Poi, di colpo, il trambusto tacque. Il ragazzo trattenne il respiro, mentre provava ancora a tirare a sé con tutte le forze gli avambracci. Le dita stavano diventando viola e le vene si erano ingrossate gonfie di rabbia. Il cuore cominciò a pompare in maniera così tumultuosa da assordarlo e l’adrenalina dilatò le sue pupille come quelle di una faina braccata dai lupi. Sentì i passi avvicinarsi e subito un uomo spalancò la porta con un violento calcio assestato alla base appiattendola al muro da dove non ebbe più il coraggio di muoversi. Si portò a larghe falcate al tavolo, al centro della stanza, sedendosi pesantemente. La luce di sbieco dai campi bruciati di girasole, gli illuminava mezza faccia quel tanto che bastava per poter leggere tutta la tensione nei lineamenti.
«E così hanno scelto proprio te per fare il lavoro sporco» ringhiò il ragazzo con una voce inaspettatamente rauca. Il tono si era fatto impavido, rassegnato. Tutto il suo corpo era in ombra, ma la polvere che si alzava dal pavimento quando agitava le scarpe prendeva un biancore dorato che rimaneva sospesa a mezz’aria nella stanza. L’uomo girò appena lo sguardo in direzione del sequestrato, ma non rispose. Si limitò a sbuffare rumorosamente: davanti a sé aveva una pistola automatica completamente smontata, che prese ad assemblare con un certo nervosismo.
«Eppure mi eri sembrato il migliore fra loro» fece il ragazzo, cui si stava stringendo la gola per l’emozione. «In questi giorni mi hai anche aiutato qualche volta. Mi hai portato da bere quando avevo sete e da mangiare quando la fame non mi faceva più dormire.»
L’uomo non fiatava. Sembrava sordo o profondamente assorto nei suoi pensieri. Seguitava imperterrito a mettere insieme i pezzi dell’arma senza incertezze, con scatti improvvisi, ma sicuri. Si sarebbe detto che avrebbe saputo svolgere quell’operazione anche nella pancia della madre, tanto era connaturato al suo esistere.
«Mi eri sembrato quello che sapeva di avere una coscienza, devo essere sincero…» continuava ostinato il ragazzo con un tono che si era fatto mieloso e cantilenante «abbiamo parlato a lungo, mi ero persino illuso che fossimo diventati un po’ amici»; parlava a raffica il giovane senza mai perdere neppure un gesto del suo carnefice, le cui dita danzavano su quegli oggetti freddi e levigati a ricomporre la forma aggressiva e infida di una grossa calibro 45. «Cos’hai da spartire con quelli là? Tu sei diverso, ne sono sicuro. Fammi fuggire, saprò ricompensarti. Mio padre ha amici influenti. Farò di tutto perché tu esca fuori da questo pasticcio nei migliori dei modi. Ti prego, aiutami, ti supplico.»
L’uomo squadrò il ragazzo con odio, serrando i muscoli delle mascelle. I grossi baffi erano mobili e nascondevano del tutto il labbro superiore, come se vi fosse stata una imperfezione o un taglio da mascherare.
Poi, d’un tratto, l’arma fu ultimata in ogni sua parte. Anche la luce del sole sembrò attenuarsi a sottolineare quell’attimo di silenzio. L’uomo teneva le mani con le palme aperte sul tavolo attorno all’arma che aveva smesso di luccicare, come se da innocente sommatoria di pezzi finemente lavorati, fosse diventata strumento consapevole di morte. Quindi l’uomo, con uno gesto breve, ma plateale, innestò il caricatore già gravido di munizioni. Armò la pistola spostando indietro il carrello con un colpo secco che fece vibrare finanche la
«Che tu sia maledetto» mormorò l’uomo con livore. Poi si portò la pistola alla tempia e si sparò.
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