Conan il Giamaicano

giamaicaIl giovane giamaicano entrò nell’ufficio del dr. Enea Frangi abbassando il capo.
Era alto un’esagerazione, perlomeno dieci centimetri in più dell’architrave della porta. Fece ingresso con andatura imponente, di gran carriera, come se stesse entrando da vincitore acclamato in uno stadio di atletica. Senza alcuna fatica, si stava trascinando i Carabinieri della scorta che, impuntandosi con il volto teso allo spasimo di chi tiene al guinzaglio una locomotiva, stavano cercando di contrastarlo trattenendo la catena delle manette da traduzione. Passato il ragazzo, i due militi, giusto all’altezza della soglia, si spiaccicarono simultaneamente, naso contro naso, con un colpo secco che ricordò lo scocciare delle uova.
Quando lo vide, il GIP, cominciò ad avvertire, seppur in modo lieve, quel tic alla guancia che spesso lo prendeva quando si sentiva in difficoltà.
«Si accomodi, prego…» disse Enea con la voce che gli si strozzava in gola per aver dovuto ruotare la testa verso l’alto; le sue parole risultarono comunque appena appena percettibili, quel tanto che era necessario per non disturbare l’energumeno che stava incombendo.
L’uomo di colore, strattonando i Carabinieri che erano rimasti incastrati tra gli stipiti, senza profferir parola, si abbandonò disordinatamente su una sedia, la quale, sotto il suo peso intollerabile, trapassò in un gemito implorante pietà.
Con uno spiritoso ciuffo sul nasino camuso, incartata in un vestitino spumeggiante a motivi floreali, come se fosse un pacchettino regalo, con addosso tre chili di oro in bracciali, catenelle, ciondoli, anelli e ninnoli vari, l’Avv. Matilde Spazzamare, si addentrò sfarfalleggiando nella stanza, accovacciandosi, in un concerto di tintinnii argentini, sulla seggiola vicina al Gigante nero.
Enea la spiò sottecchi, poi, a tradimento, l’aggredì:
«E’ con lei quel bambino?»
«Quale bambino? Oh cielo, maccheddice dottore, io sono signorina, non ho bambini!» cinguettò l’Avvocatessa che, volgendo il capo da un lato e dall’altro, intonò una melodia d’albero di Natale carico di palline e decorazioni.
«Ma perbacco quello lì, nell’angolo, che ci sta osservando con un’espressione truce e…»
Il giamaicano e la Spazzamare si guardarono interdetti.
Il Giudice, nell’imbarazzo generale, iniziò a sudare freddo; schiaritasi più volte la gola, facendo finta di nulla, proseguì:
«Allora… lei si chiama…»
«Matilde Spazzamare, dottore…» rispose pronta il difensore schermendosi dietro uno spazzolio di ciglia finte.
«Lo so benissimo come si chiama lei dottoressa… lo stavo domandando al suo cliente…»
«Ah… mi scusi…»
Il giamaicano, con lo sguardo conficcato nella moquette, il volto nascosto sotto una cascata di piccolissimi capelli ricci corvini e polverosi che non dovevano aver mai conosciuto né uno shampoo, né tanto meno un pettine, non rispondeva…
«Lei capire cosa noi dire…» chiese con un soffio melodioso la Spazzamare al giovane. Questi, scoccando un’occhiata stupratrice che si attestò sulle tette da schianto della donna, le sparò in perfetto italiano:
«Perché parla in modo tanto cretino?» poi, rompendo gli indugi e grattandosi a fondo il cuoio capelluto, si rivolse grintoso ad Enea: «John Prince Conan Doyle, nato a Kingston il 12 gennaio 1964… cittadino del mondo… di religione asceta… adesso posso andare…?»
Il GIP non sembrò raccogliere la domanda. Era ancora preso dal senso di schifo suscitatogli dal fatto che il Vagone nero, dopo aver spremuto tra le dita ciò che aveva raschiato via dal cranio, se lo era portato alle labbra per sgranocchiarselo con gusto. Il tic alla guancia destra si stava progressivamente estendendo alla radice dell’occhio.
Pure la Spazzamare, del resto, non stava meglio: la pupilla le si era dilatata evidenziando sul viso una smorfia contratta, non potendo credere di aver visto quello che aveva appena visto.
«Bene…» mormorò Enea, mentendo in maniera spudorata.
«Bene…» rispose Conan Doyle, rilassato.
«Bene…» fece eco la Spazzamare, lottando contro il desiderio di vomitare.
«Ascolti, lei è stato arrestato per spaccio di hashish…» interrogò il Giudice tentando di incrociare lo sguardo del difensore per fulminarla avendo osato interferire.
«Ma non esiste…» interruppe il giamaicano.
«Cosa non esiste?» incalzò Enea.
«Già, cosa non esiste?» rimbombò la Spazzamare.
«Per favore, dottoressa, non interroghi l’indagato…» sbottò contrariato il Giudice.
«Già non mi interroghi dottoressa…» ribatté Conan Doyle.
«Per cortesia, non parli con l’Avvocato» disse di rimando il Giudice al giamaicano.
