Dolly varden (seconda parte)

Dolly varden

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«Bravissimo Ziro… hai preso proprio una gran bella trota» gli disse il padre mentre si avvicinava.
Il bambino era soddisfatto. Aveva fatto una cosa da grandi e suo padre era fiero di lui.
«Ma guarda che bella!» fece ancora Ken mentre staccava il pesce dall’amo rimirando la cattura. Il contatto con l’aria gelida che aleggiava sul lago aveva già avuto la meglio e ormai la trota non si muoveva più.
«Ho… ho visto anche un’altra cosa, papà…» fece Ziro poco convinto.
«Cosa, Ziro?»
«Ho visto spuntare dal buco il muso di una foca.»
Il padre lo guardò incredulo. «Non ci sono foche nel lago Minchumina, Ziro, né in nessun altro lago dell’Alaska. La foca vive in mare.»
«Ti giuro, l’ho vista.»
«Non è possibile, non vivrebbe nell’acqua dolce, l’avrai scambiata semmai per una lontra o qualcosa di simile, non poteva essere una foca.»
«Ti assicuro, era una foca, papà, e andava dietro al mio pesce…» insistette il bambino agitandosi «perché non mi credi?»
Quando il figlio si comportava il quel modo, Ken non sapeva cosa fare. Si sentiva impotente, inutile. ‘Se ci fosse sua madre saprebbe di certo come calmarlo‘ pensò lui rattristandosi. E tra i due cadde il silenzio.
L’uomo catturò altri pesci che si stavano ammucchiando accanto al foro. Cominciava a essere una buona scorta. Poi il padre si alzò in piedi.
«Riprendila tu la lenza, Ziro. Vado a cercare quel matto di Scotty. Sono più di due ore che si è allontanato e non vorrei avesse fatto qualche brutto incontro.»
Il bambino agguantò la lenza piazzandosi al posto del padre che, prima di inoltrarsi nella boscaglia con il fucile, si voltò a osservarlo: ora appariva tranquillo e sicuro di sé, ne era felice.
Trascorsero alcuni minuti ed ecco che il bambino avvertì un’altra vibrazione tra le dita. Era un giorno fortunato, pensò Ziro, e si mise a tirare. Sembrava la stessa scena che gli era accaduta prima. E non aveva fatto in tempo ad issare la trota appena presa sul bordo del buco che si affacciò ancora il muso acerbo del piccolo di foca che aveva già visto. Solo che questa volta non si reimmerse subito. Se ne stette in superficie aiutandosi con le pinne anteriori. Ziro lo squadrò: non sapeva come comportarsi in una evenienza simile. Però era tanto carino e buffo. Si tolse allora un guanto e lo accarezzò sul muso mentre il piccolo di foca, per nulla spaventato, se ne rimaneva in quella posizione, in precario equilibrio, a prendere le coccole.
«Sembri affamata…» le disse dopo qualche secondo. Poi Ziro non resistette più e le allungò il pesce appena preso: in pochi attimi la foca lo divorò. Il bambino sorrise accarezzando ancora la bestiola che ora emetteva versi gutturali socchiudendo gli occhi; e le diede in aggiunta anche la prima dolly varden che aveva pescato. Anche quella, in un attimo, sparì nella bocca del piccolo che, dopo aver sgranocchiato ancora per un poco, eseguì una piroetta e si tuffò.
