Capitan America (prima parte)

Il piccolo Karl era disteso sul suo lettino. Piangeva. Non trovava giusto che non potesse andare alla festa di Bob per il suo compleanno e solo perché la casa era lontana. Forse i genitori di Bob sarebbero potuti anche andare a prenderlo. Bastava chiederglielo. No, non era egoista da parte sua pensare solo a sé e non agli altri. Che c’entrava? Lo sanno tutti poi che quando è il compleanno di qualcuno queste regole non valgono. E poi che cosa voleva dire che avesse solo otto anni? Non significava un bel niente. Lui era grande, eccome se lo era. Almeno ci fosse stato papà l’avrebbe difeso. La mamma era una prepotentona. Faceva il bello e il cattivo tempo. E, ad essere sinceri, era quasi sempre cattivo tempo.
Poi all’improvviso Karl prese la decisione di andarsene di casa. Gliela avrebbe fatta vedere a “quella là” se era solo un bambino.
Aspettò che la casa fosse silenziosa e che la mamma si fosse addormentata; si vestì di tutto punto e poi prese lo zaino assicurandosi di averci sistemato ben bene Capitan America: lui l’avrebbe protetto contro tutte le avversità del mondo.
Sullo zerbino di casa ebbe un’esitazione. Non si era mai allontanato da solo, soprattutto di notte. E non era poi tanto sicuro di conoscere bene Belleville. Si girò in cerca di una ispirazione e gli vennero in mente tutte le parole ingiuste che la mamma gli aveva detto. E non ebbe più dubbi. Capitan America avrebbe fatto il resto.
Dopo il suo cancelletto prese a sinistra. Di là in fondo c’era il campo da football, se lo ricordava bene, perché la mamma a volta il mercoledì ce lo accompagnava. Avrebbe passato la notte lì, negli spogliatoi sempre aperti, e poi avrebbe deciso il giorno dopo cosa fare.
I primi passi furono decisi e fiduciosi ma poi, nell’inoltrarsi nella notte scura, si accorse che le vie intorno a casa erano davvero molto buie. ‘Forse questa è via Charleston‘ si disse ad un certo punto fermandosi per un attimo. Intanto una brezza gelida arrivò di soppiatto dai monti. Aveva dimenticato di prendere qualcosa di più pesante per uscire. Non ci aveva pensato. Era troppo arrabbiato per farlo e ormai era troppo tardi. Gli venne un brivido di freddo che lo scosse da capo a piedi. Ma si rimise in marcia. Stava percorrendo il marciapiede, chiedendosi se quella fosse davvero la direzione giusta, quando da una casa uscì di corsa abbaiando un grosso cane. La bestia saltò in un lampo la recinzione e si mise a rincorrerlo per un centinaio di metri; lui corse a perdifiato con il cuore in gola, fino a quando non sentì che qualcuno non richiamava il cane con voce forte e penetrante. La bestia sulle prime si fermò di colpo come se fosse stato raggiunto da una raggio paralizzante, deluso dal non poter rincorrere quella facile preda e poi, trotterellando indifferente, se ne tornò indietro.
Nel frattempo, Karl, che era scappato a zig-zag tra le vie di quel quartiere, capì di essersi inesorabilmente perso. ‘Qui c’è la casa della maestra, Miss Deborah’ pensò sostando davanti a una villetta isolata. ‘Anche se è notte-notte e suono il campanello sono sicuro che mi fa entrare. Si tratta di un’emergenza’. Doveva infatti fare anche pipì. E Miss Deborah era tanto buona. Ma poi guardò bene nella penombra. No, non era affatto la casa della Signorina Maestra. Le finestre non avevano le tendine verdi e il giardino era tutto in disordine. ‘Oddio, dove mi trovo?’. Si chiese.
Camminò alla cieca ancora per una mezz’ora. Cominciò ad avere paura. Anche se avesse voluto tornare indietro non avrebbe saputo però come fare. La zona dove si trovava gli era completamente sconosciuta. Sembrava un’altra città. E poi perché era così buio?
Era stanco, aveva sonno ed era sfiduciato. ‘È complicato al giorno d’oggi scappare, persino per gli intrepidi’ si disse. Ma la voglia di andarsene lontano era ancora intatta. Se avesse aspettato il mattino da qualche parte, avrebbe potuto chiedere aiuto e tutto sarebbe stato più semplice. Era un buon piano. Si disse. E anche Capitan America era d’accordo.
Entrò allora in quello che gli sembrava un giardino. Varcò il cancello in ferro con circospezione. Non sembrava ci fossero cani. La casa non doveva essere abitata o quantomeno se c’era qualcuno era addormentato ‘bello secco’. Pensò.
Si sedette in una rientranza del muro. Ma anche se in quell’incavo era abbastanza riparato, faceva tanto freddo e le mani e i piedi quasi non li sentiva più.

