Standing ovation

Si guardava il viso riflesso nello specchio alla luce delle lampadine che lo attorniavano. Era una luce spietata che metteva in risalto il tappeto di rughe che tagliavano in ogni direzione la sua pelle spessa a ricordargli gli eccessi e le sregolatezze da rockstar d’annata.
Interrogandosi con gli occhi si domandava soprattutto se fosse stata una buona idea quella di esporsi in una serata unplugged e da solo, per giunta, senza la sua band. Anche se ci aveva riflettuto sopra, poteva essere davvero un azzardo. D’altronde doveva recuperare la sua immagine offuscata. Dicevano che non aveva più nulla da dire sulla scena internazionale. Che oramai suonava sempre gli stessi riff, senza inventiva e senza entusiasmo.
Ma lui sapeva bene che non era così. Lui era un grande, aveva inciso brani che avevano fatto la storia della musica, aveva uno stile che aveva influenzato profondamente le nuove generazioni, aveva contribuito a evolvere il rock percorrendo strade innovative e di successo. Non potevano criticarlo così. Poteva ancora dare molto. Avrebbe fatto veder loro quale razza di solida tecnica possedeva e quale era il suo livello di creatività raffinata. Sì, si dovevano ricredersi. Certo, aveva attraversato in passato periodi davvero bui, non lo negava, e un paio di volte (forse qualcuna di più) aveva anche pensato di aver superato il punto di non ritorno e che non si sarebbe più ripreso. Ma ora il consumo di droga era sotto controllo ed era il momento della rivincita.
«Cinque minuti…» sentì dire da dietro la porta chiusa dopo un rapido bussare.
Si alzò dalla sedia. Staccò la sua fedele Martin D-200 dal supporto e impugnò la maniglia senza aprire però la porta. Tornò lentamente indietro. Aveva bisogno di qualcosa di forte per affrontare quella prova così importante. Nonostante le migliaia di ore di concerti in tutte le parti del mondo e nei più prestigiosi tempi del rock, sembrava sempre un debutto. Se ne ristette così, immobile, per qualche secondo, indeciso. Poi, rapido, tirò fuori da una busta di plastica stropicciata una pasticca e, con un colpo secco del polso, la mandò giù.
Quando titubante arrivò sul palco ci fu un’ovazione. Si alzarono tutti in piedi ad applaudirlo e a gridare il suo nome. Il teatro, il più grande che avesse trovato nella sua città, era gremito e c’erano molte persone anche in piedi. Si sentì rincuorato e felice di aver avuto il coraggio di esibirsi.
Eseguì diversi pezzi creati per l’occasione. Li aveva provati e riprovati sino allo sfinimento. Ma ne era valsa la pena, perché se ne uscivano dalle corde fluidi, accattivanti, incisivi. Il pubblico era in delirio, stregato dalla sua musica. Ogni tanto gli arrivava sul palco, lanciata dalla platea, una rosa o dei cappelli e persino indumenti femminili… come ai vecchi tempi, insomma.
Poi pensò a qualcosa di veramente rischioso. Si sentiva in forma, in stato di grazia e voleva farlo: voleva improvvisare. Suonò così un brano inventato pressoché lì per lì, un groove potente, magistrale, di classe e fu un trionfo. La gente aveva capito finalmente tutta la sua grandezza.
Al termine, gli applausi furono scroscianti. Una standing ovation senza fine che lo accompagnò, dopo il consueto bis, sin dietro le quinte.
«Allora cosa ne pensi del concerto, Mitch?»
Chiese al suo manager di sempre, appena lo intravide, nel mentre guadagnava il camerino.
«E me lo chiedi?»
Lui lo guardò, perplesso. Non capiva il tono della domanda e l’espressione del suo volto.
«Hai fatto pena, ecco cos’hai fatto» gli fece il manager arrabbiato. «Ti sarai impasticcato come al tuo solito, con tutte quelle porcherie che prendi. Te l’ho già detto mille volte: non calarti niente prima di un concerto che poi non riesci a mettere una nota vicino all’altra che abbia un senso. Non hai finito un pezzo che sia uno, hai alternato stonature a silenzi imbarazzanti e fissità nel vuoto. Non hai neppure accordato bene la chitarra. Ormai sei uno scoppiato e sarebbe bene che ti ritirassi. Hai tanto insistito per fare questa genialata, contro il mio parere, e sei riuscito solo nell’intento di scavarti definitivamente la fossa. Non ti sei neppure accorto che non hanno fatto altro che fischiarti e insultarti. Ti hanno tirato persino i bicchieri delle bibite con annessi popcorn. Ce li hai anche tra i capelli. Qualcuno addirittura ti ha lanciato una dentiera. Per fortuna c’era poca gente. Ma io ho chiuso con te.»

