L’uomo con il cappello (seconda e ultima parte)

[RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE: Luis ha diversi problemi in 
ufficio. Un suo collega, meno meritevole di lui, riesce a precederlo 
nella corsa alla carica di CEO della società. Da quel momento è 
sottoposto da parte di quello ad angherie e vessazioni. Luis cade 
in una grave depressione. Un uomo misterioso, dal cappello a larghe 
falde, si offre, senza voler nulla in cambio, di risolvergli 'in modo 
pulito' ogni suo  problema di concorrenza e di restituirgli quanto 
gli spetta].

Poi Luis si ammalò sul serio. Non usciva più di casa. Solo la vicina anziana che lo aveva preso in simpatia veniva a trovarlo e a portargli da mangiare. Passava le sue giornate nel letto, in una sorta di dormiveglia soporoso che non presagiva nulla di buono. Si addormentava ogni tanto e poi si svegliava di soprassalto rimanendo a guardare immobile il soffitto per ore. Avrebbe voluto reagire ma si sentiva rinchiuso in una gabbia di inedia senza scampo.
«Adesso mi dà il suo consenso?» si sentì dire.
Lui si svegliò e se lo vide lì seduto sul suo letto. Con il cappello importante e la sciarpa azzurra. Ora che non indossava più gli occhiali da sole, i suoi occhi risultavano penetranti e bucavano la penombra. Ma Luis non si spaventò nel vederlo accanto, come fosse normale che ci fosse, né si chiese come avesse fatto a entrare a casa sua. La domanda cominciò a rimbalzargli nella mente come una biglia in una scatola di metallo. E forse, chissà, fu lo stato depressivo a parlare per lui, perché alla fine lui disse di sì. L’uomo con il cappello glielo chiese altre due volte, a conferma, perché voleva essere sicuro che fosse davvero quella la volontà espressa da chi aveva di fronte. E la risposta di Luis fu sempre la stessa. Dopodiché si sentì esausto.
Di lì a qualche giorno andarono a trovarlo i colleghi di ufficio. Gli riferirono increduli che Mark, il capufficio, era morto. Gli era andato di traverso un boccone di chissà cosa ed era soffocato. Lo aveva trovato la segretaria l’indomani mattina, riverso sulla scrivania, che già era freddo come il marmo. Ora Luis poteva tornare: il posto da CEO era suo. Nessuno aveva dubbi in proposito e che facesse presto perché lo aspettavano a braccia aperte: erano tante le cose ora da fare.
Lui ci mise un po’ tuttavia per rimettersi in sesto. E quando fu il momento di entrare nel suo nuovo ufficio non ci voleva credere. Era ancora più bello di quello che si ricordava. L’ampiezza, gli arredi, lo spettacolare panorama. Tutti lo salutarono con calore e entusiasmo. Persino sua moglie, che lo aveva lasciato quando era caduto in disgrazia, gli telefonò per complimentarsi con lui e fissare un appuntamento per pranzare presto insieme.
Quando Luis rientrò nella sua abitazione cercò di realizzare quanto era accaduto: ogni cosa era cambiata velocemente anche se sembrava unicamente tornata al suo posto. Dal punto di vista razionale riusciva ancora a tenere a bada i sensi di colpa sforzandosi di non ricollegare la presenza dell’uomo con il cappello con la morte di Mark. In fondo non era stato ucciso, si diceva tra sé e sé, si era ‘solo’ soffocato con del cibo. Era ‘evidente’ che doveva essersi trattata di una morte accidentale e il fatto che lui avesse acconsentito alla offerta dell’uomo misterioso non significava necessariamente che lui fosse anche il responsabile per la morte del suo capufficio: nessuno avrebbe mai potuto seriamente sostenerlo e soprattutto nessuno avrebbe potuto provarlo; era chiaro che doveva essere una semplice coincidenza. Poteva stare tranquillo. Ma poi: davvero aveva dato il suo consenso a una cosa simile? Stava troppo male per esserne sicuro.
Non voleva comunque rovinarsi quel giorno con quelle preoccupazioni, si disse, era il suo grande giorno e se lo meritava dopotutto. Ci avrebbe riflettuto in un altro momento.
Si affacciò alla finestra. Era pressoché l’ora del tramonto. Era particolarmente suggestivo, quasi anche il cielo avesse voluto contribuire a festeggiare con lui. Sì, era felice come non si sentiva da troppo tempo.
Poi, la sua attenzione fu attirata alla sua sinistra. Era il suo “odiato” vicino Sinclair che gli sorrideva facendogli ‘ciao’ con la mano da dietro la finestra. Aveva uno sguardo sornione che tendeva al perfido.
Ci risiamo’ pensò Luis ‘chissà ora che gli ho fatto…
Subito dopo capì.
Sinclair si scostò dalla luce della propria finestra lasciando il campo a un’altra persona appena dietro di lui. Era l’uomo con il cappello che lo guardava fisso attraverso gli occhiali scuri. E subito dopo scomparve.
(fine)

