Yampa, Colorado

«Sono stata su in stanza, ma mio marito non c’è…» esordì la donna contrariata.
Dietro al bancone della reception una signorina che non aveva mai visto, strizzò gli occhi da miope per mettere a fuoco chi aveva davanti. L’espressione del viso la fece sembrare un po’ ottusa.
«Lei è?…»  chiese poi la ragazza con tono metallico digitando sulla tastiera e non guardandola in faccia.
Magda si spazientì e non le rispose. Prese le scale e ritornò nella stanza di Arturo sperando di incontrare un inserviente che conosceva. Il marito non si muoveva mai di lì ed era preoccupata.
Per fortuna, nel corridoio incontrò Juarez con un pappagallo in mano. Seppe da lui che il marito quella notte era caduto nel bagno sbattendo la testa sul lavandino. Non si era fatto nulla di grave, ma lo avevano ricoverato ugualmente in infermeria per accertamenti. Era confuso, però, aveva chiarito l’inserviente arricciando le labbra come se avesse avuto in bocca una caramella di limone.
Nei giorni successivi Arturo aveva preso a intristirsi, mangiava poco o niente e se ne stava quasi sempre a letto. Lo sguardo rivolto al soffitto era diventato pressoché fisso e vuoto. Il medico che lo seguiva lo aveva visitato. La ferita alla fronte era guarita, ma il principio di depressione no. L’uomo alternava stati di mutismo con un borbottio sommesso. Anche lo psicologo della struttura aveva disposto delle analisi suppletive.
Poi, un giorno che la moglie era entrata per la consueta visita, l’uomo si tirò subito sul letto mettendosi seduto.
«Ha saputo?» chiese lui apparentemente lucido prima ancora che Magda potesse chiedergli come stava.
La donna lo squadrò con aria interrogativa.
«Mia moglie è morta.»
«Cosa?» fece lei.
«Sì, non si sa ancora come sia stato. È stata una cosa improvvisa… è successo qualche  notte fa… e dire che stava bene. Per carità aveva pure lei degli acciacchi per l’età, ma nulla di serio… Eh… siamo davvero tutti appesi a un filo di seta. Basta uno schiocco di dita e…» E per sottolineare il concetto appena espresso, Arturo provò effettivamente a schioccare le dita ma non uscì alcun suono. «Pensi, eravamo sposati da quasi cinquant’anni…» seguitò. «Mi han detto che al funerale c’era tanta gente. Eh sì, le volevano tutti bene, alla mia povera Magda. Io non sono potuto andare, sa. Non me l’hanno permesso.»
«Ma cosa dici, Arturo… sono io… Magda… tua moglie… sono qui davanti a te!»
«Ah… la conosceva anche lei? Era una sua amica?»
«Non sono un’amica, Tesoro, sono proprio io, tua moglie… non mi spaventare!»
L’uomo le sorrise dolcemente assentendo lentamente con il capo come se avesse capito. Ora sembrava sereno. I capelli bianchi gli erano diventati di stoppa e svolazzavano al solo suono della voce. Gli occhi azzurri parevano due laghi di ghiaccio.
«Sa, io e mia moglie ci siamo voluti bene…» E, senza aggiungere altro, l’uomo si coricò nuovamente nel letto a osservare il soffitto quasi fosse lo schermo di un televisore; e per quel giorno non disse più nulla.
L’uomo, per l’età avanzata e un inizio di demenza senile, era entrato in una sorta di straniamento emotivo. Il colpo alla testa aveva accelerato il processo. Così avevano sentenziato i medici. E probabilmente quello stato non era più reversibile. Tant’è che la situazione non mutò neppure nelle settimane successive.
Poi un pomeriggio, Arturo, come se si fosse svegliato da un antico torpore, si mise su una sedia a parlare con Magda non appena la vide far ingresso nella stanza.
«Dal momento che lei era una cara amica di mia moglie, glielo posso anche dire…» fece lui serio. «Io e mia moglie ci siamo voluti bene…»
Magda aveva voglia di piangere.
«Ci siamo voluti bene, ma io avevo anche un’altra donna: Giulia» seguitò l’uomo guardando le sue pantofole. «Giulia è stata la mia fedele compagna per trentacinque anni. Ho avuto anche un figlio da lei: Riccardino. Che ora ha quasi trent’anni e, pensi, vive a Yampa, in Colorado. Ora che Magda non c’è più, posso stabilirmi finalmente da loro. Con Giulia, mio figlio e mia nuora. Non potevo farlo prima, sa, perché mia moglie era oltretutto molto ricca: questa lussuosa RSA» e con l’indice ossuto disegnò un semicerchio nell’aria «se la poteva permettere solo lei. Giulia e Riccardino, invece, non lo sono mai stati, ricchi voglio dire, e hanno bisogno di me. E adesso con questa cospicua eredità potrò aiutarli. Pensi… ho persino un nipotino…»