Il giorno in cui sognai John Lennon

Mi svegliai all’improvviso. Lei era entrata nella stanza facendo rumore.
«Ero preoccupata che fosse successo qualcosa, non dormi mai fino a quest’ora…»
Mi ricordo di averla guardata senza riconoscerla.
«Sì, d’accordo, arrivo subito…» feci dopo un po’, appoggiando un gomito sul letto per tirarmi su. Ma appena lei si fu allontanata mi lasciai andare pesantemente appoggiando di nuovo la testa sul cuscino. Il sonno accumulato negli ultimi giorni era quasi insostenibile.
Avvertii subito dopo, acuto, un senso di smarrimento. Stavo infatti sognando quando lei era entrata. Stavo sognando di parlare con John Lennon. Era lì con me, in quella stessa stanza, pochi secondi prima. Parlava di un brano, l’ultimo che avesse scritto prima dell’incontro fatale con Mark David Chapman.
«Sai, è una canzone per Yoko…» mi aveva detto mettendosi al piano verticale dove invece ora c’è la libreria. «Lei non l’ha mai ascoltata… doveva essere una sorpresa…» e mi ha guardato in un modo profondamente triste.
Attaccando a suonare me l’ha cantata: sembrava tutto maledettamente vero. Una canzone dolce, melodiosa, una dei suoi pezzi migliori. Ricordava le atmosfere di Julia o di Woman. E quando smise mi guardò soddisfatto.
«Ora sono riuscito finalmente a terminarla…» sorrise. «L’altro giorno mi sono venuti sia l’intro che alcuni accordi nuovi. Ma quanto tempo è passato?»
Io non sapevo cosa rispondere. ‘Quanto tempo è passato da quando?‘ stavo per chiedergli.

Poi a quel punto lei è entrata in stanza e mi ha svegliato. La canzone però la ricordavo benissimo. Così ho preso il telefono è ho chiamato prima Osvaldo e poi Carlo. Ho raccontato loro, che sono i miei più cari amici, quello che era successo. Il sogno e tutto il resto. Ho provato a cantarla ma sono così stonato che ciò che usciva dalla mia bocca risultava inascoltabile, da tapparsi le orecchie. Tutti e due mi hanno preso in giro, ovviamente. E non c’è stato modo di farli smettere di ridere. Begli amici!
Mi sono allora informato per incontrare un maestro di musica. Magari un orecchio allenato mi avrebbe permesso di fermare su carta quello che sentivo ancora distintamente nella mia testa. Quella musica mi riecheggiava dentro in modo chiaro, pulito ma quando provavo a riprodurla diventava un’altra cosa, un lamento insopportabile persino per me. Il maestro dapprima mi ha prestato seriamente la sua attenzione e poi si è messo anche lui a ridere, per quella storia del sogno e tutto il resto. Mi deve aver preso per matto tanto che non ha voluto neppure essere pagato; mi ha messo gentilmente alla porta e poi si è negato al telefono nei giorni successivi.

Ma non ho mollato. Quando mi trovavo solo in casa mi piazzavo davanti allo specchio a provare e riprovare. Chiudevo gli occhi per ascoltare bene quello che ancora ricordavo e ho tentato di riprodurlo, lentamente, con calma. Una, cento, mille volte. Ma non c’era davvero nulla da fare.
Possibile che quella musica stupenda dovesse andare perduta per sempre?