«Già non parli con me…» rimbrottò la Spazzamare.
«Bene…» sbuffò Enea.
«Bene…» rispose Conan Doyle.
«Bene…» fece eco la Spazzamare.
«No, così non va, ricominciamo tutto daccapo…» si spazientì Enea nel tentativo mal riuscito di dominare il moto involontario e scomposto che si era impadronito anche della guancia sinistra.
A queste parole la Pertica nera, d’un tratto, si levò, trascinandosi di nuovo i Carabinieri che, ripresisi a mala pena dalla strenua lotta precedente e sentendosi sollevati di peso per aria, avevano cercato di riorganizzare una qualche resistenza, attorcigliando veloci la catena delle manette attorno ad una libreria a muro, avvinghiandosi nel contempo con le ginocchia anche ad un armadio-cassaforte.
«Ma dove va…?» l’apostrofò Enea con una battuta che gli uscì querula.
«Cominciavo daccapo, da quando cioè sono entrato… l’ha detto lei…»
«Ma insomma si sieda, per favore, e mi risponda!… stia calmo!»
«Sono calmissimo!»
«Dunque, su questo rapporto, c’è scritto… c’è scritto che… che… dov’era il punto… ah sì… che lei è stato sorpreso con tre etti di hashish occultati nelle mutande…»
«Oh cielo…» sospirò la Spazzamare.
«Ma non esiste… dottore, non esiste… sono stati i Carabinieri, piuttosto, che per arrestarmi… me ce l’hanno schiaffato dentro!» blaterò infastidito Conan Doyle che, raspandosi ancora tra i capelli bisunti e appiccicosi, aveva appoggiato sulla scrivania un qualcosa, che munito di zampette e antenne, stava marciando, con fare minaccioso, in direzione di Enea.
«Veramente ci sono delle testimonianze. Almeno tre tossicodipendenti sostengono che hanno comprato la droga a più riprese da lei pochi minuti prima del suo arrosto… uhm, volevo dire arresto…» contestò il GIP che stava fissando, con viva apprensione, la bestiola pelosa che proseguiva nel suo cammino.
«Sono loro che me l’hanno venduta a me… sa son tossico questi infami, ‘sti ricottari, ‘sti ciucciabirilli del cacchio, si son voluti vendicare di me perché non gliela volevo pagare… e anche perché son nero e son extra…»
«Extra…???»
«Extracomunitario dottore… extracomunitario» spiegò con tono rassicurante Conan Doyle mostrando due file interminabili di denti da squalo: poi, allungando un braccio chilometrico, con estrema naturalezza, schiacciò, con il palmo aperto della mano, l’insetto pressoché prossimo ad Enea che, per difesa, si era arricciato sulla poltrona. Dal corpicino cinereo e ispido, investito in pieno da una mano dell’ampiezza di una racchetta da tennis, partì uno stridulo squiiiich e un susseguente schizzo di liquido giallastro e schiumoso che si allargò sul cristallo del tavolo.
«Ahg!!!» esclamò con ribrezzo il Giudice deglutendo fragorosamente, mentre la Spazzamare si era tappata la bocca con una mano per non urlare «… e allora il tortello, volevo dire il coltello, che le hanno trovato indosso?!?» continuò il GIP in evidente stato di agitazione persino verbale «non le serviva forse per tagliare i nanetti di hashish… cioè i papetti di cashmere… volevo dire, insomma, i panetti di quella immondezza che le hanno sequestrato…?»
«Assolutamente non esiste. Vede, dottore, il coltello mi serve solo per tagliarmi i calli dei piedi… sapesse che male mi fanno…» e con mossa rapidissima mise sulla scrivania mezzo metro di scarpa lurida e consumata. Con poche abili mosse, se la tolse sgusciandola dal piede, riproducendo così un suono che ricordava molto la stura di un bottiglione da dieci litri di pessimo vino; quindi, con gesto trionfante, come se avesse tolto il velo ad un’opera d’arte, sfilò ciò che originariamente doveva essere un pedalino «vede questi calli qui sotto, dottore…» continuò serio il giamaicano, tutto compreso nella sua esposizione, facendo aria sulla parte esibita, sì che l’aroma della sua estremità si sparse in un attimo per la stanza «mi fanno tanto male e io devo tagliarmeli sovente proprio con quel coltello che m’hanno sequestrato; tocchi… tocchi qui, se non si fida… non sia timido… qui sotto… sotto il ditone più grosso, senta quanto è duro questo callo… altro che hashish!»
La Spazzamare a quell’afrore intenso e acro, si era appoggiata con la fronte alla parete vicina; sembrava dormire, mentre in realtà, girati gli occhi, era svenuta emettendo un lungo, sospirato ‘Oh cielo…’
I due Carabinieri, che, invece, non dovevano essersi resi granché conto di quanto era accaduto, iniziarono a ispezionarsi con insistenza le suole delle scarpe per accertarsi se avessero, casomai, pestato qualcosa.
