perché si trovava in alto, seminascosta dalla porta del solaio. Nell’infilarvi la mano trovò un pacchetto. Riconobbe subito il suo stile, il suo modo di incartare, di fare il fiocco, l’immancabile biglietto. Proprio ora che si era determinato ad archiviare il passato ecco che, implacabile, si ripresentava. Probabilmente era un regalo che lei aveva comprato per una ricorrenza o per il Natale imminente senza poi avere il tempo di consegnarlo. Ebbe una stretta al cuore. Lo scartò lentamente. Dentro c’era uno zippo antico, molto bello. Lui, certo, non fumava, ma si ricordava bene che un giorno, davanti a un barbecue, se ne era parlato come di un qualcosa che potesse essere utile per accendere il fuoco. Aldo sorrise all’immagine che gli si era formata nella mente e scosse la testa. Dopo tanto tempo, gli vennero i lucciconi agli occhi.
Lesse quindi il biglietto iniziando a tremare.
A te, mio dolce Arturo: per i tuoi sigari da gustare dopo che abbiamo fatto l’amore. Per sempre tua. Emy
Quando cercò di riaprire gli occhi non ci riuscì. Erano come sigillati. Dal sonno, dall’intensità dei sogni, dalla stanchezza spossante di quei giorni. L’incubo da cui era appena uscito gli aveva cucito addosso una sensazione di timore, di allerta, di straniamento. Strinse i pugni come per raccogliere le forze.
Riprovò ad aprire gli occhi e finalmente si spalancarono tra mille spilli che gli parevano bucare le cornee. Doveva decidersi a darsi una regolata. Non poteva più prendere la vita in quel modo. Occorreva un reset, nuove regole, nuovi limiti. Ci doveva provare, lo doveva quantomeno a sé stesso.
Ma dov’era?
Peraltro era sicuramente tardi. La mattina sarebbe stata come al solito impegnativa. La riunione con il personale, la videoconferenza con la Direzione, il tavolo ristretto con i dirigenti di compartimento per le problematiche insorte la settimana precedente. E chissà cos’altro. Doveva far presto. Saltare giù dal letto e farsi una bella doccia ristoratrice; la colazione l’avrebbe fatta in ufficio, solo se ci fosse stato tempo.
Non sentiva però il respiro della moglie accanto a sé. Forse allora non era a casa.
Adesso che ci pensava meglio non poteva che trovarsi nel suo solito albergo ad Alvona. Per l’assemblea mensile. Solo in quell’hotel ci poteva essere tanto buio; avevano la mania di serrare le tapparelle per la sicurezza degli ospiti tanto da indurre effetti claustrofobici. Era uscito anche sul giornale. Doveva cambiare albergo. I colleghi gliene avevano consigliato un altro, sul lungomare, così vicino alla spiaggia da poter sentire in stanza, alla sera, lo sciabordio della risacca e il profumo della salsedine. E con in più, annesso, un ristorante diventato famoso per cucinare in modo divino gli spunciacorrente. Sì, la prossima volta non avrebbe fatto lo stesso errore. Basta.
Ma no, che gli diceva la testa? Era domenica, adesso sì che ricordava: era nella casa di campagna; poteva rimanere a dormire quanto voleva. Altro che riunioni o incontri. La moglie, che si alzava sempre presto, sapeva bene che non voleva essere disturbato. Era per questo che era solo, nel lettone, avvolto dal silenzio delle colline di Poggiobrusco. E quelle prime ore della domenica erano sacre: si sarebbe alzato solo quando sarebbe stato il momento; quando avrebbe sentito le “pile” ricaricarsi. Anche se, a dire il vero. non pareva proprio che volessero saperne di ricaricarsi persino solo un po’. Non si rammentava di essersi mai sentito così. Come se stesse covando una qualche malattia. Già, una malattia…
Pian piano si ricordò che alcune settimane prima si era sentito male. Era stato ricoverato. Ricordava il volto rassicurante del medico che parlava a sua moglie al suo capezzale. Ma lui non aveva capito quale fosse il problema. La moglie in seguito era rimasta per ore seduta accanto a lui. Gli sussurrava ogni tanto qualcosa, con dolcezza e accarezzandolo, ma senza che lui potesse comprendere cosa stesse accadendo.