La signora Adalgisa

«La villa è davvero bella!» esclamò Alvaro facendo scivolare lo sguardo dalla piscina al prato perfettamente rasato. «È anche in ottimo stato e il prezzo contenuto…»
«E consideri che è libero da subito» aggiunse il mediatore soddisfatto di aver potuto far vedere l’immobile in una così bella giornata. «È quel che si dice un affare.»
Poi i due si avvicinarono al SUV con cui erano venuti. Il mediatore stava per accomodarsi al posto di guida quando disse distrattamente: «Ah, dimenticavo… ovviamente c’è la signora Adalgisa».
«La signora Adalgisa?»
«Sì, è una persona molta anziana. Se ne sta tutto il giorno dietro le finestre della cucina dell’edificio di fronte…» Nel pronunciare quelle parole il mediatore la indicò con un cenno impercettibile del viso. Alvaro si girò. Scorse, da dietro i vetri di una finestra, il volto minuto e sgualcito di una donna, una nuvola di capelli viola appoggiata delicatamente alla testa. Alzò la mano per salutarla visto che lei li stava fissando. La donna accennò a un breve sorriso senza scomporsi. «Non le darà fastidio, vedrà» chiarì il mediatore rassicurante. «Dopo un po’ non se ne accorgerà neppure più che lei è lì.»
«Non potrebbe guardare la televisione come fanno tutti?» obiettò Alvaro sedendosi anche lui in macchina.
«Non ce l’ha e non le interessa: sostiene che l’annoia. Trova più interessanti le persone. Purtroppo dorme pochissimo e non c’è modo di schiodarla da quel posto. Non sente ragione.»

Alvaro comprò la villa e con la sua famiglia vi si stabilì con soddisfazione.
Per qualche mese, ogni volta che si trovava nel portico o a bordo piscina, si sentiva sempre sulla nuca lo sguardo inclemente di Adalgisa e quando alzava gli occhi nella sua direzione la vedeva immancabilmente dietro alla finestra. Non faceva neppure il tentativo di distogliere lo sguardo. Osservava e basta. Lo trovava inquietante.
I figli e la moglie si abituarono a quella presenza molto prima di lui. La ‘nonnina portafortuna’, la chiamavano, e ben presto se ne dimenticò anche lui, come aveva detto il mediatore, entrando di diritto a far parte del paesaggio, come il cedro centenario e l’altalena.

Un giorno, di ritorno dalle vacanze, trovarono la villa svaligiata. Avevano portato via quadri, tappeti e finanche la cassaforte.
«È una banda specializzata in furti nelle ville» gli rivelò l’Ispettore venuto per il sopralluogo come se quella notizia dovesse tranquillizzarlo. «Sono organizzati e professionali» precisò con una punta di ammirazione.
Alvaro era sotto shock: non riusciva a capacitarsi che la sua casa fosse stata saccheggiata. «Forse ci potrebbe essere utile Adalgisa…» disse a un certo punto come se a parlare fosse stato però qualcun altro.
«Chi è, la sua governante?»
«No. La signora Adalgisa è quella lì» e la indicò all’Ispettore con lo stesso breve cenno del viso che aveva visto fare al mediatore. La donna era al suo posto, impassibile, marmorea. «Sta sempre là dietro, come un gufo, giorno e notte e potrebbe quindi aver visto qualcosa…»

Dopo neanche mezz’ora l’Ispettore era di ritorno. Aveva la faccia scura.
«E allora?» chiese Alvaro pieno di aspettative.
«Abbiano trovato Adalgisa; era morta. Il medico legale dice che è deceduta da qualche giorno…» Senza aggiunger altro, come se quello fosse stato un saluto di commiato, se ne andò con i suoi uomini.