L’uomo con il cappello (prima parte)

Quella sera Luis stava tornando a casa furibondo. Aveva litigato per l’ennesima volta con Mark, il suo capufficio. Non solo doveva sopportare il fatto che era riuscito a rivestire il prestigioso incarico che spettava a lui, ma non passava giorno che quello non lo criticasse anche in pubblico redarguendolo come fosse l’ultimo arrivato. Doveva trovare una soluzione: come il coraggio di licenziarsi.
Così Luis entrò nel parcheggio di casa. Sinclair, il suo vicino, aveva come al solito parcheggiato male la sua autovettura invadendo parte del suo stallo, cosa che impediva di fatto di poter sistemare la propria. Era già successo tante altre volte e questa era solo l’ultima tra le tante angherie che aveva dovuto sopportare. Sinclair lo aveva preso di mira fin dal primo giorno in cui si era trasferito in quel condominio. Una volta aveva trovato il suo zerbino inzuppato di urina e un altro giorno la sua posta tirata fuori dalla cassetta e sparpagliata per tutto l’androne; per non parlare di quando anche di notte, con la scusa che la propria mamma anziana era sorda, teneva la televisione a tutto volume. Luis aveva cercato di farlo ragionare, ma era solo servito a farsi insultare, per il colore della sua pelle, aveva detto una sera Sinclair fuori dai denti con gli occhi che facevano paura, e così Luis non era riuscito a caverne nulla. Una giornata perfetta, quella, niente da dire, pensò mentre usciva nuovamente dallo spiazzo del caseggiato per trovare un parcheggio.
«Io posso risolvere il suo problema» si sentì dire da un uomo che, il giorno seguente, si era messo a sedere al suo tavolino al bar mentre Luis cercava di far colazione.
«Come dice, scusi? Lei chi è?» gli chiese mentre stava sorseggiando la sua spremuta di pompelmo.
«Non ha importanza chi sono…» ribatté lo sconosciuto.
Il tipo che lo guardava attraverso gli occhiali da sole griffati aveva un’età indefinibile, un viso qualunque, un cappello a larga tesa che gli copriva parte della fronte spaziosa e una sciarpa di seta azzurra attorno al collo. Nonostante facesse freddo portava solo una giacca leggera.
«Mi dia il consenso e la libererò del suo capufficio…» seguitò ancora.
«Ma cosa dice? Se ne vada per cortesia! Mi lasci in pace.»
L’uomo dal cappello non aggiunse altro e se ne andò.
Trascorsero altri mesi da quel giorno e, se solo fosse stato possibile, la situazione in ufficio peggiorò. Ora Luis era stato demansionato oltre che essere stato fisicamente spostato in un altro ufficio, piccolo e angusto, al primo piano. Non veniva neppure più invitato alle riunioni ed era stato pressoché estromesso da ogni potere decisionale. Tutti i colleghi lo sollecitavano a reagire, invitandolo a rivolgersi ai sindacati, a intraprendere una vertenza. Lui però non se la sentiva. Non era nel suo carattere. E così, a poco a poco, scivolò in una cupa depressione senza apparente via di uscita. Era dimagrito parecchio e non dormiva più.
«Mi dia il consenso» ripeté l’uomo con il cappello sedendosi nuovamente, dopo tanti mesi, allo stesso tavolino di quel bar. Luis alzando gli occhi lo riconobbe a stento. Il cappello che calzava era sempre lo stesso, ma l’uomo, dall’aria sinistra e gelida, si era fatto crescere barba e baffi.
«Ancora lei! Ma cosa vuole?»
«Mi dica che posso farlo e io la sbarazzerò da quell’uomo… lei non può andare avanti così. Presto si ammalerà se non è già troppo tardi.»
«A parte che quello che mi sta chiedendo è un reato… non vedo perché lei si deve fare i fatti miei; e poi io non ho soldi da darle…e certamente non sono in grado di restituire, come dire…, il favore!» sbottò Luis meravigliandosi di aver pronunciato quelle parole.
«No, niente soldi e non mi dovrà alcun favore… diciamo piuttosto che è lei che sta facendo un favore a me.»
«In che senso? Non capisco.»
«È complicato da spiegare. È una cosa mia. Lei pensi solo a dirmi che lo posso fare e io le risolvo per sempre il suo problema. Lei avrà il posto da CEO che le spetta. E nessuno collegherà mai la morte del suo capufficio con me e tantomeno con lei… È un lavoro pulito. Sono un professionista. Lavoro in questo settore da sempre. Ho i miei vantaggi. Non mi dovrà nulla.»
Luis non sapeva cosa rispondere. Si accorse di lì a poco che gli era passato l’appetito. No, non poteva accettare una simile offerta. Era contro ogni suo valore e principio. Alzò gli occhi dal piatto che aveva appena scansato ancora ingombro di cibo. Ma l’uomo con il cappello era di nuovo sparito.

