Ed erano passati effettivamente diversi giorni senza che quel disturbo si presentasse più, fino a quando, una domenica, mentre faceva il suo solito giro sulle colline per non pensare a cosa ne avrebbe fatto del resto della sua vita, la fitta dapprima puntorea si irradiò verso le costole strizzandogli i polmoni in una morsa dolorosissima. Pareva che un elefante gli si fosse seduto addosso e non accennasse a volersene andare. Ora aveva la netta sensazione di avere un vuoto che si espandeva nel torace e trovasse un impedimento nelle sue coste che si contraevano nella istintiva reazione di racchiudere in sé quello che invece voleva uscire. Dovette fermarsi in una piazzola a ridosso di un campo. Era nel punto più alto della collina dove l’inverno aveva già spogliato le viti e l’erba aveva trovato riparo sotto la neve appena caduta. I pensieri più foschi gli attanagliavano il cervello e il respiro ansioso gli fuoriusciva pieno di umori dalle labbra livide appannando il parabrezza. Spense il motore e tirò giù il finestrino. Il silenzio della campagna entrò nell’abitacolo con prepotenza e con un frastuono a dir poco assordante. E, mentre un passero della pioggia procedeva a balzelli contro il cielo rimasto azzurro dall’ultima nevicata, pensò alla morte, alla solitudine che aveva accompagnato la sua esistenza senza un vero perché.
«E così ho deciso che non ci sarebbe stata una terza volta…» sospirò lui al giovane medico che gli sedeva innanzi con un camice così candido che gli ricordava quella neve e quella solitudine. «Ma che fine ha fatto il suo collega che c’era prima, quello con i capelli bianchi, il vecchio insomma… come si chiamava?»
«Il dr. Niemeyer?» fece il dottorino con aria di sufficienza.
«Sì, ecco, proprio lui…» confermò assentendo con esagerazione, pentendosi profondamente di essersi cacciato in una simile situazione.
«È andato in pensione… ora ci sono io, ma non si preoccupi. Lei è in buone mani.»
Il medico, dopo averlo ascoltato con attenzione, lo visitò a lungo, in modo scrupoloso. Sicché lui non si stupì di vedersi segnare al termine della visita una sequela lunghissima di esami da eseguire nel più breve tempo possibile.
‘È un dottorino giovane, cosa vuoi che ne capisca’ si ripeteva lui stropicciando tra le mani la prescrizione nel lasciare lo studio. Stava per accartocciarla, come fosse stata una multa per divieto di sosta, quando si accorse che tutti i pazienti nella sala d’attesa lo stavano osservando incuriositi dalla espressione del viso che doveva aver assunto. Ripose così tutto in tasca, comprese le mani serrate a pugno, uscendo frastornato dai suoi stessi pensieri.
Poi nei giorni seguenti il malessere si ripresentò con l’evidenza dell’ostinazione. E lui non trovò altro conforto se non rimanersene per alcune ore disteso sul sofà in attesa che passasse. Le ombre sul soffitto sembravano muoversi tra un battito di ciglia e l’altro. Parevano prendersi gioco di lui, soprattutto quando le guardava intensamente notando che subito si immobilizzavano per poi riprendere vita non appena le sbirciava con la coda dell’occhio. Ma il maggior tempo lo trascorse a palpebre socchiuse, ad ascoltare il suo dolore senza nome e senza significato; a stupirsi di come fossero pesanti finanche le lacrime che cercavano a stento una via d’uscita per gettarsi nel fiume della sua disperazione. Si era infatti infranto il mito della sua autosufficienza, dell’eterno benessere, di quel bastare a sé stessi sempre e comunque. Il male era entrato in lui per una porta secondaria, come un ladro di vento e di sogni buttando non visto, nelle gonfie zolle dei suoi anni, i semi della paura e dell’insicurezza.
Trascorse una settimana, e lui tornò contro voglia dal dottorino con sotto braccio gli esiti degli esami che si era poi arreso a fare. Il medico li studiò con cura emettendo ogni tanto mugolii sommessi accompagnati da inarcamenti sopraccigliari che lui non seppe decifrare. In tanto il dolore era sempre lì, in agguato, sordo ad ogni minaccia e pronto a divampare non appena fosse stata allentata la guardia. Avrebbe voluto dirglielo al mediconzolo dall’aria saccente che il disturbo lo stava devastando proprio nel momento in cui quegli stupidi referti venivano letti. Lo spasimo si faceva beffe di lui che doveva portarlo in corpo. Come se gli dicesse ‘è inutile che vai dal medico, tanto non mi fai niente’. Ma si irrideva beffardo anche della laurea dello sbarbatello, dei raffinati esami da laboratorio che sicuramente aveva saputo ingannare come tutti i malesseri sottili e insidiosi dell’esistere. Ma lui non volle dir nulla. Il dottorino gli avrebbe fatto sicuramente tante altre domande, facendogli perdere ulteriore tempo, inutilmente. E lui voleva tornarsene in fretta a casa, alle sue faccende grigie, alla sua normalità di persona comune per nascondersi tra le persone comuni. Forse il dolore lo avrebbe vinto così, con la noia e l’incoscienza. ‘Leggi, leggi se ti fa piacere’ pensò lui deglutendo un grumo amaro di saliva, ‘ma io non sono più qui, sono stato risucchiato dal gorgo del mio vuoto, dal mio bianco che tutto cancella e inghiotte, e così sia’.
Poi il medico, con cipiglio serio, posò con ostentata compostezza i referti da un lato e, preso il ricettario, cominciò a scrivere.
«Altre analisi?» chiese lui sgarbato senza ottenere risposta. Il medico vergò il foglio con estrema calma lasciando con la stilografica segni leggeri e veniali di fuggevole sapienza. Quindi girò lo scritto verso di lui, abbozzando un velato sorriso. Lui lesse.
‘Tre poesie di Rilke, di Neruda e Kavafis al dì, a stomaco vuoto. Una cinquantina di pagine alla sera prima di dormire di un libro di narrativa contemporanea o
«Ma cos’è? Uno scherzo?» chiese lui astioso non riuscendo a chiudere la bocca dalla sorpresa.
«No, affatto. È la mia ricetta contro il mal di vivere. A lei fa male l’anima. Provi per un mese. Poi mi dirà.»
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