Ziro stava ancora sorridendo per quanto era successo quando, in rapida successione, uscirono dal buco altre tre piccole foche, probabilmente i fratellini della prima. Agilmente si protesero oltre l’orlo del foro afferrando tutte le altre trote catturate dal padre senza lasciarne neppure una. Appena tutto fu finito Ziro, che non era stato in grado di opporsi, stante la rapidità con cui la scena si era svolta, si rese conto del pasticcio che aveva combinato. All’improvviso aveva realizzato che il padre non gli avrebbe mai creduto e si sarebbe arrabbiato moltissimo con lui; probabilmente non l’avrebbe più portato con sé a pesca. Cercò di pensare velocemente a delle scuse plausibili. Avrebbe potuto dire che il ghiaccio aveva ceduto in quel punto e che le trote erano cadute nel lago; ma no, avrebbe dovuto allargare il buco e non sapeva come fare. Avrebbe potuto raccontare che qualche predatore era passato di lì e se le era portate via; già, ma in questo caso avrebbe potuto difendersi con il pugnale che il padre gli aveva regalato e che aveva alla cintola. Ecco sì, forse aveva trovato: poteva dire che essere stata la dispettosa Strega delle Foreste: era arrivata all’improvviso, l’aveva preso in giro e, sotto la minaccia di un incantesimo, aveva rubato tutto… Anche se da un po’ aveva il sospetto che quella della strega era tutta una balla raccontatagli dai grandi per farlo star buono.
Se ne stava disperato a rimuginare sul da farsi quando sentì degli spari e la voce concitata del padre che stava tornando indietro correndo e urlando. Si alzò in piedi per guardare meglio. Poi scorse il padre:
«Presto Ziro, corri, lascia tutti lì… vieni via… un orso ha sbranato Scotty e ci sta inseguendo… ho finito le munizioni… corri, corri!»

Dolly varden (prima parte)

Il vento era finalmente calato ed era uscito un sole incerto. Insufficiente per far salire la temperatura già molto sotto lo zero.
Ken e il piccolo Ziro pensarono comunque che fosse un’ottima occasione per andare a pesca sul lago ghiacciato. Erano stanchi di mangiare la solita carne di alce e un po’ di pesce avrebbe contribuito a variare la dieta.
Partirono al mattino presto. Il sole era immobile sull’orizzonte e quando alla sera se ne sarebbero andati sarebbe stato ancora lì, nello stesso punto esatto, come in un fotogramma rotto. Ken trascinava l’avvitatore con cui avrebbe fatto il buco nello spesso strato di ghiaccio, mentre Ziro portava le lenze che seppur vecchie e sbiadite erano ancora tenaci e robuste. Scotty, l’indisciplinato vecchio malamute, li precedeva come sempre trotterellando sicuro di sé perché tanto sapeva dove si sarebbero diretti.
Una volta arrivati, ci volle quasi mezz’ora a Ken per praticare un foro che fosse sufficiente per far passare il pesce. I tentativi furono molteplici sia per lo spessore dello strato sia perché il buco si righiacciava facilmente. Intanto Ziro si era affrettato a costruire una sorta di riparo tutt’intorno con rami e foglie. Sarebbe stato più semplice ripararsi dalla brezza fredda che spirava a tratti sul lago e resistere così fino a sera.
Trascorse un paio di ore. La natura sembrava rattrappita in quella morsa di freddo e una nebbiolina eterea si aggirava furtiva sulla cima dei cedri come un fantasma inquieto. Ma fu solo quando Ken cambiò esca, una sorta di impasto con pane di mais, radice essiccata di fireweed e chissà cos’altro, che cominciò a prendere un pesce dopo l’altro. Non erano grandi quelle dolly varden, per via della stagione, ma era meglio di niente. La giornata comunque prometteva bene. L’uomo aveva una grande esperienza per quel tipo di cattura; teneva ben salda la lenza tra le punta delle dita, inginocchiato sull’orlo del foro, e bastava anche solo un leggero tentennamento della lenza per capire se aveva abboccato.
Ziro dal suo canto non perdeva d’occhio il padre: stava attendo ad ogni suo minimo gesto. Sapeva bene che un giorno la sua sopravvivenza avrebbe potuto dipendere proprio da quegli stessi gesti. Scotty invece era già sparito, probabilmente era in giro a dar fastidio ai nidi di edredone.
«Vieni, prosegui tu» disse a un tratto il padre alzandosi in piedi e tendendo la lenza a Ziro.
Il figlio, prima sbarrò gli occhi, poi si mise le mani dietro la schiena scuotendo la testa.
«Dai, prendi questa lenza, devi imparare, io vado a fumarmi una sigaretta… non posso farlo qui vicino ai pesci avvertono l’odore di fumo…» mentì.
