Del perché amo star solo

Già, perché amo stare da solo?

In verità ho sempre avuto questa necessità, sin da piccolo. Ogni tanto sparivo alla vista dei miei genitori per rifugiarmi nella mia stanza a leggere o scrivere o ad ascoltare musica o anche solo a non far nulla. Ma questa necessità mi è rimasta trasversalmente anche dopo, per tutta la vita, come un momento ineludibile di distacco e di interruzione dal fluire delle cose.

Sì, mi rendo conto che non è facile spiegarne il meccanismo. Se non si prova o non si è provata questa esigenza, in modo intimo e personale, almeno qualche volta nella vita; e può apparire stramba, meramente caratteriale ed è comunque difficile da comprendere appieno.

Non bisogna innanzitutto confonderla con una sorta di asocialità e di misantropia di fondo (anche se da queste condizioni può trarre alimento) perché si tratterebbe solo di una mera semplificazione superficiale che ne sfumerebbe il concreto significato; si tratta piuttosto di qualcosa di molto diverso, di un’autonomia (o autarchia) esistenziale, dello stare in definitiva bene con se stessi a prescindere dagli altri; un’autosufficienza emotiva.

Riflettendoci meglio su questo stato mentale che ha connotazioni non solo fisiche, ma anche squisitamente spirituali, credo che possa tradursi nel bisogno di raccordarmi con i miei pensieri, con le mie modalità di vita e le mie abitudini, un modo per riallinearmi, di resettarmi a ‘protocolli’ che solo a me appartengono.

Stando solo ritrovo, in altre parole, la mia dimensione, il mio spazio esistenziale, il mio baricentro, un silenzio pieno zeppo di pensieri, ricordi, considerazioni, idee, programmi, speranze. Riapro il dialogo con me stesso, riappropriandomi delle modalità espressive che più sono mie; e mi sento appagato.

È strana questa sensazione di pienezza, di serenità, finanche di dolcezza; un lasciarsi andare nel sé, di ritrovarsi e ogni volta di riscoprirsi, come se recuperassi la vicinanza e il conforto di un vecchio amico e con lui potessi nuovamente confidarmi e affidarmi. È quindi come se facessi compagnia a me stesso, mi intrattenessi in modo piacevole, senza tensioni, retropensieri, conflitti, ostacoli da sormontare, una persona con cui semplicemente dialogare senza parole.

Certo, la solitudine deve essere una scelta e non una relegazione imposta dalla vita, perché in questo caso inevitabilmente potrebbe anche essere una condanna e a me personalmente mancherebbero, fino a starne male, gli affetti che più mi sono cari e che sono la ragione stessa della mia esistenza. La ricerca della solitudine come condizione ottimale non è eremitismo, rifiuto delle persone, una chiusura in se stessi a priori. Tutt’altro.

Ma certo è che quando sono in compagnia fisica di altre persone è come se vivessi la realtà attraverso di loro, di riflesso e non in presa diretta; sono meno io, vivo meno sulla mia pelle, sulle mie emozioni, in una sorta di condizionamento sociale in cui non sono mai del tutto libero.
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