In poche parole si tratta di fare in modo che sia il testo medesimo, una volta impostata (sulla carta) anche solo in parte la trama, a suggerirne il suo sviluppo.
Questa metodica sfrutta la mia personalissima tendenza (non so se succeda ad altri) all’immedesimazione nella storia mentre la sto scrivendo. Calandomi cioè nella ‘realtà’ della finzione (l’ossimoro qui è voluto) quasi a viverla in concreto, per come da me tracciata, lascio che sia la suggestione per quanto già riportato nero su bianco a guidarmi per la parte ancora da creare. Da qui l’effetto di cui parlavo prima.
Superata questa premessa, accade allora che, immedesimandomi in quello che scrivo, come accennavo prima, è la trama stessa, vissuta da me dall’interno della storia, a suggerirmi la soluzione dell’intreccio mentre lo sto scrivendo, come se cioè fosse la storia stessa o il personaggio principale o la situazione già espressa nella prima parte del testo scritto a dettarmela. Lo so tutto questo è molto strano, ma funziona.
In questo modo è come se venisse (spontaneamente) data la risposta proprio alla domanda del ‘magico se‘ di Stanislavskij e si desse quindi compiuta contezza all’interrogativo: ‘se io mi trovassi nelle sue condizioni, come mi comporterei?‘
In particolare lo spunto viene dal dialogo tra Ulrik Brendel, Johannes Rosmer e Rebekka West quando il primo dirà agli altri che si sentiva come quell’avaro che, dopo aver passato un quarto di secolo a vegliare giorno e notte il proprio forziere, deciso ad aprirlo, aveva poi scoperto che l’oro in esso custodito era divenuto polvere.
L’episodio del paziente che occupa un letto di ospedale di un altro reparto è invece accaduto proprio a me diverso tempo fa.
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