Oddio. Pensò. Allora era ancora in ospedale, a Lughi! Dov’era l’infermiera? Doveva assolutamente parlarle.
Però, a esser sinceri, non c’erano i suoni tipici dell’ospedale. Non si sentiva neppure il vicino di letto russare come un trombone stonato; e dal soffitto non spioveva quell’odiosa luce arancione. No, non era affatto lì. Era sicuramente altrove.
Poi gli tornò in mente che le sue condizioni di salute si erano a un certo punto aggravate. Dopo qualche giorno di ricovero era entrato in coma. È strano che ora lo rammentasse così bene. Si era sentito come risucchiato in un buco nero, dove l’anima era rimasta da una parte e il corpo era caduto nel pozzo senza fondo come un oggetto inutile.
Quindi, il fatto che adesso fosse sveglio, non poteva che significare che ne era appena uscito. Stava meglio. Doveva parlare con un medico. Subito.
Provò ad alzarsi, ma sbatté la testa. Allargò le braccia. Capì.
Era dentro a una bara.
Cominciò a urlare. Con tutte le sue forze.
«Cosa fai?»
Il marito era appena entrato in casa. La moglie era seduta in salotto con l’aria assorta. Sembrava non avere neppure sentito.
«Tutto bene?» chiese lui avvicinandosi.
«Mi è arrivata una lettera…» rispose lei sventolandola un poco. Il foglio di carta rilasciò nell’aria un suono da carta d’altri tempi.
«C’è davvero chi ancora scrive delle lettere?» chiese lui azzardando a sorridere. La faccia seria della moglie gli fece morire il sorriso sulle labbra.
«È di mia madre.»
«Come di tua madre? Ma se è morta dieci anni fa?»
Lei per tutta risposta gli allungò brusca la lettera. Lui la prese titubante come se fosse una lama tagliente. Iniziò a leggerla:
Come stai, piccina mia? So che stai attraversando un brutto periodo. Ma non devi abbatterti, né deprimerti. La vita sa in un momento atterrarti e innalzarti con la stessa testarda indifferenza. Bisogna prenderla come viene, non c’è nient’altro da fare. E poi tu sei una donna forte, tenace, caparbia; lo so, perché tanto mi assomigli. Saprai anche questa volta trovare il modo per uscirne a testa alta. Hai un marito che ti adora e due figli meravigliosi…
L’uomo smise di leggere.
«Ma non è possibile, Tesoro… è uno scherzo di pessimo gusto… qualcuno del tuo ufficio sa della questione e ha voluto prenderti in giro… bei colleghi che hai!» commentò abbassando la mano con la lettera.
La moglie riprese in mano il foglio, questa volta delicatamente, come fosse una reliquia.
«È una lettera di mia madre, ti dico… è la sua scrittura, quella degli ultimi mesi; tremava un po’; guarda le “f” e le “t” e le “i” senza punto. È la sua scrittura, non ci sono dubbi, la conosco fin troppo bene. E poi in ufficio nessuno ne sa ancora nulla. Per adesso sono stata solo informata dalla Direzione centrale che mi ha dato ancora due giorni di tempo per decidere. No, non ne sanno davvero proprio nulla i miei. Mi avrebbero poi già tempestato di telefonate.»
Il marito si lasciò andare pesantemente sulla poltrona. Si era scordato che fino a pochi minuti prima di entrare in casa l’unica cosa che aveva desiderato era farsi una doccia. Era preoccupato. Non ci voleva che in quella situazione già così difficile ci si mettesse anche quella lettera fasulla. Avrebbe rinvangato un rapporto conflittuale e travagliato con devastanti sensi di colpa.