Poi una sera mi sono trovato in trasferta ad Alvona. Ero sceso al ristorante dell’hotel. Non avevo voglia di girare per la città in cerca di un’alternativa anche perché avevo poca fame. Quel ristorantino pretenzioso del resto mi era sempre piaciuto.
Avevo ordinato il solito e stavo aspettando nella sala pressoché vuota, forse perché non era stagione o più probabilmente perché era ancora presto, quando mi sono messo a giocare con le posate. Ho urtato con la lama del coltello il bordo del bicchiere dell’acqua davanti a me e poi quello del vino e infine la bottiglia di chardonnay.
Eccola la melodia, eccola…’ ho pensato. Mi sono subito alzato per prendere da un altro tavolo altri due bicchieri; li ho riempiti di vino e di acqua in quantità diverse. Ne ho aggiustato il livello fino a quando, colpendo i relativi vetri, non ottenevo la nota giusta. Suonandoli infine tutti insieme, nella corretta successione, ne ricavai buona parte della melodia, quella di John. Ci ero riuscito!
Ho afferrato il telefonino per chiamare qualcuno per dare la notizia.
Poi mi sono fermato. Ci ho pensato un po’ su. E ho preso il bicchiere di vino e me lo sono bevuto.
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Scendo alla prossima

Finalmente l’aveva trovato. Si trattava di un’incisione rara, della Fonit Cetra, con ancora la sua custodia intatta; il vinile era in ottime condizioni e l’uomo della bancarella, un tipo giovanile dall’aria di voler fare mercato solo per hobby, gli fece un ottimo prezzo. A volte gli accadeva di trovare tra quei banchi qualcosa di interessante, ma questa volta era certo di aver fatto un affare.
Arrivato a casa, estrasse il disco dalla copertina con estrema cura. L’avrebbe trattata e rimessa in sesto in un secondo momento. Controllò invece subito, sotto una luce diretta e con la lente di ingrandimento, se i solchi fossero rovinati o se fossero presenti graffi o raschiature. Trattenne il respiro. Dopo un controllo accurato il vinile gli risultava perfetto. Un vero colpo di fortuna. Usò lo speciale dispositivo a iniezione d’aria per togliere lo sporco grossolano, poi il famoso spray che aveva comprato a Londra per i granelli infinitesimali finiti nei solchi, e quindi il panno speciale elettrostatico di nuova concezione utilizzato dalla NASA nei viaggi spaziali e infine altri due o tre tessuti per la lucidatura e brillantatura calibrata. Ci impiegò un’ora, ma al termine di tutte quelle operazioni, il disco sembrava nuovo.
Esaminò l’incisione in rilievo sull’anello interno della facciata principale. ‘1947’ c’era scritto oltre ad altre due sigle alfanumeriche che verificò essere relative a quel periodo di produzione della Fonit, alla sala di incisione e all’artista. Sì, non c’era dubbio: il disco era autentico. Non restava che ascoltarlo.
Andò nella sua sala e accese il giradischi da migliaia di euro. Le potenti casse risposero all’unisono mostrando il led verde. Sistemò con cura il disco sul piatto e con il telecomando fece partire il braccio. Il giradischi eseguì diversi check verificando che tutto fosse pronto e poi il braccio si alzò morbido a ricercare il bordo del disco; si fermò per aria sulla sua verticale e quindi lentamente adagiò la testina sul vinile. In un attimo, per la casa, come provenissero da un’altra epoca, si sprigionarono note dolcissime secondo le tonalità e le registrazioni del tempo; un’atmosfera calda e suadente stava viaggiando nei decenni. Non ci poteva credere: stava ascoltando un brano di cui, tra gli esperti, si era sentito solo favoleggiare e che alcuni ritenevano addirittura non esistesse neppure; il suono era preciso, pulito, netto, senza fruscii o rumori che lo offuscassero. Si sentì commuovere. Terminato il brano lo rimise daccapo, azionando il telecomando. Lo ascoltò di nuovo e questa volta con gli occhi chiusi. era rapito e sedotto profondamente da quell’ondata di emozioni. Andò a cercare nella libreria il catalogo che riportava le edizioni di quell’artista: la quotazione per quel fox trot era da capogiro. Ascoltò di nuovo il pezzo e poi ancora e ancora ed era sempre più avvolgente. Quindi si alzò dalla poltrona, si risedette e si rialzò. Era nervoso. Ora voleva sentire la facciata B. L’etichetta diceva che il brano si intitolava ‘Accadde domani’ ma il catalogo indicava che la facciata B sarebbe dovuta essere ‘Rose d’autunno’ composta lo stesso anno. ‘Forse si tratta di un’edizione ancora più rara‘, si disse. Fece partire il giradischi: il pezzo era notevole, maestoso, struggente e soprattutto sconosciuto.
Lo doveva dire a qualcuno. Pensò a Luca, che come lui aveva la stessa passione. Il pezzo era terminato e il disco girava a vuoto sul piatto; prese il telefonino e compose il numero. Stava per completarlo quando una voce strozzata dal pianto e dalla disperazione uscì dalle casse come da una tomba:
«Aiutatemi vi prego, aiutatemi… sono trattenuta con la forza. Mi uccideranno, lo so… come faranno i miei bambini senza di me? Vi prego, venite a liberarmi, sono qui nell’ex rifugio antiaereo di via…»
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Sonnenstein