Trascorse una settimana e l’Ispettore telefonò ad Alvaro.
«Se vuole venire in questura, abbiamo preso la banda delle ville e ritrovata gran parte della refurtiva. Probabilmente qui ci sono anche cose sue.»
«È fantastico!» esclamò lui con fin troppo entusiasmo.
«Tutto merito della sua Adalgisa, sa?» spiegò l’Ispettore. «Siamo ritornati nella sua casa e abbiamo trovato l’incredibile. La signora non si limitava a guardare. Annotava minuziosamente ogni cosa su dei quaderni. Ne abbiamo trovati 452. Erano ordinati per anno, mese e persino per settimana. Tra le tante cose che ha scritto ha riportato il numero di targa di un furgone che per due notti ha sostato nei pressi della sua villa. Adalgisa aveva annotato che, secondo lei, era gente sospetta e non le piaceva per niente. Aveva proprio ragione: erano i ladri venuti a fare il sopralluogo, secondo la loro tecnica collaudata. Siamo riusciti così a risalire a una società e di lì a un’altra società e, incrociando intercettazioni e pedinamenti, indagini e controlli, siamo arrivati alla identificazione dei malviventi. Non ce l’avremmo fatta, però, senza i quaderni di Adalgisa.
«Non ci posso credere…» riuscì solo a dire.
L’Ispettore stava per riattaccare quando aggiunse:
«Ah, senta… lei conosce per caso un certo Marco Bertossi?»
«No, direi proprio di no.»
«Ha un Mercedes 560 sec blu…»
«No no, mi spiace.»
«Lei mercoledì sera va di solito da qualche parte?»
«Sì ad Alvona, per lavoro: ho una ditta anche lì. Parto il pomeriggio e torno il giorno seguente: da qualche anno; perché?»
«Niente, niente… dicevo così per dire. Allora la aspetto.»
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Ciliegie nere