«Lo so cosa vuoi dire…» fece lei alzando nella sua direzione il palmo aperto della mano quasi volesse fermarlo. «Sono io la prima a rendermene conto. Certo, non dovrebbe essere possibile. Ma ci sono troppi particolari esatti in questa lettera. Un paio non li conosco neppure io. E sono anche parole giuste, che in qualche modo mi danno conforto, mi aiutano. E poi… e poi c’è questo…» disse lei inclinando la busta gialla da un lato e facendo scivolare in mano un oggetto.
«Cos’è?»
«È un rosario, il rosario della mamma…»
«Ma è un rosario qualunque che si può trovare facilmente anche su internet…» fece lui, pentendosi subito dopo di quello che aveva appena detto.
La moglie chinò il capo. Si mise ad accarezzare il rosario, seme dopo seme.
«Questo è il rosario di mia madre» fece lei in modo solenne, con un filo di voce. «È un rosario antico, introvabile. Lo aveva fatto un ebanista su commissione di mia madre e su suo disegno. Dietro alla croce, mia madre vi aveva fatto incidere le sue iniziali. Ed è il rosario che io stessa ho messo tra le sue mani prima di chiudere il feretro.»
Quando la bambina nacque lui era davvero felice. Non solo perché non assomigliava a lui e agli altri figli, ma anche perché era una deliziosa femminuccia e dopo tanti maschi ne aveva tanto desiderato una.
‘Occhibelli’, gli venne subito da dire appena la vide.
«Sono tutti belli gli occhi dei neonati, caro» gli disse Alheit, la moglie sfinita dal parto mentre si coccolava la piccola.
«Sei preoccupata, tesoro?» le chiese lui accarezzandola.
«Sì, un po’… mi domandavo se i fratelli la accetteranno… lei che è… che è…»
«Che è “normale”? È questo che vuoi dire?» Lei non rispose.
Lui infatti era un nano Mojûk dei Boschi Bigi, forte e possente come un ceppo di quercia secolare, mentre lei era una bellissima ragazza bionda, minuta, dagli occhi azzurri e alta come un capriolo adulto. Si erano piaciuti subito, nonostante le differenze fisiche, e avevano deciso di mettere su una numerosa famiglia. Tutti i figli avevano preso da lui, tranne Occhibelli che prometteva di diventare una copia ancor più deliziosa della madre.
«Quando torneremo ai Boschi… glielo spiegheremo. Del resto hanno sempre te sotto gli occhi…» fece lui provando a sorridere.
«Vedremo» rispose Alheit con l’aria triste.
Rimasero ancora qualche giorno nella Baita Esterna dove avevano preferito rifugiarsi dagli occhi indiscreti dei figli durante il lungo travaglio. Ma più il tempo passava, più Mojûk si chiedeva perché mai dopo, tanti figli maschi nani, era nata una figlia femmina e per giunta “normale”. E ciò che meno lo persuadeva erano i lineamenti della bambina. Per quanto la moglie fosse di bell’aspetto, era pur sempre una popolana; e allora da chi Occhibelli aveva preso quel profilo nobile, la fronte spaziosa, gli zigomi alti?
Così, quando un mese dopo, partirono per tornare ai Boschi Bigi, lui volle passare dal Lago Profondo. Avrebbero allungato un po’ il percorso, ma lui disse che ne valeva la pena in quanto ci teneva a bagnare il capo della piccola in quelle acque sacre e incontaminate.
Così arrivarono al Lago e giunti alla riva, mentre la madre si specchiava con la neonata, lui gettò un sasso nell’acqua. Era uno dei tre sassi che gli aveva dato il padre poco prima di morire. Sassi dai poteri ancestrali, aveva ammonito, che, gettati nelle acque di quel Lago, gli avrebbero fatto conoscere la Verità.
Del resto il primo sasso Mojûk lo aveva utilizzato tanti anni prima per sapere se i Boschi Bigi, dove si sarebbe ritirato con la moglie appena sposata, avrebbero dato loro da vivere; e la risposta fu sì che la famiglia sarebbe stata numerosa e avrebbe trovato, così come fu, addirittura una miniera abbandonata da cui trarre sostentamento.