Gottlieb K. non riusciva a capacitarsi. Tutto era successo nel volgere di un paio di giorni. Dagli agi della sua villa fuori città a quel luogo di senzadio. E adesso era almeno un paio d’ore che si trovava nudo, i piedi nella neve, insieme a un altro centinaio di persone pallide e smagrite, aspettando che il portone delle docce si aprisse. Sonnenstein era tetra in quella mattina di novembre; alcuni fiocchi di neve scendevano lenti su quella scena irreale. Il militare di guardia, immobile nel suo cappotto spesso, il mitra imbracciato, fissava un punto indefinibile davanti a sé. A male pena voltava gli occhi quando qualcuno del gruppo stramazzava a terra mentre nell’aria tersa e tagliente volavano comandi rapidi e funesti, come uccelli scuri del malaugurio partoriti da un cielo livido senza speranza. Il portone alla fine si aprì, con la solennità con cui si dischiude un nuovo mondo agli occhi di un naufrago. Ma era solo un’illusione. Si spalancò invece una sala spoglia e scrostata che puzzava di morte, il pavimento lurido e tante docce grigie che scendevano dal soffitto come frutti maledetti. Al militare con il cappotto si unirono presto molti altri, tutti uguali, che spingevano con le canne dei mitra le costole dei prigionieri. Urlavano come pastori impazziti che spingessero le proprie pecore nell’abbraccio del baratro.
«Lei è Gottlieb K.?» gli chiese un militare che, a giudicare dalle mostrine, doveva essere un sottufficiale delle SS.
Gottlieb era intontito dal freddo, non capiva. Stava ancora osservando l’enorme sala che di lì a poco l’avrebbe ingoiato in un solo sbadiglio.
«Lei è Gottlieb K.?» gli ripeté gentilmente il sottufficiale.
«Sì…» rispose alla fine lui, anche se dal tono suonò come una domanda.
«Mi segua allora, prego» fece il militare allontanandosi a larghe falcate degli stivali lucidi.
Per un attimo Gottlieb non seppe che fare. Gli sembrava di tradire la sorte dei suoi compagni che lo guardavano stralunati mentre procedevano, i corpi arresi, verso la camera a gas. Poi, come un automa, si voltò verso il sottufficiale che, una decina di metri più in là, si era fermato ad aspettarlo.
«Ho saputo che lei è un violinista» gli chiese qualche minuto dopo il lagerkommandant Otto Steiner distendendosi sulla poltrona dell’ufficio. Gottlieb aspettò prima di rispondere. Poi assentì lievemente nella luce polverosa della stanza.
«Sono il primo violino della Filarmonica di Vienna» confermò.
«Molto bene, herr professor» gli disse Steiner soddisfatto «le ho trovato un lavoro, suonerà per me…» e soffiò in alto il fumo del sigaro che non riuscì a farsi strada nell’aria densa. L’attendente, che nel frattempo si era materializzato dal fondo dell’ufficio, gli si era fatto da presso tenendo, in una mano, i vestiti tolti a qualche altro deportato e, nell’altra, un violino di legno biondo e profumato. «Dovrà suonare senza smettere mai, tuttavia… » precisò Steiner facendosi serio «non ho mai una distrazione in questo ufficio… pensa di potercela fare?»
Così da quel momento Gottlieb K. si mise a suonare per aver salva la vita. Suonò Mozart, Schumann, Novacek e tutto il suo ricco repertorio, mentre nella stanza del lagerkommandant si avvicendavano ufficiali e portaordini in un batter di tacchi e saluti urlati.
«Si fermi un attimo, herr professor» gli disse verso le quattro del mattino. «Vada in bagno a darsi una rinfrescata e mangi qualcosa» e spinse verso di lui con il manico di un tagliacarte il piatto con la propria cena neppure assaggiata. Gottlieb dapprima fu titubante, poi prese coraggio e, con la fame di due giorni, si avventò sul cibo senza riuscire a distinguere cosa fosse. Steiner stette a guardarlo con divertimento e, dopo appena qualche attimo, gli tolse il piatto dalle mani. «Va bene, basta così, ora riprenda a suonare.»
Passarono diversi altri giorni. Gottlieb era sfinito. Aveva bisogno di dormire più ancora che mangiare o bere. Era un incubo a occhi aperti. Un pomeriggio, senza smettere di suonare, si mise in ginocchio con la testa appoggiata al muro per avere un poco di sollievo. A un certo momento dovette essere svenuto perché quando riaprì gli occhi si accorse di essere solo nella stanza, il violino per terra. Preso dal panico cercò di imbracciarlo nuovamente, ma non ci riusciva: era diventato pesantissimo. Si riaddormentò quasi subito senza volerlo finché si sentì picchiettare sulla testa. Ora c’era un militare davanti a lui, con un fucile in mano.
«No» gli disse Gottlieb, «non ce la faccio più. Mi arrendo, mi arrendo…» implorò mettendosi a piangere.
«Com’on, man» gli fece il soldato americano sorridendogli. «Tutto finito. Go home
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Note colorate