«Glielo assicuro, dottore, mi hanno incastrato.»
«L’hanno incastrata…» ripeté meccanicamente il PM Sbarbaro guardando un punto imprecisato tra l’uomo seduto davanti a lui e la parete di fronte. L’avvocato, un uomo corpulento spremuto sottovuoto nel suo spigato che aveva bisogno di una urgente stirata, stava pensando a cosa dire di intelligente, ma non gli veniva in mente nulla. Un agente penitenziario si avvicinò senza far rumore e allungò un foglio dattiloscritto al PM. Lui lo lesse con calma, spostando sulla punta del naso i suoi improbabili occhiali dalla montatura rosa. Riemerse quindi dalla lettura e disse al detenuto:
«Prosegua, prosegua pure…»
«Vede, dottore, stando qui in cella, nelle ultime ore, ho potuto riflettere molto su quanto è successo e ho capito come ha fatto.»
«Come ha fatto, chi?» domandò il PM posando il foglio.
«Il maresciallo Roversi. Non può che essere lui l’amante di mia moglie ed è lui che ha architettato tutto questo. Marina, mia moglie, l’ha evidentemente lasciato, forse per un altro ancora, e lui, per vendetta, l’ha uccisa; e, per farla franca, ha pensato bene di coinvolgere me.»
«Sa per certo che Roversi era l’amante di sua moglie?» chiese il magistrato osservando la punta della stilografica come se avesse trovato un difetto.
«In verità no, ho ricollegato il tutto, dopo. Ma non può essere che lui. Adesso le spiego: mia moglie Marina, dopo cinque anni di matrimonio, all’improvviso, mi ha messo alla porta. Mi dice che non mi ama più, che pensava fossi diverso, si era sbagliata, e che tutto era finito. Sa, le solite cose che dicono le mogli per sbarazzarsi dei loro mariti divenuti ingombranti. E dopo cinque anni! E per giunta con un figlio di mezzo!»
«E cosa gli ha fatto pensare al maresciallo?»
«Quando ancora mi faceva vedere mio figlio ho notato in casa un calendario dei Carabinieri, che lei non ha modo di frequentare altrimenti, e, una volta, anche dei guanti sulla console del corridoio, sa quelli di ordinanza, con tanto di cifre, AR… e ogni tanto Marina, con noncuranza, mi chiedeva di lui; insomma a quel tempo non ci badai più di tanto. Poi, un giorno, Roversi, che conoscevo bene perché frequentava il mio ufficio in comune (ancora non sospettavo di lui), mi invitò alla sagra delle ciliegie di Collefili, dove mi fece consegnare una cassetta di ‘duroni’, sa, quelle ciliegie grosse e nere…»
«Le conosco bene, vada avanti…»
«Sì, certo, e con l’occasione facemmo due passi su per la collina. Mi disse che voleva andare via da Collefili e se potevo parlare con quel mio parente al Ministero. Siamo quindi arrivati, camminando, a un laghetto. Ha gettato nell’acqua un ramo e mi ha fatto sparare con la sua pistola: una cosa così, per divertirsi un po’. Alla sagra, peraltro, mi hanno visto decine di persone…»
«E poi?»
«E poi mio cugino è riuscito a farlo trasferire ad Alvona. Nel frattempo i miei rapporti con Marina sono peggiorati. Ho cercato di capire cosa le stesse succedendo. Diceva che era depressa per una dieta sbagliata che le aveva rovinato il metabolismo. Insomma era diventata isterica. Le consigliavo sempre di andare da uno specialista, ma lei si fidava solo delle sue amiche e non mi stava mai a sentire. Divenne intrattabile e smise di farmi vedere persino mio figlio. Ma io avevo già capito il perché: aveva un amante e voleva rifarsi una vita. Poi è arrivato il giorno del fatto.»
«È sicuro che vuole proseguire?» mormorò l’avvocato avvicinando il suo testone a quello del cliente.
«Certo che ne è sicuro!» fece il PM spazientito per quella interruzione.
«Rientrando a casa, quella dei miei genitori, che nel frattempo mi avevano ospitato, ho trovato un pacchettino a me indirizzato nella cassetta delle lettere» continuò il marito senza neppure voltarsi verso il legale. «L’ho aperto e dentro c’era della polvere scura e un biglietto con la grafia di mia moglie. Diceva testualmente: ‘Volevi tuo figlio? Eccotelo. L’ho bruciato e queste sono le sue ceneri’. Sono corso da mia moglie, impazzito dal dolore. Ultimamente mia moglie era così fuori di sé, come le ho detto, che avrebbe potuto persino fare una cosa tanto orribile. Dal momento che nessuno rispondeva al citofono, sono salito su al piano. La porta era aperta e… e…»
«E?» fece il PM che aveva assunto l’espressione come di chi ascolta una voce in lontananza.
«E ho visto mia moglie, sul pavimento della sala, in un lago di sangue. La testa, quasi non c’era più. Si era suicidata. Neppure mio figlio c’era. E ho chiamato voi. Oh, la mia povera Marina!»
«Solo che noi abbiamo trovato le sue impronte sull’arma del delitto e facendo lo stub, per la rilevazione dei residui da sparo sulle sue mani, abbiamo rinvenuto le relative tracce… E facendo due più due…» concluse il PM alzando un poco il naso come se avesse voluto vedere dentro a uno scatolone.
«È per questo che le dico che sono stato incastrato, dottore. Lo so, non mi crederà mai. Ma l’arma trovata accanto al corpo di mia moglie non può che essere quella che mi diede Roversi quel giorno in cui sparai al laghetto, a Collefili, lui l’ha fatto apposta; lo stub è risultato poi positivo perché la polvere che mi sono fatto cadere addosso, aprendo il pacchettino a casa mia, non era la cenere di mio figlio, ma polvere da sparo; capisce? Roversi si è fatto pure trasferire da me in modo da procurarsi per tempo un alibi: insomma, un piano congegnato nei minimi particolari, ma sono innocente» e l’uomo nascose il viso tra le mani come volesse piangere. L’avvocato gli mise un braccio sulla spalla per solidarietà. Era poco professionale, ma era un gesto che si sentiva di fare.
«Ha ragione, un piano ben congegnato. Per fortuna ci ha aiutato Caterina» fece il PM dopo aver fatto decantare per la tensione.
«Chi?» fece il marito alzando il viso e cambiando espressione.
«Caterina.»
«Non capisco.»
«Abbiamo sentito le amiche di sua moglie. Sa, le donne parlano poco con noi uomini, probabilmente perché non le ascoltiamo abbastanza. Ma si confidano molto tra di loro. È vero: è risultato che la vittima era molto angosciata per la propria salute. Non era però per motivi di dieta, come dice lei. Aveva un brutto male, sua moglie, al seno…»
«E perché non me l’ha mai detto?»
«Perché lei la picchiava e la maltrattava, la sua ‘povera’ Marina. Per i motivi più insignificanti, in verità, ma soprattutto per gelosia. Lei si era convinto che avesse un amante, il maresciallo Roversi, appunto, ma non era vero; erano solo conoscenti, perché lui è il fratello della sua più cara amica, come probabilmente le aveva detto: probabilmente non erano neppure amici; insomma la convivenza fra di voi era divenuta, come dire?, insopportabile e sua moglie, piuttosto che denunciarla, ha fatto una scelta coraggiosa, nonostante il figlio piccolo. E qui entra in gioco Caterina.»
«Già, Caterina…» fece l’avvocato che interrogava con un’espressione dubitativa il proprio cliente.
«Caterina era la donna di servizio di sua moglie» proseguì il PM che aveva letto sul viso del suo interlocutore uno stupore genuino. «Se si fosse occupato di più delle sue cose, forse ora lo ricorderebbe. La vittima si era lamentata anche con lei dei continui furti in casa e lei le aveva consigliato…»
«Ah sì, è vero, ora mi viene in mente, avevo consigliata di licenziarla… o di parlarne con le sue amatissime amiche, che sanno sempre tutto, loro…» interruppe con sarcasmo.
«Esatto, e sua moglie, perdurando i furti, così ha fatto: ne ha parlato con le sue amiche. Non è vero dunque che sua moglie non le desse mai retta.»
L’uomo si incupì.
«La vittima, in altre parole, non se l’era sentita di licenziare Caterina, dopo tanti anni che era a servizio, e comunque senza avere le prove dei furti. E allora l’abbiamo cercata per ogni dove, facendo fatica a trovarla: era nascosta davvero bene.»
«Nascosta, chi? Caterina?»
«Ma no, che dice? La webcam! Era sistemata propria in sala, dove abbiamo trovato il corpo di sua moglie. Era stata piazzata tra due statuine di ceramica sul trave del caminetto proprio per controllare la sua colf. Ha ripreso tutto: da quando lei è entrato all’improvviso in casa con la pistola in mano e sua moglie le ha chiesto: ‘e tu che ci fai qui?’. Devo continuare?»