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parte)

La possibilità di scelta

Il bambino era seduto a tavola davanti alla sua torta di compleanno. Era tutto eccitato. Le otto candeline illuminavano il suo viso radioso e lui già si pregustava il cioccolato cremoso del dolce, il cui profumo aveva invaso l’intera stanza. I suoi genitori gli erano davanti. Il padre stava riprendendo la scena con il telefonino cantando ‘tanti auguri a te…’, mentre la madre si godeva il suo spettacolo.
Poi il bambino fece una pausa e li guardò intensamente. I genitori percepirono in quella titubanza come un’increspatura del tempo. La madre colse persino una luce strana negli occhi del figlio e un brivido le corse lungo la schiena, senza capire il perché.
«Lui è molto dispiaciuto…» disse d’un tratto il bambino facendosi serio.
«Lui chi, Jimmy?» fece il padre smettendo di riprendere.
«Kurt, non voleva che andasse a finire così…»
«Kurt?» chiese la madre impallidendo. Poi guardando per un attimo il marito, chiese ancora al figlio:
«Che ne sai tu di Kurt, bambino mio?»
«Ho sempre saputo di lui, mamma. So che volevate molto bene a mio fratello Kurty che a quattro anni fu investito da una macchina mentre attraversava la strada…»
«Ma… ma chi te lo ha detto?» gli domandò il padre che non riusciva a capacitarsi che si stesse facendo proprio quel discorso. «Non te ne abbiamo mai parlato, per non impressionarti… Io… cioè noi… un giorno o l’altro l’avremmo fatto, te lo assicuro, magari quando fossi stato più grande e…»
«La colpa non è stata tua papà, lui si è staccato all’improvviso dalla tua mano e ha attraversato la strada per andare incontro alla mamma che stava uscendo in quell’istante dalla stazione… non ci potevi far nulla è accaduto tutto in un attimo… Kurty si è pentito molto di quel suo gesto, non avrebbe mai voluto che succedesse, ma purtroppo è accaduto.»
A sentire quelle parole i genitori si erano messi a piangere, d’un pianto sommesso, silenzioso, irrefrenabile.
«Come fai a sapere tutto questo?» gli chiese ancora la madre con la voce che le tremava tra le labbra.
«È venuto lui a dirmelo. L’ho visto entrare nella stanza delle anime per potermi scegliere. I bambini, quando muoiono, hanno la possibilità di farlo. Lui era a conoscenza che saresti rimasta incinta, mamma, e, anche se erano già passati alcuni anni dalla sua morte, gli è stato concesso di entrare nella stanza delle anime per poter indicare la persona che avrebbe potuto prendere il suo posto, in questa famiglia. E così, in quell’occasione, mi ha spiegato ogni cosa. Lui mi ha voluto tra tanti perché gli assomigliavo. Non fisicamente, ben inteso, perché non poteva sapere come sarei diventato, ma in spirito. Una persona buona e vivace, sensibile e affettuosa. Desiderava tanto che io vi volessi bene come ve ne voleva lui. Vi amava davvero molto, sapete? Come sto cercando del resto di fare io per lui… Insomma, voleva che voi lo sapeste. Non ha mai smesso di pensarvi e di volervi bene.»
I genitori non sapevano più cosa dire. Erano come annientati per quelle parole. Il passato che avevano cercato di dimenticare era tornato a travolgerli con tutta la forza dirompente di cui è capace il dolore.
Poi Jimmy soffiò sulle candeline e un fumo denso si sparse tutt’attorno a coprire per un istante l’odore del cioccolato.
Ci fu silenzio.
Qualcuno in strada stava parlando, forse al telefono. La sirena della macchina della polizia lo azzittì.
«Perché piangete? Dovreste essere contenti, invece. È il mio compleanno!» chiese accigliato, Jimmy.
«Mi spiace che tu abbia dovuto sapere di Kurty, in quel modo… non potevamo immaginare…» fece la madre prendendo la mano al figlio.
«Kurty? Chi è Kurty? Un tuo alunno, mamma?»
I genitori guardarono il figlio a bocca aperta. Ora Jimmy sembrava sereno, la voce era tornata tranquilla, allegra, spensierata. Anche quella strana luce nei suoi occhi si era spenta.
Poi il bambino, incrociando le braccia, li squadrò corrucciato:
«Ecco, lo sapevo… piangete perché non mi avete fatto il regalo e non sapete come dirmelo!»