Un secondo sasso lo aveva gettato due anni avanti per sapere invece se sarebbe sopravvissuto alle profonde ferite infertegli da un cinghiale; e il Lago rispose che sì, non sarebbe morto per quelle, ma anni dopo, perché pazzo di dolore.
E ora era il momento di sapere nuovamente la verità, l’ultima si disse, e cioè se Occhibelli era davvero figlia sua.
Il sasso affondò quasi senza increspare l’acqua. E quando la superficie si ricompose vide che il volto della bimba, mutato all’improvviso e per un attimo, non era il suo; era quello di un uomo bellissimo dai lineamenti principeschi. Un altro uomo, insomma. Si accorse della trasformazione anche la moglie che, dopo aver incrociato lo sguardo perduto del marito, gridando, si mise a correre con la bambina in braccio.
Mojûk avrebbe voluto inseguirla per farsi spiegare perché lo avesse tradito ma non riusciva a muoversi. I suoi piedi parevano penetrati per chilometri nella terra come radici inestricabili. Quando riuscì finalmente a camminare la moglie era già sparita. Era infatti riuscita a raggiungere Monte Tausendadler su cui si inerpicò per giorni alla ricerca di un rifugio sicuro. Poi una mattina finalmente trovò un antro. Era sufficientemente lontano da sentirsi al sicuro. Da lassù poteva scorgere persino i Boschi Bigi, dove forse non avrebbe avuto mai più il coraggio di tornare. Si addormentò spossata, con la figlia tra le braccia che riposava serena.
Durante la notte si svegliò all’improvviso per un rumore. Possibile che il marito l’avesse già trovata? E invece era un’aquila; fece appena in tempo a vederla portar via la figlia senza riuscire a fermarla.
Mojûk, come gli aveva predetto il Lago sacro, impazzì di dolore per aver perso la moglie e la gioia di vivere. Avrebbe voluto spiegare ad Alheit che avrebbe voluto bene anche alla bambina purché lei non lo lasciasse. Ma Alheit non lo seppe mai perché trascorse tutta la vita a cercare vanamente la piccola di nido d’aquila in nido d’aquila in un territorio impervio di venti leghe quadrate.
Non trovò più la bambina in quanto l’aquila in realtà l’aveva subito trasportata al Castello di Heltz posandola tra le braccia della Baronessa Pallida che tanto avrebbe desiderato la figlia che la Vita le aveva sempre negato.
Così la neonata, dalla carnagione candida come la neve, crebbe tra gli agi e gli sfarzi di corte, ben voluta anche dal Barone Johann Von Hochnaussen che in cuor suo voleva farsi perdonare di aver messo incinta quella popolana incontrata durante una battuta di caccia e sparita in circostanze misteriose.
Molti anni dopo, Occhibelli, diventata una donna meravigliosa, per sfuggire a un cacciatore che aveva avuto l’incarico dalla matrigna di ucciderla perché troppo bella, si rifugiò nella casa abitata da coloro che non avrebbe mai saputo essere i suoi sette fratellastri. [space]
Questo racconto è stato inserito nella lista degli Over 100.
Scopri cosa vuol dire –> Gli Over 100
Mi svegliai all’improvviso. Lei era entrata nella stanza facendo rumore.
«Ero preoccupata che fosse successo qualcosa, non dormi mai fino a quest’ora…»
Mi ricordo di averla guardata senza riconoscerla.
«Sì, d’accordo, arrivo subito…» feci dopo un po’, appoggiando un gomito sul letto per tirarmi su. Ma appena lei si fu allontanata mi lasciai andare pesantemente appoggiando di nuovo la testa sul cuscino. Il sonno accumulato negli ultimi giorni era quasi insostenibile.
Avvertii subito dopo, acuto, un senso di smarrimento. Stavo infatti sognando quando lei era entrata. Stavo sognando di parlare con John Lennon. Era lì con me, in quella stessa stanza, pochi secondi prima. Parlava di un brano, l’ultimo che avesse scritto prima dell’incontro fatale con Mark David Chapman.