Ziro chiese, anche se solo con l’espressione del volto, se dovesse davvero farlo. Il padre gli sorrise e gli mise ancora più vicino la lenza a toccargli il piumino consunto. Il bambino la afferrò e si inginocchiò vicino al foro, così come aveva visto fare tante altre volte.
«Bravo, così…» lo incoraggiò Ken spostandosi di diversi metri e sedendosi con la schiena a ridosso del tronco di un cedro giallo. Era fiero di lui, sarebbe presto diventato un uomo. Vide che era concentratissimo tanto che non appena sentì vibrare tra le mani la lenza reagì subito serrando forte. Il bambino sentì la trota all’amo che stava cercando di andare verso il profondo dello specchio acqua, ma non si fece prendere alla sprovvista: piantò i piedi e oppose resistenza.
«Papà, papà, ha abboccato, aiutami presto!»
«No, Ziro è tutto tuo, ha abboccato alla tua lenza e tu devi tirarlo a riva…»
«Ma no, papà… ti prego… non so come si fa…» supplicava lui tenendo la lenza con tutte le sue forze.
Il padre capì che quello era il giorno in cui suo figlio si sarebbe dovuto far valere misurandosi con il suo primo pesce; così non si mosse dal suo posto e finì di gustarsi la sigaretta.
Ziro protestò ancora ma poi, visto che il padre non si muoveva, si mise ancor più di impegno; dopo venti minuti il muso di una ragguardevole dolly varden si affacciò boccheggiando dal foro. Con un ulteriore sforzo Ziro diede un ultimo strattone e la trota scivolò di lato contro i rami del riparo. Quello fu anche l’attimo in cui il bambino vide spuntare dal foro anche il muso inconfondibile di una foca, di un cucciola di foca, per l’esattezza. I due si guardarono per un lungo interminabile momento in modo interrogativo. La foca, delusa di essersi vista scippare la preda, Ziro di vedere una foca in un lago. Pochi secondi dopo la foca si reimmerse sparendo nell’acqua gelida.

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Sogni sotto un sasso

«Ho dormito malissimo.»
«Sì, ho sentito che ti sei agitato molto questa notte… i soliti incubi?»
«Sì e peggiorano sempre di più. Appena mi addormento sogno di aver dimenticato delle scadenze importantissime; mi arrivano solleciti carichi di minacce per adempimenti oscuri, incomprensibili cui non riesco neppure a pensare di poter porre rimedio perché sono complicatissimi tanto da non essere in grado di ricostruirne la difficoltà e di venirne a capo; mentre poi mi accorgo che in verità sono il solo a non sapere cosa si debba fare per risolvere il problema essendo circondato infatti da chi invece lo ha già risolto e mi guarda scuotendo il capo in segno di biasimo per i miei ingiustificabili ritardi.»
«Io te l’ho già detto: devi farti vedere, non puoi continuare così… diventerai matto se non lo sei già…»
«Grazie, mi sei di conforto… Ma ciò che per me è più cupo e angosciante è che quando mi sveglio tutto ciò che sembrava avere una logica, una ragione, un perché, a poco a poco svanisce facendomi rendere conto che la realtà che ho vissuto fino a pochi attimi prima altro non era se non un incubo angoscioso. Sogno di un mondo indecifrabile, fatto di oggetti, persone, situazioni che non conosco e che non mi appartengono. Mi giro e mi rigiro, riaddormentandomi, e subito, la logica del sogno riprende il sopravvento, la realtà che mi era estranea da sveglio diventa la mia solita e la sola realtà e riprendo a tormentarmi in relazione al perché io non stia facendo nulla per rimediare alle mie imperdonabili mancanze, perché non metto a tacere chi mi rimprovera e mi esorta di fare questo e quello. E così via fino al prossimo risveglio o al prossimo sogno. Un labirinto di verità vere e di verità false da cui non riesco a uscire. Insomma, man mano che passa il tempo faccio sempre più fatica a distinguere il sogno dalla realtà e la realtà dall’incubo.»