Teddy

«Come mai siamo venuti in questa città, papà?»
«Volevo farti vedere dove sono cresciuto… dove abitavo quando avevo la tua età.»
La bambina era appesa alla mano del padre e lo stava scrutando dal basso verso l’alto, un occhio socchiuso per la troppa luce. Voleva capire se lui fosse triste, perché dal viso non sembrava, ma dalla voce sì.
«Vedi… qui è dove per la prima volta ho imparato ad andare in bicicletta. C’era un signore che noleggiava le bici per girare in questa zona. È un parco molto grande, pieno di verde, con passeggiate lungomare. Chi voleva ne noleggiava una, per un’ora e due, e poteva farsi un giro per poche lire…»
«Ma io so già andare in bicicletta.»
«Lo so Clara, perché tu sei brava e sai fare già un mucchio di cose…»
La bambina era felice per quelle parole. Le si stampò un largo sorriso sul volto e prese a saltellare sul posto.
«Qui invece» disse l’uomo avvicinandosi a una fontana «è dove si facevano navigare le barchette.»
«Barchette?»
«Sì, i bambini come te mettevano in acqua i modellini di barche: erano di legno, di plastica e persino di carta…»
«Erano telecomandate con il cellulare?»
«Ma no Clara, non esistevano, allora, i cellulari. Venivano spinte con le mani…»
«Con le mani? Sarà stato noioso…»
«No, Tesoro, tutt’altro…» le disse con tenerezza osservando lo stato di degrado della vasca. Le spallette di cemento erano sbreccate, il fondo della vasca, priva di acqua, verde di muffa. La sensazione era di irreversibile abbandono. Cominciava a pensare che, dopotutto, non era stata una grande idea ritornare in quella città che lo aveva visto prima adolescente e poi ragazzo. Erano vent’anni che non ci metteva più piede, da quella litigata terribile e definitiva con i suoi che da allora non aveva più visto. Voleva cercare di fare pace con il proprio passato ma era tutto diverso, estraneo: la città che ben conosceva esisteva in realtà ormai solo nella sua testa, nei suoi ricordi sbiaditi; non c’erano che vaghi punti di riferimento qua e là, ma nulla più.
Girarono ancora quasi per tutto il giorno. La bambina sembrava instancabile. L’uomo le aveva mostrato le sue scuole medie, la cappella dove aveva fatto la prima comunione, il suo quartiere di ragazzo. Nel tardo pomeriggio comprese che stava però cercando di prendere tempo. Erano arrivati a pochi passi da casa sua, dove probabilmente vivevano ancora i suoi genitori, ma non riusciva a decidersi. Forse non era ancora davvero pronto, anche solo per rivedere l’edificio da lontano.
«Ma la casa dove vivevi tu, è qui vicino, vero papà?» le domandò lei a tradimento.
«Sì, proprio dietro quell’angolo. Sei pronta a vederla?» fece l’uomo che sembrava piuttosto rivolgere a se stesso quella domanda.
«Certo, papà.»
Lui ebbe un’esitazione. Poi strinse la mano alla figlia e voltarono l’angolo.
La villetta terratetto non c’era pressoché più. Era un cantiere: solo macchine movimento terra che caricavano alacremente i detriti sui cassoni di due camion. Lui rimase senza parole. Non riusciva a credere a quello che vedeva.
«Quella è casa tua?» chiese la bambina stupita puntando il dito verso le macerie.
Ma quanto era stato via? Si domandò lui. E i suoi genitori, allora, dov’erano? Si erano trasferiti all’estero come dicevano sempre avrebbero fatto? Erano ancora vivi? Il passato gli era piombato addosso tutto in una volta e lo stava schiacciando.
«Papà… papà…» lo chiamava lei tirandogli la manica del giaccone come fosse la corda per suonare una campana. Ora la bambina si era accorta che anche il viso del papà era triste. Triste e pallido.
Lui non rispose. Si mosse lentamente verso i ruderi tenendo sempre per mano la bambina. Si accertò che nessuno degli operai stesse controllando e oltrepassò la fascia bianca e rossa che delimitava il cantiere. Si avvicinò a quella che era stata un tempo la cappa di un caminetto miracolosamente rimasto in piedi. Infilò una mano sotto la cappa e, dopo averci lavorato per un po’, estrasse alla fine un pacchetto avvolto in un foglio di giornale sporco di fuliggine. Lo scartò. Era un orsacchiotto ancora in buono stato.
«Questo l’avevo salvato il giorno in cui mio padre, buttando via tutti i miei giocattoli, aveva deciso che io ero diventato troppo grande per poterci ancora giocare. Tieni, ora è tuo. Si chiama Teddy.»

