Di solito mi scrivo le tracce (anche con poche parole) su un apposito file del computer, ma questa volta, essendo in giro vestito da inuit, ho trovato evidentemente più comodo fare questa puntuazione di fortuna sul cellulare dove è rimasto del tutto dimenticato sino a ieri quando l’ho riletta per caso.
Zheb è contrazione di Baʿal zĕbeb o Baʿal zĕbūb (“Signore delle mosche”) che è tradizionalmente il sinonimo del demonio o Belzebù, anche se si ritiene che questo sia in realtà il nome del fratello di Satana (per un approfondimento –> Beelzebub). In verità con il racconto ho voluto dare più propriamente espressione non a un episodio di una persona semplicemente indemoniata quanto piuttosto di un soggetto schizofrenico in fase peraltro molto acuta.
Se tuttavia, per un attimo, ci si astrae dal quadro clinico della schizofrenia, il passaggio mentale per ritenere il personaggio del racconto come indemoniato (fino al Settecento lo avrebbero probabilmente ritenuto tale), è molto breve il che consente di caricare il pathos del racconto anche di questa ambiguità di fondo.
La morte del personaggio nel racconto è da attribuirsi in realtà al suo suicidio ancorché vissuto in un contesto ideativo fortemente alterato dalla propria malattia che gli ha fatto credere di essere ucciso da una donna a sua volta “abitata” da una presenza simile alla sua.
L’immagine di apertura del racconto è stata scaricata da Internet.
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