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(seconda e ultima parte)

Non importa dove

Quando al mattino, incartato nei miei pensieri, mi avvicino lentamente all’ufficio, quando il profumo dell’olivo di Boemia già mi avvisa della sua presenza appena dietro il cancello d’ingresso, ecco lui è lì, che sbuca all’improvviso in lontananza, silenzioso, tra i profili netti delle case. Riga il cielo a tracciare una linea immaginaria obliqua tra il sole e l’orizzonte. È sempre lo stesso. Lo riconosco: per il colore delle ali e la bandiera che primeggia sul timone. Quell’aereo ha sempre la stessa inclinazione di decollo, la stessa direzione fatale, lo stesso scintillio rapido sulla carlinga. Mi aspetta fedele, paziente. I viaggiatori a bordo magari si domandano perché il loro aereo quella mattina sia in ritardo, perché sia rimasto incerto a rollare sulla pista come non avesse pace, perché sembrava perdere tempo nel trovare la posizione giusta nel drizzare il muso verso il grande Nord. Ma la risposta è solo una: il loro aereo aspetta me, ogni volta, fino a quando non mi scorge che scendo dal solito mezzo, con il mio carico di vita sulle spalle e l’aria stropicciata che mi porto dietro. Mi deve chiedere ogni mattina la stessa cosa: perché non parto insieme a lui, perché non ho la valigia in mano e il biglietto che sbuca dal taschino.
Fa così perché sa che non smetterò mai di sognare; e sa che ogni volta che lo vedo partire mi viene da sospirare, mi metto a desiderare di essere là sopra, di vedere il mondo dall’alto che diventa sempre più piccolo, sempre più insignificante. Già, sognare di partire, non importa dove, purché sia lontano, senza ritorno, lasciando a terra ogni pensiero, ogni conflitto e tutte le preoccupazioni che ti corrodono dentro.
Mi accorgo allora che per un attimo mi sono persino fermato. La borsa dondola un po’ per inerzia nella mia mano serrata. Gli altri pendolari scesi con me dalla tranvia, e che mi erano dietro, cercano ora di evitarmi all’ultimo momento, con fastidio, perché non capiscono che ragione possa mai avere io per essermi arrestato così ad un tratto, come fossi diventato tutt’uno con il marciapiede. E poi per cosa? Per guardare per aria, per fissare un spicchio di cielo che neppure si nota, tra caseggiati insignificanti di un quartiere dal nome che non si riesce neanche a ricordare. Ma io lo devo fare. Lo devo salutare. Il mio aereo. Glielo devo dire: ‘No, non oggi, non verrò oggi‘, gli dico, ‘ma domani; sì, domani senz’altro‘. Anche se lo ripeto ogni mattina, per la verità, e i domani sono diventati davvero tanti e le scuse sempre più inutili.
A dirla tutta non mi accorgo nemmeno di essermi fermato; ed è solo quando l’aereo viene inghiottito dalla collina scura che si erge di fronte, tanto da non sembrare che sia mai esistito se non per me, che mi accorgo che gli altri pendolari sono già distanti, proiettati verso la loro giornata, non dissimile dalla mia, con le stesse malinconie e gli stessi malumori.
E allora riprendo il cammino. La mia borsa comincia nuovamente a ciondolare tra le dita mentre l’olivo di Boemia rinnova il richiamo spandendo il suo profumo. E intanto penso al mio aereo che oramai è salito in quota, che è diventato ancora una volta solo un puntino in un cielo di cipria che sbuffa dietro di sé il suo filo di seta a segnare la direzione giusta; opposta a quella che sto calpestando.