«Quali referenze può offrire?» chiese con sussiego l’Assistente unendo le due mani per i polpastrelli e dirigendole a cuspide verso l’uomo. Un generoso riporto sale e pepe gli copriva il cranio a uovo accentuando l’atteggiamento untuoso e distaccato che aveva assunto. «Il Maestro è molto esigente e ci tiene che il lavoro sia ben fatto» fece ancora con una certa cantilena come se quella frase l’avesse ripetuta così tante volte da farle perdere ogni significato. Il cingalese davanti a lui, nell’allungare un foglio stropicciato, approfittò della smorfia che aveva visto increspare il viso marmoreo del suo interlocutore e chiese:
«Però non ho capito in cosa consisterebbe il lavoro. L’annuncio faceva riferimento a delle pulizie… ehmm… particolari. Quanto particolari?» e sfoderò un sorriso luminoso che l’Assistente non notò neppure: aveva assolutamente bisogno di quel lavoro, anche a costo, pensò, di cambiare lui stesso l’olio a quel riporto.
«Se sarà assunto lo capirà» concluse l’altro, asciutto.

Quando il cingalese entrò nell’ampia sala, candida come la banchisa polare, vide il Maestro Ruud Christian Weber immobile, in frac, seduto al centro della stanza, gli occhi chiusi davanti a un Bosendorfer nero come uno scarafaggio. La scena sembrava finta tanto era irreale. Nell’accostare dietro di sé la porta, il legno scricchiolò in modo impercettibile e il Maestro alzò la testa da un lato, come solo una persona cieca poteva fare. «Lei è l’uomo assunto per le pulizie, vero?» chiese il pianista con voce morbida, quasi melodiosa. L’acustica del luogo era perfetta, una sensazione assoluta e infinita di suono, anche se, a parte il mastodontico pianoforte che giaceva grintoso pronto a balzare fuori dalla vetrata, lì dentro non c’era nient’altro .
«Sì, Maestro, mi chiamo Qwara.»
«Hai l’occorrente?»
«Certo!» rispose il cingalese alzando nella sua direzione una scopa di saggina, ma rendendosi subito conto di quanto potesse essere stupido quel gesto indirizzato a un non vedente. Sorrise imbarazzato. Approfittando di aver aperto un dialogo con il pianista, domandò: «Però non ho capito bene quale sarebbe il mio compito, qui mi sembra tutto così pulito…»
Il Maestro non lo stava già più a sentire e si mise a suonare. Qwara fece spallucce e iniziò a camminare per la sala guardandosi attorno; trascinava svogliatamente la scopa e il carrellino con i secchi e gli stracci come se si chiedesse dove avrebbe potuto nasconderli. Non c’era dubbio: il pavimento, le pareti frastagliate di mogano e perfino i lampadari erano immacolati. Non gli era mai capitato una cosa simile. Avrebbe dovuto forse pulire il pianoforte? Proprio mentre il Maestro suonava? Eppure gli era stato raccomandato espressamente di restare lì proprio mentre Weber era al piano.
