Se devo reiterare una similitudine, una metafora o enfatizzare un’aggettivazione incalzante od ogni altro elemento della frase (come anche una semplice elencazione), ripeto l’elemento stesso tre volte. Non due o quattro, ma tre. La scelta è quindi o di lasciare l’espressione sola a sé stessa o di reiterarla (in modo differente si intende) tre volte.
Faccio un esempio tra i miei scritti.
Nel racconto –> Libero Ascolto scrivo:
C’era adesso una bella ragazza, giovane anche lei, ma dal modo di fare avvolgente, dolce, attento.
Avrei potuto fermarmi all’aggettivo avvolgente ma la necessità di prolungare la descrizione della ragazza per darle una (per me) giusta enfasi mi ha portato a inserire altre aggettivazioni che ho indicato appunto (in totale) in ordine di tre. Se si fa attenzione, due aggettivi sarebbero stati pochi, insufficienti e quattro decisamente troppi, debordanti.
Nell’altro racconto il discorso è analogo –> Era stato il suo sogno.
(Era alto, allampanato, magro da far spavento, i capelli corti che mancavano sulla testa spuntavano dalla nuca sulle spalle; gli occhi erano azzurri e gelidi, una vecchia lampada ad olio accesa in mano.)
Infine (giusto per rispettare anche qui la Regola appena enunciata, ma gli esempi potrebbero essere molteplici applicandola io, come ho accennato, molto spesso) nel racconto –> È tempo di violette.
(«Si sentono i mille racconti del mare e le infinite parole sussurrate e quelle naufragate nel silenzio delle notti senza luna…» recitò concentrato.)
Non è una questione legata al fatto che il tre sia considerato un numero perfetto (–> Perché il numero tre è considerato perfetto?), ma è per il fatto di esaurire il concetto espresso, l’accentuazione che si vuole introdurre in quel determinato passaggio, senza travalicare lo scorrere del racconto rendendolo prolisso o, sul lato opposto, spoglio e scarno.
Certo, non attenersi a questa indicazione non significa scrivere in modo stilisticamente non corretto, è evidente (per di più si tratta di un mio vezzo personale), per quanto mi piace pensare che anche nella scrittura esista il concetto di sezione aurea (per saperne di più –> Sezione aurea), vale a dire quel rapporto (preciso) tra le parti interne di un tutto che, tra l’altro, consente a chi guarda (o legge) quanto creato e di percepirne la bellezza (a volte senza capirla) quanto meno attraverso l’armonia della sua composizione.
La regola del Tre permette allora, a mio avviso, di far percepire l’armonia intrinseca tra le varie parti del testo che può diventare (grazie, per la verità, anche ad altri accorgimenti) fluido, proporzionato, di agevole lettura e formalmente piacevole al di là del suo contenuto.
È una regola che del resto ci si imbatte facilmente leggendo sia i testi classici che non.
A parte l’esempio del “Chiare, fresche et dolci acque” di Petrarca voglio ricordare più prosaicamente un passaggio di Andrea Camilleri nel libro il Cuoco dell’Alcyon a pag. 128 (ed. Sellerio, 2019) dove, nel descrivere gli effetti di una eclissi di luna, scrive (–> Cuoco dell’Alcyon, Camilleri):
Lontano, un cani abbaiò. La vita stava ripigliando doppo ‘na sospensioni, un fermo, un momento di non vita. Si susì a mezzo. I granci non c’erano schiù, s’erano affrettati a scavarisi la tana sutta alla rina e di sicuro la fila di formicole supra alla ringhiera aviva ripigliato a corriri avanti e narrè.
Un altro esempio, infine, (ma davvero potrebbero essere infiniti) è quello che si può leggere in Acciaio di Silvia Avallone pag. 166 (ed. Rizzoli, 2012) –> Acciaio, Avallone:
Neppure una volta era andato alle urne a votare, e quando a cena gli capitava il telegiornale, con i morti, le guerre, le stragi, lui cambiava subito canale.
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IN CONCLUSIONE
Dunque, ricapitolando, di cosa si è parlato in questa pagina:
si tratta della Regola del Tre (reiterazione esemplificativa di una espressione narrativa), una tecnica compositiva semplice quanto efficace poiché agevola, se usata con oculatezza, l’armonizzazione interna delle frasi.
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