Vent’anni prima

Gent.le Sig. Amelio Codeluppi,
sono il direttore editoriale della casa editrice Setteponti.
Circa vent’anni fa Lei mi inviò un Suo racconto (Penso a tutto io) per un’eventuale pubblicazione, ma io glielo rifiutai perché non l’avevo ritenuto in linea con le politiche della casa editrice.
In realtà, desidero chiarirLe ora, anche se con estremo ritardo, che il Suo racconto mi piacque tantissimo, e che glielo respinsi solo per averlo trovato, così come a tutt’oggi ancora lo giudico, terribile, inquietante e sconvolgente. Perché La contatto, 
allora, con questa mia mail? Perché non c’è giorno, da quella lettura, che io non continui a pensare a quello che Lei ha scritto. Quel che è peggio è che sogno quei fatti continuamente, formulandomi mille domande che non fanno che tormentarmi. Pensavo che con il tempo la situazione si risolvesse, ma non è così. Dormo pochissimo e male e non ho più pace. 
Ho anche consultato uno specialista perché mi desse una mano a uscire da questa sorta di corto circuito, ma dopo mesi e mesi di terapia mi ha fatto capire che il Suo racconto doveva aver toccato corde profonde nel mio subconscio, come se la Sua storia me ne avesse a sua volta risvegliata un’altra, parimenti angosciosa e inaccettabile, da me vissuta e poi rimossa. Ho creduto pertanto necessario contattarLa per saperne di più. Cosa fece Marì quando ebbe a scoprire l’orribile segreto di suo marito Orlando? Hanno poi scoperto chi ha ucciso Ménico? Orlando si è riavuto dalla sua condizione di apatia dopo aver scoperto il tradimento della moglie e la morte del rivale? Le assicuro che ho anche tante altre domande che non avranno però risposta senza il Suo intervento. La devo, in altre parole, incontrare, se vorrà come spero, per approfondire la questione; ho necessità in particolare di sapere se la storia è parto esclusivo della Sua fantasia o se Lei ha preso spunto da qualche fatto di cronaca nera o qualcuno gliel’ha raccontata. Le prometto sin d’ora che provvederò io stesso a pubblicare il Suo racconto e tutti quelli che Lei vorrà d’ora in poi sottopormi. La prego, però, mi aiuti.
Cordiali saluti
Cateno M. Aguilleri