Il rigoglioso cissus scandens, che fino a quell’istante si era pavoneggiato solenne in un angolo dell’ufficio di Enea, vanto di generazioni di botanici che certosinamente avevano selezionato migliaia di sofisticati e sapienti cultivar premiati nei più importanti concorsi internazionali, prima perse d’un colpo tutte le foglie poi, sprigionando nuvolette di fumo denso dal fusto, si afflosciò stecchito a terra.
Enea, dal suo canto, corse ad aprire la finestra per far entrare aria fresca e pulita, determinato a controllare l’irrefrenabile impulso di buttarsi giù di sotto. I fremiti, che gli squassavano abbondantemente la mano destra, ora stavano salendo per l’avambraccio, avviandosi a martirizzargli il resto del corpo. Decise di mettere il capoccione a penzoloni nel vuoto, respirando a pieni polmoni. Poi ricordandosi che quella era esattamente la stessa postura risultatagli, tempo addietro, assai infausta , dopo aver scrutato il cielo con ansia, rientrò in fretta e furia ricacciando alcune decine di mosconi che, attirati dagli effluvi gassosi sprigionatisi dalle estremità del giamaicano, volevano a tutti i costi partecipare a quel banchetto irresistibile.
«Ri… rinfoderi subito quel coso…» balbettò Enea accennando a sedersi e provando a farsi coraggio.
«Come desidera lei…» replicò rassegnato il giamaicano che, levando le mani al soffitto in segno di resa, aveva costretto i Carabinieri, a lui ancora legati, ad un triplo salto carpiato contro il muro «era unicamente per farle capire meglio… sa… vedendo il piede… era più facile spiegare…»
«Va bene… va bene… ho capito lo stesso… non si preoccupi… ma stia calmo… stia calmo…»
«Ma sono perfettamente calmo, glielo assicuro.»
«Dunque… mi pare di comprendere che lei contesta l’addebito…»
«Contesto che…???»
«Nega di aver detenuto ai fini di spaccio…»
«Dottore non ho nessuno spaccio… io sono povero, son tossico, son extra…»
«No, dico, la droga… respinge l’accusa di aver detenuto la droga per venderla ad altri…?!?»
«Ah, la droga… lo spaccio… in quel particolare senso… certo, certo… respingo, respingo tutto… lo spaccio e tutto il resto… adesso posso andare…?!?»
«Sì, ma mi vedo costretto, mio malgrado, a convalidare l’arresto e mantenerla in carcere» replicò Enea modulando un tono che potesse apparire credibile, ma allo stesso istante, non eccessivamente severo per non guastare il buonumore del Puzzone nero.
Seguì un attimo di silenzio. Sul volto dell’arrestato poté leggersi il panico.
«La prego, non lo faccia!!!» prese a piagnucolare Conan Doyle sparandosi sul viso due badili di mani «non lo faccia… ho moglie, ho figli… sono uno spirito libero, non resisterei in prigione, non posso… son tossico… son extra…»
Enea, che ormai era un unico brivido convulso, senza neppure guardare, né ascoltare il suo interlocutore, iniziò a firmare alcune carte davanti a sé, sforzandosi con la mano destra di tenere ferma quella sinistra, questo ovviamente nei rari momenti in cui, con la sinistra, non teneva ferma la mano destra.
Si udì un tonfo sordo.
Colto da un accesso epilettico, il giamaicano era crollato in terra portando con sé la sedia su cui era seduto.
Subito dopo, vinto dalla crisi nervosa montante che lo aveva, alla fine, sopraffatto nonostante l’impegno profuso per non mollare, anche Enea cadde, privo di sensi, rovinando prima sullo schienale della poltrona e quindi sul pavimento.
La Spazzamare, scossa un poco a causa dello spostamento d’aria provocato dalla caduta sia del suo cliente che del Giudice, movimento segnalato da un tintinnio quasi inavvertibile della catenina legata alla caviglia cui aveva risposto quella legata all’altezza dell’ombelico, si sganciò dal gobelin su cui era svenuta rovinando, a corpo morto, sulla moquette.
I Carabinieri, rimasti gli unici in piedi, si interrogarono l’un l’altro inarcando le sopracciglia. Quello che doveva essere il più anziano, lisciatisi i baffi ed aggiustatasi meglio la visiera del berretto, diede una rapida occhiata alla scena:
«Mah!!! Forse è l’ora della pausa…, un’usanza del continente… su, Appuntato La Martora, usciamo… lasciamoli riposare e prendiamoci un caffè, torneremo più tardi… mi sembra che sia stata, pure per noi, una mattinata faticosa!»
«Si capisce subito che Lei c’ha esperienza Maresciallo» fece l’Appuntato strizzandogli l’occhio «non Le sfugge niente di niente… ma dica, a proposito, potrebbe spiegarmi pure questo? Ma… come mai m’è venuta, tutta insieme, una gran voglia di gorgonzola?!?»
Liberatisi della catena e delle manette che posarono con delicatezza sul pavimento per non far rumore e non svegliare nessuno, i Militi, scavalcarono il corpo scomposto del Bestione nero che aveva sparpagliato braccia e gambe per tutta la stanza.
Quindi, fatto uscire un bambino che avevano notato solo in quel frangente, chiusero adagio la porta dell’ufficio.
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