«Basterebbe però che tu ti guardassi attorno per capire bene cosa è l’incubo e cosa è la realtà. Tu sei tu e il sogno è solo una proiezione del tuo subconscio: è qualcosa che non sei… La tua realtà è infatti ora qui con me.»
«Fai presto tu… ti sto dicendo che realtà e incubo hanno ciascuno una loro logica ineccepibile; sia l’uno che l’altro sembrano assolutamente veri quando vi sono in mezzo; quando sogno è la realtà a sembrare inaccettabile e quando sono nella realtà lo è il sogno… Ammesso che sappia ancora qual è l’una e quale è l’altro. Mi ricordo anche che mi dicevi proprio questa tua frase di poc’anzi: ‘la realtà è ora‘ e sono sicuro che in quel preciso istante stavo sognando.»
Rimasero in silenzio. Ognuno dei due avrebbe voluto che l’altro trovasse nuovi e diversi argomenti per continuare il proprio discorso. Ma non ce n’erano.
All’improvviso un chiarore accecante riempì l’aria. Il sole si abbatté su di loro come una scure.
«Papà, papà… guarda che cosa ho trovato sotto questo grosso sasso…»
«Fai vedere, Bepi! Caspita che bei lombrichi cicciottelli… prendili entrambi e mettili nel contenitore: vedrai che grosse trote prenderemo…»
«Sì papà, subito papà.»
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Questo racconto è stato inserito nella lista degli Over 100.
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Una pesca spettacolare

(segue dal precedente post “La festa del passero montano”)

Wang Qi Shi si stava voltando verso il gruppo per invitarlo a unirsi alla festa quando si accorse che dietro a lui non c’era più nessuno. Tutti i gitanti, alla spicciolata, se ne erano già andati. Tutti tranne ovviamente Gregorio che gli sparò a bruciapelo l’ennesimo «e allora quando si mangia?»
Alla corriera, gran parte dei lughesi aveva evidenti disturbi di natura neurovegetativa per non aver gradito lo spettacolo. Per fortuna alcuni insulti in stretto dialetto di Poggiobrusco e dintorni sfuggì all’orecchio attento della guida che, per risollevare gli animi, visto che ormai era passata l’una e il pranzo a base di passeri era sfumato, propose:
«Vi va di mangiale pesce?» Gino e Rosa che si tenevano ancora per mano lo guardarono con sufficienza come se avesse fatto una battuta. Il resto del gruppo mostrò un tiepido interesse. «Bene allola è deciso. L’unico ploblema è che dovlete spingele colliela, ma solo poco poco, poi tutta discesa, fino a paese Do Nheng, dove essele case di pescatoli, voi mai visto, poco lontano da qui. Tanta gente, tanti cololi, e poi tanto pesce, tutto glatis…»
Di mala voglia la comitiva si mise a spingere la pesante corriera sotto una canicola terribile che sembrava voler liquefare la strada sterrata. «Spingete, spingete ancola, con più nelbo, folza, folza miei plodi!» gridava Wang Qi Shi dal suo posto di guida cercando di assecondare i movimenti del mezzo come fosse stato su un cavallo. La corriera, cigolando, si mosse lentamente. Il prof. Locatelli stramazzò un paio di volte al suolo, mentre Ada e Pina, lo calpestarono duramente, senza smettere però di sferruzzare e spingendo di schiena. I tre sordomuti, per poter comunicare tra loro a gesti, ogni tanto smettevano di spingere sicché la corriera tornava indietro, mentre Don Rosario, della cui presenza nessuno fino a quel momento si era accorto, seguiva a capo chino il gruppo, assorto nella preghiera. Poi, pian piano, la corriera prese la discesa e tutti, in modo più o meno elegante, riuscirono a salire a bordo. L’ultimo fu Gregorio che si era attardato a osservare il seno prosperoso di Matilde ballonzolare nella corsa.
«Yappiiiiii» gridava Wang Qi Shi a ogni curva.
«Rallenti, per l’amor del cielo, rallenti» dissero Gino e Rosa all’unisono.