A un certo punto, Qwara vide attraversargli il campo visivo alcuni uccellini grigi o dei fazzoletti scuri che volteggiavano lentamente per aria accendendosi di colori vividi e luminosi; si muovevano confusi senza una direzione precisa, sospinti da una brezza immaginaria, per poi cadere uno dopo l’altro mulinando come foglie secche e rimbalzando sul pavimento. Si avvicinò. No, non erano uccellini, né fazzoletti: erano note musicali. Minime, crome, biscrome fuoriuscivano dal pianoforte liberate dalle corde percosse dai martelletti collegati ai tasti. E, man mano che il concerto progrediva, presero ad accumularsi a terra ovunque creando uno spessore consistente tutt’attorno. Qwara capì, finalmente, quale sarebbe stato il suo lavoro. Si chinò prendendone una manciata: avevano la consistenza a metà tra il panno lenci e la plastica morbida. Erano già diventate grigio pietra anche se alcune sembravano ancora vive perché gli vibravano tra le dita. ‘Ci si può fare un mucchio di soldi con questa roba’ pensò. ‘Sono note di un pianista di fama mondiale e, per giunta, ciascuna nota è firmata con il suo nome’. Così, mentre il Maestro suonava, l’uomo riempì diversi sacchi con cui stipò il furgone della ditta. Ma, alla fine del concerto, anziché recarsi alla discarica, si portò nel quartiere sud della città.

«Amitesh, ti assicuro, sarai contento quando vedrai cosa ti ho portato…» gli disse Qwara con la voce che gli tremava. L’uomo, basso e tarchiato, lo guardava torvo. Dietro di lui, due uomini affilati e dall’aspetto minaccioso se ne stavano in disparte apparentemente non interessati a quella conversazione. «La piazzerai in un attimo, te l’assiscuro…» insistette Qwara «dammi ancora un po’ di fiducia. I soldi non te li posso restituire subito, ma questa roba ti renderà milionario…»
«Se mi freghi anche questa volta, Qwara, ti farò andare in giro con un paio di branchie nuove nuove…» disse rigirandosi qualcosa tra le mani che nella penombra lui immaginò essere un coltello. Il cingalese scese sollecito dal furgone e, aperto il portellone, tirò giù un sacco della spazzatura. L’aprì. Anche se la luce del neon del vicolo era debole e intermittente il contenuto si vide benissimo: c’era solo cenere là dentro. Grigia, impalpabile, insignificante cenere di caminetto.