Kikimora (terza e ultima parte)

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puntate precedenti: MELITA, UNA BAMBINA DODICENNE CHE VIVE IN UN PAESINO DI CAMPAGNA DI TANTO TEMPO FA, DISUBBIDENDO ALLA MADRE CHE LE VIETAVA DI PASSARE PER UN CERTO SENTIERO NEL BOSCO PER TORNARE A CASA, SI IMBATTE NELLA TOMBA DI GRETA, UNA BAMBINA SLAVA MORTA QUANDO AVEVA LA SUA ETÀ. DALLA TOMBA, QUASI DEL TUTTO COPERTA DA FIORI FRESCHI APPENA RECISI, GRETA CERCA DI CONQUISTARE LA FIDUCIA DI MELITA REGALANDOLE UN PAIO DI SCARPE NUOVE CHE DESIDERAVA TANTO. IN CAMBIO, GRETA CHIEDE ALLA BAMBINA CHE SACRIFICHI SULLA SUA TOMbA, COME RITO PROPIZIATORIO DELLA LORO NUOVA AMICIZIA, UNA GALLINA RUBATA DAL POLLAIO DI SUA MADRE.


La bambina si lasciò convincere. Uccise la gallina con il coltello che aveva trovato tra la verbena e lasciò colare tutto il sangue sulla terra sopra alla tomba della bambina slava.
«Voglio fare ancora una cosa per te…» le disse Greta dopo un po’ ancora stordita per tutto quel sangue.
«Cosa?»
«Farò in modo che tu possa conoscere il tuo Eustorgio e farlo innamorare di te così un giorno lo potrai sposare.»
«Non è possibile! Lui è un Principe e io sono solo una figlia di contadini…»
«Non ti preoccupare questo è affar mio.»
«Sarebbe bellissimo. Davvero faresti questo per me?»
«Certo, ormai siamo amiche per sempre, ricordi?»
«Sì è vero.»
«Solo che dobbiamo prima compiere un rito…»
«Un filtro magico?»
«No, qualcosa di più potente ed efficace, perché il nostro progetto è molto ambizioso.»
«E cioè?»
«Devi portarmi il cuore della tua compagna di classe, Maria. Devi portamelo qui sulla mia tomba e io farò il resto…»
«Ma cosa dici?» fece lei allontanandosi di qualche metro.
«Pensaci, amica mia. Maria ti è antipatica e ti prende sempre in giro; la sua vita è insignificante, mentre tu, d’altra parte, potrai realizzare il tuo sogno e sposare la persona che più desideri al mondo.»
«Io non ho mai ucciso nessuno e non so neppure come si fa…»
«Non ti devi preoccupare, ti guiderò io. Vai oggi al fiume, verso le tre del pomeriggio. Maria sarà lì da sola al lavatoio a lavare i panni della famiglia. Tu avrai la scure che prenderai a casa tua… ti avvicinerai lentamente e le mozzerai il capo e subito dopo le aprirai il torace per rubarle il cuore e me lo porterai…»