«Macché lallenti! Conosco queste culve come mie bisacce!» fece il cinese sempre più entusiasta, «potele fale stlada anche a occhi chiusi…»
E infatti chiuse gli occhi. La corriera carambolò giù dal costone a imitazione di una pallina del flipper atterrando sul molo di Do Nheng come un proiettile. Per il contraccolpo Wang Qi Shi fu trovato incastrato sotto il sedile di guida dove ritrovò alcuni nichelini di un precedente tour, mentre le due donne anziane, con i rispettivi ferri da maglia, si erano infilzate il rispettivo cappellino con la veletta nera. Solo Gregorio era atterrato sul seno verace di Matilde cercando di non respirare perché la ragazza non rinvenisse troppo presto.
«E allora quando si mangia?» chiesero questa volta i tre sordomuti gesticolando in modo inequivocabile e fiutando l’aria alla ricerca di un ristorante.
«Appena pescato pesce» disse trionfante il cinese come se se lo fosse inventato lì per lì. Lo sguardo bieco e vendicativo del gruppo si concentrò sulla guida.
«Dovremmo a quest’ora metterci qui, sotto questo sole, con le canne, a pescare il pesce?» chiese il prof. Locatelli arricciando il naso nel tentativo di supplire alla perdita degli occhiali.
«Canne da pesca? Quali canne da pesca? Ah ah, tu simpatico… A Do Nheng il pesce lo cattulano lolo…» e indicò alcuni uccellacci appollaiati sulle barche. Dopo pochi minuti tutti gli ospiti avevano già preso posto su piccole imbarcazioni traballanti con ciascuna un cormorano sulla prua che scrutava l’orizzonte come un nostromo. Il prof. Locatelli, che non ci vedeva più niente, aveva preso per il becco il suo cormorano e lo agitava a destra e a sinistra pensando fosse il timone. «Vado bene così?» ripeteva in continuazione senza ottenere risposta. Ada e Pina, che avevano finito finalmente il maglione, lo stavano invece provando mettendolo addosso al loro cormorano, commentando il lavoro. Gregorio, che aveva issato sulla barca Matilde ancora svenuta, visto che il suo volatile si era invece tuffato già tre volte, considerava la cosa molto promettente pregustandosi una grigliata mista. Purtroppo nessuno aveva posizionato gli appositi anelli al collo degli uccelli per impedir loro che il pesce ingoiato finisse nello stomaco. Così ben presto i cormorani si rifiutarono di truffarsi visto che avevano la pancia piena.
«Agita bene tuo uccello» suggerì allora la guida a Gregorio per far uscire dal becco i pesci ingurgitati. Matilde, rinvenuta in quel momento, a sentire l’invito del cinese e riscoprendosi da sola con quel maniaco di Gregorio sulla barca, si tuffò a nuoto e di lei non si seppe più nulla. Gregorio per un po’ ci rimase male, ma poi la fame prese il sopravvento. E avendo preso sul serio la raccomandazione della guida, afferrò per il collo il suo cormorano scuotendolo come un melo. «Molla il pesce, molla il pesce, puzzone di un volatile». Il cormorano, oramai violaceo per un principio di asfissia, sputò l’ultimo branzino ingoiato in ordine di tempo. Gregorio lo raccolse ancora vivo e lo esibì come un trofeo. E subito il suo cormorano, con un preciso colpo di becco, glielo staccò di mano insieme al costosissimo rolex. Solo don Rosario riusciva, con aria benedicente, a far saltare i pesci nella sua barca sotto l’occhio incredulo della comitiva. Poi, dopo aver moltiplicato i pesci, ne distribuì volentieri anche agli altri.
Nel frattempo si era fatto sera e il gruppo era stremato dalla fatica. Qualcuno chiese di essere portato nel più vicino albergo per riposarsi.
«Ma siete già nel vostlo letto» disse radioso il cinese indicando le rispettive barche. I gitanti erano troppo stanchi per protestare e ciascuno si raccolse nel ventre umido della propria imbarcazione dove si addormentò all’istante.