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L’ultima cosa che ricordo

«Avanti!»
La voce imperiosa che filtrava a stento da dietro la porta del Direttore non era stata tra le più incoraggianti. Sarà stato poi vero che mi aveva fatto chiamare? Mi voltai verso la scrivania di Ottavia, la segretaria particolare, per averne conforto. Ma stranamente non c’era. La sua faccia da carciofino sottolio, in quell’istante, mi mancò molto, come il suo sguardo severo e penetrante di chi ti rimprovera d’esserti dimenticato di fare la doccia.
Abbassai la maniglia che riempiva completamente l’incavo della mia mano. Ricordo che quando cominciai a spingerla per entrare, pensai a quanto dovesse essere costata una porta simile e se i soldi necessari a comprarla erano stati trattenuti dallo stipendio da fame che mi davano ogni mese.
Appena varcai la soglia un faro di luce mi abbagliò.
«Non vedo niente!» esclamai chiudendo gli occhi.
«Sì sì, non si preoccupi, la lampada si è bloccata. Entri, entri pure e chiuda la porta» mi fece il Direttore.
Ubbidii docilmente, accostai la porta di noce massiccia e mi inoltrai per un paio di metri nella stanza: tenevo gli occhi bassi, senza poter vedere nulla.
Un forte “glang” proveniente da chissà dove all’improvviso saturò l’aria. E la luce andò via.
«Ecco, ci risiamo» sentii dire dal Direttore.
Nell’oscurità totale continuavo a vedere a intermittenza la luce abbacinante che si era impressa sulla mia retina.
«Cosa devo fare?» chiesi stupidamente.
«Ma cosa vorrebbe fare?» mi rifece il verso Lui in modo come al solito sgarbato. «Stia fermo, per carità. Che ci sono cose preziose qui dentro e che se si mette a girare alla cieca mi ci sbatte contro e me le rompe…»
Sentii armeggiare mentre santiava tra i denti. Il telefono dovette cadere per terra insieme ad altri oggetti che non riuscii a identificare. Istintivamente allungai le braccia verso la fonte del rumore come per prendere al volo quelle stesse cose, ma poi, vista l’inutilità del gesto, le riabbassai.
«Direttore?» chiesi quasi a me stesso senza ottener risposta.
Poi sentii un urlo. Era un grido di dolore, disperato, definitivo e un corpo che cadeva malamente, a peso morto. Feci un passo indietro spaventato, dalla parte opposta rispetto alla direzione dell’urlo.
«Direttore… Direttore… sta bene? Cosa è successo?»
Il silenzio era solido, denso, cupo. Cercai di tornare sui miei passi per trovare la porta da cui ero entrato. Tastavo il muro, ma non la trovavo. ‘Eppure è qui’ mi dissi per rincuorarmi, ma ero nel panico.
«Non ti muovere, è meglio per te…» mi intimò un’altra voce roca. Mi paralizzai. Non era quella del Direttore.
Dopo qualche istante mi venne da domandare:
«Cosa è successo al Direttore? Che gli ha fatto?»
«Quello che si meritava… non lo odiavamo forse tutti?»
«Ma non tanto da ucciderlo…» saltai subito alle conclusioni.
«Chissà quante volte invece ci hai pensato tu stesso.»
Sentii un rumore lento di passi venire nella mia direzione. Alzai di nuovo le braccia intorno a me verso quel suono come per fermare la minaccia incombente. Poi avvertii una brezza gelida sul collo. Mi toccai come fossi stato punto da un insetto e agitai ancora di più le mani a mulinello davanti a me nell’oscurità.
«Hai paura, eh? Sto fiutando la tua adrenalina nel buio…» mi sussurrò la voce strascicata. Mi arrivava il suo alito aspro di alcol e di fumo. Ma fu solo un attimo perché subito dopo mi ha gettato addosso un bicchiere d’acqua sui vestiti che mi inzuppò completamente. In quello stesso istante qualcuno entrò rapido dalla porta accendendo la luce: era Ottavia. Mi guardò come se fossi stato un sacco della spazzatura lasciato da qualcuno in mezzo al salotto buono.
«E lei che ci fa qui dentro, al buio?»
Anziché rispondere mi volsi attorno per vedere chi fosse l’uomo che mi era accanto.
Sul parquet, poco distante, c’era invece solo il corpo inanimato del Direttore con un coltello piantato nella schiena. La mia camicia era lorda di sangue.
L’ultima cosa che ricordo è l’urlo lancinante di Ottavia quando anche lei vide la stessa scena.
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La maschera