«Ma è una cosa orribile…»
«È necessario, per il tuo futuro…» incalzò Greta.
Melita andò a casa confusa e sconvolta. Quando arrivò sui gradini trovò la madre piangente che l’aspettava.
«Nonna è morta» disse la donna in un soffio.
«Com’è possibile che sia morta, mamma» obbiettò la figlia «stava meglio, con le medicine che le ho dato…»
«Quali medicine?»
«Quelle che ho comprato l’altro giorno.»
«Non erano medicine, ma caramelle. Cosa mi stai nascondendo, figlia mia?»
«Ma allora, Greta…»
Sotto l’incalzare delle domande della madre la bambina cedette e raccontò ogni cosa. Non ci voleva credere che fosse stata ingannata in quel modo. Anche quando portò a far vedere alla madre le scarpe nuove non riusciva a vedere che in mano aveva solo sue scarpe vecchie e rotte.
«Te lo avevo detto di non passare dal bosco» la rimproverò ancora la madre «Greta è una strega e riesce a manipolare la tua mente facendoti vedere quello che tu desideri.»
«Oh mamma, mi spiace tanto averti mentito e di aver infranto la promessa che ti ho fatto.»
Passò del tempo e di quei fatti Melita ben presto si dimenticò.
Crebbe, e all’età di ventidue anni, si sposò con un bel giovane del posto che la portò a vivere in una casa nuova e spaziosa. Ebbe due bei figli. Un maschio e una femmina. Quando ebbe il terzo, al neonato diagnosticarono un brutto male e lei cadde in una brutta depressione.
Un mattino, nello scendere dal letto dopo una notte insonne, sentì nella sua testa:
«Ciao Melita, perché non mi vieni più a trovare? Posso ancora fare grandi cose per te. Ricordati che noi due saremo amiche per sempre.»

(fine)

Kikimora (seconda parte)

prosegue da --> Kikimora (prima parte)

puntata precedente: Melita, una bambina dodicenne che vive in un paesino di campagna di tanto tempo fa, disubbidendo alla madre che le vietava di passare per un certo sentiero nel bosco per tornare a casa, si imbatte nella tomba di Greta, una bambina slava morta quando aveva la sua età. Dalla tomba, quasi del tutto coperta da fiori freschi appena recisi, Greta cerca di conquistare la fiducia di Melita regalandole un paio di scarpe nuove che desiderava tanto.