La luna si alzò lentamente nel cielo, illuminando un paese da fiaba, mentre sulla pancia prominente del prof. Locatelli si piazzò un’enorme rana delle paludi che si mise a gracidare nei rari momenti i cui l’uomo non russava, eseguendo così un duetto che rimase indimenticabile.
«Come mi piace questo lavolo» sospirò il cinese intenerendosi. «Un’altla giolnata spettacolale.»

Una pesca miracolosa

L’uomo si ritrovò in strada trascinato dal suo cucciolo. La passeggiatina delle nove di sera, con il freddo pungente, proprio gli pesava. La piazza era vuota, immersa nella semioscurità, come si conviene in una serata di febbraio. Teneva ancora il cagnolino al guinzaglio, l’uomo, quando andò a sbattere contro uno strano oggetto che penzolava dall’alto. Si aggiustò gli occhiali, guardò meglio. Era una lenza con uno spesso finale di acciaio, come quelli che si usano in alto mare per la pesca ai barracuda. E all’amo era attaccata a mo’ di esca una banconota da 50 euro. L’uomo cercò di scorgere da dove provenisse, ma era buio e non si vedeva niente. Certo la cosa era strana. Si trovava proprio in mezzo alla piazza, lontana da qualsiasi palazzo, né si sentiva rumore di un elicottero o di qualsivoglia altro mezzo meccanico che si trovasse nella zona. L’uomo si guardò attorno, era molto titubante: poi, con un gesto molto svelto, si mise a staccare la banconota. Nel preciso istante in cui faceva questo, la lenza venne ritirata con uno strattone e l’uomo, rimasto agganciato al braccio, in un lampo sparì tra le nuvole con il cucciolo ancora al guinzaglio.
Verso le due di notte, proprio mentre passava di lì un ragazzotto appena uscito da un pub, la lenza venne calata nuovamente. Il ragazzo si spaventò per averci sbattuta la faccia. Imprecò, ma si calmò subito nel vedere che, dal grosso amo, penzolavano due banconote da cento euro. Esaminò la questione con circospetta attenzione. Ci girò un po’ intorno scrutando più volte il cielo. Era evidentemente una trappola. Con un gesto repentino si attaccò al filo con tutto il peso del corpo tirandone giù diversi metri. Quindi attorcigliò rapidamente più volte la lenza attorno a un segnale stradale, fece diversi nodi e poi, soddisfatto della sua trovata, afferrò le banconote. Il quello stesso momento venne però ferrato con forza. L’amo gli si conficcò in pieno petto e in un soffio, sia lui che il segnale stradale, sparirono tra le nubi.
La stessa cosa si ripeté alle prime ore del mattino quando già si era messo a piovere: vittima una signora anziana che, da sotto l’ombrello, vide spuntare cinque banconote da cento euro, cui non seppe resistere. E siccome alla sparizione spettacolare della donna (e del suo ombrello) assistettero allibiti anche due netturbini, la voce si sparse fulminea in paese, tant’è che, appena fece chiaro, si radunò nella piazza una folla consistente di curiosi che si misero a scrutare il cielo.
«Saranno gli alieni?» azzardò un signore distinto che si riparava dalla pioggerellina con una mano.
«No, è nostro Signore» rispose una signora grassa con una scollatura generosa. «Ci punisce per la nostra avidità.»
«Ma che stupidaggine! Nostro Signore ha ben altro da fare che pescare voi gonzi» sentenziò un altro che aveva l’aria si saperla lunga. «È solo qualche buontempone che si burla di noi. C’è qualche trucco sotto, come sempre.»
Passarono ore senza che succedesse nulla. Poi, nel pomeriggio, quando la piazza era gremita di persone, qualcuno urlò:
«Ecco, sta arrivando la lenza, sta arrivando, fate attenzione!»
Ma non era lenza. Dapprima cadde il segnale stradale, poi l’ombrello e da ultimo il cucciolo che si infilò dritto dritto nella generosa scollatura della signora di prima. Ci volle quasi un quarto d’ora per tirarlo fuori di lì. Aveva già un principio di soffocamento.