In casa era così: dolce, disponibile, sereno. Le figlie lo adoravano e la moglie lo amava da sempre; ma sul lavoro era tutta un’altra cosa. Era molto giovane per il tipo di ruolo richiesto e il rischio di non avere autorevolezza sufficiente per gestire il personale e imporsi sui colleghi era molto elevato. Si era fatto crescere la barba, aveva imparato a vestire in modo meno giovanile, aveva comprato persino un paio di occhiali dalla montatura pesante e il tutto per accrescere la sua credibilità. Aveva sempre però l’impressione che non fosse abbastanza e che, ogni tanto, lo prendessero anche in giro non appena voltava loro le spalle.
Così un giorno, uscendo di casa, si mise la maschera. L’aveva trovata in un baule, nella cantina, avvolta in carta da giornale con sopra la scritta ‘da non usare’. Forse era stata del padre o forse del nonno ma nessuno di loro ne aveva mai fatto cenno. Non si curò dell’avvertimento perché, appena provata, se la sentiva perfetta addosso; calzava a meraviglia e, da quel che poteva osservare dal pezzo di specchio che aveva in quella stessa cantina, gli assicurava quel pizzico di severità che gli occorreva, ma anche un non so che di risolutezza e persino di moderata alterigia e comunque di indiscussa superiorità. In fondo era ancora lui ma, sotto sotto, non lo era più.
La nascose nel portaombrelli sul pianerottolo di casa e, l’indomani, dopo aver salutato moglie e figlie, se la mise per andare in ufficio. Come aveva sperato, d’un tratto, non ci furono più problemi. Non faceva in tempo a pensare ciò che i collaboratori avrebbero dovuto svolgere che loro già loro l’avevano eseguito. Erano ossequiosi e pendevano dalle sue labbra desiderosi di compiacergli. Il suo viso evidentemente esprimeva rispetto, autorevolezza, capacità di comando; non c’era più traccia delle imbarazzanti incertezze di una volta: si sentiva finalmente appagato.
Sarà solo per poco tempo’, si giustificò con se stesso: ‘io so del resto quanto valgo ed è solo una questione di forma: continuerò così, solo per un po’, almeno fino a quando non avranno imparato a rispettarmi e poi ne farò a meno’.
Ben presto questa preparazione mattutina divenne una routine. Al mattino usciva di casa, indossava la sua maschera e andava a lavorare. La sera tornava, se la toglieva, e si godeva la famiglia.
Trascorsero in questo modo alcuni mesi. Ma anche quando sul lavoro oramai tutti lo stimavano considerandolo indiscutibilmente il loro leader lui non se la sentiva più di lasciare la maschera nel portaombrelli. Non ancora. Alla sera quando la riponeva si diceva che sarebbe stata l’ultima volta, ma poi al mattino la indossava di nuovo. ‘In fondo, che male c’è’?’ si diceva.