Il giorno dopo Melita ritornò sulla tomba della bambina slava per ringraziarla.
«Mi fa piacere che ti siano piaciute le scarpe» le disse Greta sinceramente felice «sono proprio quelle che avevi visto da Mastro Cooper…»
«Sì proprio quelle…»
«Ehi, dal tono della voce, però, mi sembri triste…»
«Un pochino, ma lascia perdere…»
«Non vuoi parlare con la tua nuova amica? Perché noi siamo amiche, vero?»
«Sì… credo di sì.»
«Sei preoccupata per tua nonna, vero?»
«Esatto… ma come fai a saperlo? Ah già tu sai tutto di me…»
«E tu non sai nulla di me… è questo che vorresti dire?»
«…»
«Sono vissuta tanto tempo fa…» cominciò a raccontare Greta «…in epoca molto retriva. La gente del posto si era messa in testa che mia mamma fosse una strega e questo solo perché eravamo straniere. E per la verità anche perché un giorno lei, appoggiandosi alla mucca moribonda del vicino, l’ha guarita. E così quando una notte sono venuti a prenderla per buttarla nel pozzo prosciugato, non sapendo a chi lasciarmi, anche prelevato anche me facendomi fare la stessa fine.»
«Non è giusto…»
«No, non è giusto… e poi, dopo che mi hanno recuperato dal pozzo e seppellito qui, hanno sostenuto che tante cose brutte che sono poi successe in paese sono tutte dovute al mio desiderio di vendetta; che siccome sono una “non morta”, la vera strega, insomma, sarei io. Ma non è vero, non sono una strega… devi credermi. Sono solo una bambina innocente che è stata violentata e uccisa insieme alla madre.»
«Però mi stai parlando… e tu non dovresti, visto che sei morta, giusto?.»
«Questa è un’altra storia, Melita. Quando mi hanno buttato giù nel pozzo sono rimasta impigliata in una radice che spuntava dalla parete dell’imboccatura e sono rimasta lì a penzoloni fin che, per la fame e per la sete, sono passata in questa zona grigia di “non vita” senza morire però davvero. E nei tre giorni di ogni plenilunio, proprio perché era luna piena quando gli abitanti di questo paese ci vennero a prendere, è come se ritornassi quasi alla vita…»
«Allora abbiamo ancora poco tempo per poterci far compagnia, Greta… però non so ancora se mi posso davvero fidare di te: tu sei molto strana…»
«Non è colpa mia se mi trovo in questa condizione… Comunque perché tu possa convincerti che ti sono amica sul serio, quando oggi tornerai a casa, troverai un altro bel regalo per te.»
«Davvero?» chiese curiosa la bambina.
«Sì, certo e se ti piacerà, a suggello della nostra nuova amicizia, ti chiederò anch’io di fare una cosa per me.»
«Vuoi anche tu un regalo?»
«Sì, ma non è niente di che, vedrai… mi basta infatti solo una gallina.»
«Una gallina? E che cosa te ne fai di una gallina se sei sottoterra?»
«Tu non ci pensare: portami una gallina dal pollaio di tua madre.»
Il giorno dopo Melita tornò alla tomba con una gallina viva che si dibatteva.
«Grazie Greta per le medicine che mi hai fatto trovare per la nonna. Gliel’ho date e sta già molto meglio… sei proprio un’amica…»
«Te l’avevo detto e ora la gallina…»
«Che ci devo fare?» chiese Melita mostrando l’animale come se ci fosse qualcuno che lo potesse vedere.
«Qui accanto, a destra, tra la verbena, c’è un coltello» spiegò Greta tutta eccitata. «Devi ucciderla e fare in modo che il suo sangue penetri bene nella terra dove sono sepolta.»
«Non farò mai una cosa simile…» rispose inorridita la bambina «…e poi con una gallina di mia madre!»
«Ti prego, pensavo fossimo amiche…»
«Se mi chiedi di fare questo, allora sei una strega davvero…»
«Ma no, che dici… è solo un’antica usanza slava cui tengo tanto: quando sboccia una nuova amicizia, perché sia per sempre, nel mio Paese, in Transnistria, bisogna sacrificare del pollame… e noi vogliamo essere amiche per sempre, vero?»
«S-sì, certo, così almeno credo…»
«Vedrai, ti farò trovare tanti soldi sugli scalini di casa e così potrai comprare altre medicine per la nonna e, al mercato, una bellissima gallina per tua madre. Non se ne accorgerà neppure della sua sostituzione. Ti prego, Melita, non c’è più tanto tempo.»

terza e ultima parte domenica prossima --> Kikimora (terza parte)