«Sai, è una canzone per Yoko…» mi aveva detto mettendosi al piano verticale dove invece ora c’è la libreria. «Lei non l’ha mai ascoltata… doveva essere una sorpresa…» e mi ha guardato in un modo profondamente triste.
Attaccando a suonare me l’ha cantata: sembrava tutto maledettamente vero. Una canzone dolce, melodiosa, una dei suoi pezzi migliori. Ricordava le atmosfere di Julia o di Woman. E quando smise mi guardò soddisfatto.
«Ora sono riuscito finalmente a terminarla…» sorrise. «L’altro giorno mi sono venuti sia l’intro che alcuni accordi nuovi. Ma quanto tempo è passato?»
Io non sapevo cosa rispondere. ‘Quanto tempo è passato da quando?‘ stavo per chiedergli.
Poi a quel punto lei è entrata in stanza e mi ha svegliato. La canzone però la ricordavo benissimo. Così ho preso il telefono è ho chiamato prima Osvaldo e poi Carlo. Ho raccontato loro, che sono i miei più cari amici, quello che era successo. Il sogno e tutto il resto. Ho provato a cantarla ma sono così stonato che ciò che usciva dalla mia bocca risultava inascoltabile, da tapparsi le orecchie. Tutti e due mi hanno preso in giro, ovviamente. E non c’è stato modo di farli smettere di ridere. Begli amici!
Mi sono allora informato per incontrare un maestro di musica. Magari un orecchio allenato mi avrebbe permesso di fermare su carta quello che sentivo ancora distintamente nella mia testa. Quella musica mi riecheggiava dentro in modo chiaro, pulito ma quando provavo a riprodurla diventava un’altra cosa, un lamento insopportabile persino per me. Il maestro dapprima mi ha prestato seriamente la sua attenzione e poi si è messo anche lui a ridere, per quella storia del sogno e tutto il resto. Mi deve aver preso per matto tanto che non ha voluto neppure essere pagato; mi ha messo gentilmente alla porta e poi si è negato al telefono nei giorni successivi.
Ma non ho mollato. Quando mi trovavo solo in casa mi piazzavo davanti allo specchio a provare e riprovare. Chiudevo gli occhi per ascoltare bene quello che ancora ricordavo e ho tentato di riprodurlo, lentamente, con calma. Una, cento, mille volte. Ma non c’era davvero nulla da fare.
Possibile che quella musica stupenda dovesse andare perduta per sempre?
Poi una sera mi sono trovato in trasferta ad Alvona. Ero sceso al ristorante dell’hotel. Non avevo voglia di girare per la città in cerca di un’alternativa anche perché avevo poca fame. Quel ristorantino pretenzioso del resto mi era sempre piaciuto.
Avevo ordinato il solito e stavo aspettando nella sala pressoché vuota, forse perché non era stagione o più probabilmente perché era ancora presto, quando mi sono messo a giocare con le posate. Ho urtato con la lama del coltello il bordo del bicchiere dell’acqua davanti a me e poi quello del vino e infine la bottiglia di chardonnay.
‘Eccola la melodia, eccola…’ ho pensato. Mi sono subito alzato per prendere da un altro tavolo altri due bicchieri; li ho riempiti di vino e di acqua in quantità diverse. Ne ho aggiustato il livello fino a quando, colpendo i relativi vetri, non ottenevo la nota giusta. Suonandoli infine tutti insieme, nella corretta successione, ne ricavai buona parte della melodia, quella di John. Ci ero riuscito!
Ho afferrato il telefonino per chiamare qualcuno per dare la notizia.
Poi mi sono fermato. Ci ho pensato un po’ su. E ho preso il bicchiere di vino e me lo sono bevuto. [space]
Questo racconto è stato inserito nella lista degli Over 100.
Scopri cosa vuol dire –> Gli Over 100
Condividi:
Privacy e cookie: Questo sito utilizza cookie. Continuando a utilizzare questo sito web, si accetta l’utilizzo dei cookie.
Per ulteriori informazioni, anche su controllo dei cookie, leggi qui:
Our Cookie Policy