Alle radici della storia

Non so dire se capiti anche ad altre persone che, come me, scrivono; non ne ho francamente mai sentito parlare e non ho quindi altri esempi con cui confrontarmi; è ragione allora, tutto sommato di parlarne qui.

Dunque, succede che quando ambiento una storia, soprattutto quando non è di fantasia, e la localizzo, come faccio di solito, in un luogo che ben conosco, la radico in modo così marcato in quel dato luogo che, a distanza di tempo, ritrovandomi in quello stesso posto, rivivo anche la storia.

Potrei tracciare le storie su una mappa della mia città, come fossero monumenti o punti di interesse per turisti: qui è accaduto questo, qua quest’altro.

Questo sarebbe forse, dopo tutto, non troppo strano se non fosse che, con il passare del tempo, viene a poco a poco dalla mente abbattuto il sottile diaframma che all’origine esisteva tra invenzione e realtà fino a cessare di essere una ideazione per diventare un qualcosa di intermedio che potrebbe non essere né finzione, né realtà o essere entrambe. La storia diventa quindi (quasi) vera perché il ricordo è a sua volta vero e altrettanto lo è la trama esperienza vissuta.

La linea di demarcazione viene in altre parole abbattuto ed è affidato solo alla labile memoria ricordarsi cosa è accaduto oppure no.

Questo credo che accada perché, scrivendo, nel momento stesso in cui lo faccio, entro ‘dentro’ la storia, mi immedesimo a tal punto da farla diventare una parte di me.

Così mi capita che, girando per la città, io ritrovi i miei racconti, come vecchi amici, magari a un certo angolo della strada o in un bar o davanti a un determinato palazzo o nel suo cortile: è sufficiente che vi abbia costruito attorno un racconto.

Ma, a ben vedere, ritrovo soprattutto le sensazioni (anche se in tono più affievolito) che ho ‘sentito’ nello scrivere la storia: solitudine, gioia, tristezza, speranza, disorientamento, angoscia. Sono ricordi di ricordi, una città parallela di sensazioni che solo io posso sperimentare e che è invisibile a tutti.

Quando ero bambino mi succedeva qualcosa di simile quando andavo al cinema. Guardavo i film con tanta intensità da ‘caderci dentro’, da esserne conquistato, quasi soggiogato; rivivevo a occhi aperti le trame, i personaggi, le scene salienti mentre passeggiavo con i miei genitori o giocavo a casa e persino a scuola durante le lezioni o nei sogni della notte seguente.

Era come rimanere per qualche ora o qualche giorno prigioniero del film e delle emozioni che mi aveva suscitato. Questo però non mi spaventava, anzi, mi affascinava in modo ipnotico come un baratro che ti chiama a sé.

L’impatto visivo, che per me ha sempre significato molto (mi piace tutto ciò che è immagine ancor meglio se piena di colori, dalla grafica alla fotografia, dalla pittura ai film, dal fumetto alle vignette) era forse troppo per la mia capacità di assorbimento e ci mettevo un tempo esorbitante per metabolizzare le strabordanti sensazioni di cui ero investito.

Crescendo, tutto ciò, e a poco a poco, è scomparso, ma la stessa dinamica emotiva è rimasta con la scrittura; qui il ‘mondo altro’, l’invenzione, la finzione sono riusciti a mantenere il sopravvento e a trovare la backdoor, la propria via autonoma per conquistare la dignità della dimensione reale.
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