Poi, una mattina, mentre stava per entrare in ufficio, vedendosi nel riflesso della vetrina di un bar, si accorse di aver dimenticato di indossare la maschera. Oramai era diventata una tale abitudine metterla e toglierla che non ci aveva fatto più caso. Che fare ora? Entrare lo stesso e affrontare il nuovo corso? Oppure tornare a casa? ‘Che seccatura!’, pensò, ‘proprio oggi che viene in visita il Direttore Generale‘. No, non poteva darsi malato e capì anche che non avrebbe potuto neppure sedersi dietro la sua scrivania e affrontare una giornata simile senza la sicurezza che la maschera gli avrebbe potuto dare. Doveva tornare a prenderla: forse avrebbe fatto in tempo. Dopo tutto era ancora presto e, a casa sua, non c’era più nessuno.
Prese un taxi e, in poco tempo, fu davanti al portone di casa. Salì velocemente i gradini e, una volta arrivato al portaombrelli, ci frugò febbrilmente dentro: la maschera non c’era. ‘Com’è possibile?’ si chiese allibito. Cercò meglio tirando fuori tutti gli ombrelli e un vecchio bastone da passeggio. Niente, non c’era. In quell’istante uscì la moglie e le sue due figlie. Quel giorno c’era la recita di fine anno e le sue bambine sarebbero uscite più tardi del solito: l’aveva dimenticato. E appena lo videro lì, davanti alla porta di casa loro, chino per terra, gli occhi strabuzzati, si misero a gridare spaventate. Lui non riusciva a capire. La moglie e le figlie lo avevano guardato in faccia e non lo avevano riconosciuto. Si tastò il viso. La maschera era lì, al suo posto: si era sbagliato a credere di non averla indossata.
«Ma no, Tesoro» disse allora lui facendo un passo verso la moglie e le figlie: «Anche voi bambine, non dovete spaventarvi sono io, sono papà… ho solo una maschera indosso… volevo farvi uno scherzo.»
La moglie nel frattempo aveva chiuso la porta di casa e, spingendo le bambine davanti a sé, fece scendere loro rapidamente le scale: erano scoppiate a piangere, terrorizzate per quelle parole che l’uomo sconosciuto aveva pronunciato.
«Guardate è solo una maschera…» disse ancora lui sporgendosi verso di loro dalla ringhiera e provando a levarla «guardate, la tolgo subito». Ma non ci riusciva, non c’era più il bordo, anche se impercettibile, sul collo e sulla fronte per poterla cavare: oramai era tutt’una con la sua faccia.


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