Gentile Sig. Aguilleri,
sono Lucia, moglie di Amelio. 
La ringrazio molto per la Sua mail e quando avrò modo di vedere mio marito glielo riferirò: sono sicura che lo renderà felice. Da quello che capisco Lei ha letto un racconto che non sapevo neppure mio marito avesse scritto. Le assicuro che è autobiografico, perché tutto ciò che è stato narrato è realmente accaduto. Sono io la Marì della storia così come l’Orlando che si occupa del funerale di Ménico è mio marito. Per una sorta di scherzo del destino però, la Polizia ha ritenuto che fosse stato proprio mio marito a uccidere Ménico, il mio sciagurato amante. Hanno raccolto con diligenza e caparbietà molti indizi, ma nessuna prova. Gli sono stati tuttavia sufficienti per prendersi ventidue anni di carcere e fra qualche mese finalmente uscirà. Ma io Le posso garantire che non è stato lui ad assassinare quel pover’uomo, lo so per certa e non solo perché Amelio non ne sarebbe stato capace, quanto piuttosto perché credo di sapere chi è stato. Ho riferito dei miei sospetti alla Polizia: non mi hanno creduto ritenendo che incolpare Amelio fosse più facile e più credibile. La nostra vita, comunque, e quella di Amelio, soprattutto, è rovinata per sempre ed è tutta colpa mia. Se vuole possiamo incontrarci e parlarne: Le racconterò ogni cosa.
Ma non credo ritroverà il Suo sonno, né tantomeno la Sua pace.
Lucia Codeluppi

* * * * *

La storia minima ‘Vent’anni prima è stata pubblicata, in via esclusiva, per la prima volta il 17 marzo 2013 su:

–> Il blog Caffè letterario

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Capodanno

La loro relazione era iniziata con la forza degli eventi incontenibili. Sembrava che tutto fosse possibile e che persino vivere fosse diventato semplice. Si stupivano, ogni volta che si incontravano, di quanto fossero appaganti quelle ore passate l’uno nelle braccia dell’altra, quel pensarsi in modo così dolce, quel perdersi in una sorta di stordimento tra baci e carezze. Poi, in quel meccanismo perfetto, s’intrufolò l’inesplicabile. Una parola non detta, una frase mal compresa, un equivoco non risolto. L’equilibrio sembrava essersi spezzato senza che nessuno dei due, nell’orgoglio che la stupidità spesso regala agli amanti, volesse ammetterlo per porci rimedio. Le mail rallentarono, gli sms divennero rarefatti, il tono si fece formale e distaccato. Fisicamente lontani, ciascuno nell’orbita della propria famiglia, nel fortino di mariti, mogli e figli, si erano rifugiati offesi, chissà perché, in attesa che qualcosa accadesse; si illudevano che tra loro quell’amore così giovane ma già potente reagisse, certi che quell’attrazione tanto naturale e travolgente, non potesse facilmente appassire.
Nell’ultimo sms, lui, pochi minuti dopo la mezzanotte dell’ultimo dell’anno, in un attimo rubato alla festa in famiglia, le scrisse:

Tanti auguri, Amore, e, mi raccomando vacci piano con lo champagne…’,

Non si meravigliò tuttavia che lei non rispondesse. Lo sapeva. Entrambi erano in attesa di altro anche se nessuno dei due avrebbe saputo dire cosa. Così trascorsero i giorni e lui non la cercò più, lei neppure. I giorni divennero settimane e le settimane mesi, anche se vivevano nella convinzione che sarebbero stati pur sempre in tempo per tornare indietro, per riabbracciarsi, per chiedersi scusa amandosi e scherzarci sopra come altre volte avevano fatto. E fu un errore perché lentamente, senza neppure accorgersene, oltrepassarono i punti di non ritorno: quando ne divennero consapevoli era troppo tardi.
Dimenticarono ben presto ciò che era stata l’arroganza del lasciarsi, l’ottusità del non volersi capire, per ricordarsi solo di tutti quei momenti dolcissimi passati insieme rimproverandosi nel contempo di quanti attimi meravigliosi avevano dovuto fare a meno. Il solco era diventato una voragine e nessun salto, neppure quello di un gigante, avrebbe permesso loro di superarlo.
Giunse l’inverno e con lui, di nuovo, la notte di San Silvestro. Scoccò la mezzanotte. Lei vide tutto il suo mondo attraverso la coppa di champagne che aveva appena alzato al cielo e capì che non poteva stare senza di lui. Prese il cellulare e gli scrisse:

Sì, grazie Tesoro, starò attenta, sai che strano effetto mi fa… auguri anche a te.
Lo champagne lo berremo insieme
’.

Lui le rispose subito. Si diedero un nuovo appuntamento e tutto tornò come prima. E di quell’anno passato lontani non ne parlarono mai, tanto che molto tempo dopo dubitarono persino che fosse successo davvero.