La stagione degli amori

Mathias e Luna si erano sposati da qualche settimana e avevano deciso di andare a vivere in una casa a ridosso del bosco. La strada dal paese terminava proprio davanti alla loro villetta e poi proseguiva sotto forma di sentiero, prima tra roverelle rade, e poi nel fitto di carpini e faggi.
Il fidanzamento era stato breve, si erano piaciuti subito e anche la scelta di vivere un po’ isolati, in mezzo alla campagna, era stata fatta di buon grado da tutti e due.

«Devi venirci a trovare» aveva detto a Tom quella sera al telefono. E siccome il vecchio amico aveva percepito dal tono della voce una vena di preoccupazione Mathias, aveva chiarito che gli serviva una sua opinione come esperto di animali. Senza aggiungere altro.

La cena era stata squisita e con la scusa di mostragli il panorama dalla terrazza gli mise un bicchiere di passito in mano e se lo portò con sé.
«Tua moglie Luna, ha le mani d’oro in cucina…» disse Tom appoggiandosi alla ringhiera e gettando l’occhio sulle colline lontanissime. «Penso di avervi fatto fuori le riserve alimentari di una settimana intera.»
Mathias sorrise. «Non sai che piacere mi faccia averti qui» e gli appoggiò una mano sulla spalla.
«Allora, mi vuoi dire cos’è che ti turba? Non vai d’accordo con lei?»
«No, al contrario Tom, va benissimo. Non mi sono mai sentito meglio in vita mia: è una compagna dolcissima. È che non ci siamo ancora abituati ai rumori e ai suoni della campagna.»
«Cosa vuoi dire?» fece lui assaporando il liquido ambrato appena illuminato dalla luna.
«Da qualche tempo qua attorno si sentono degli strani versi di animali che inquietano Luna. La fanno trasalire e la rendono nervosa. Lei non mi dice nulla, ma la vedo tesa e preoccupata.»
«Questa è la stagione dei daini, amico mio, e quassù ce ne sono tanti, almeno secondo l’ultimo monitoraggio… è normale… ci farete l’abitudine.»
«Lo pensavo anch’io, Tom, ma ho controllato su internet; dai video su YouTube che ho visionato ho potuto verificare che non si tratta del verso di un daino o di un capriolo… deve trattarsi di qualcos’altro: è… è un suono strano.»
«Strano?»
«Sì… è per questo che l’ho registrato con il telefonino; per fartelo risentire. Ascolta…»
Il verso che uscì da cellulare si diffuse come una macchia densa nel cielo scuro bucato di stelle. Tom fece una faccia corrucciata, rimanendo per qualche momento senza dir nulla. Poi la registrazione si interruppe.
«Hai ragione: non è un daino, né un altro ungulato e neppure un cinghiale o un uccello notturno… E lo senti spesso?»
Mathias stava per rispondere quando lo stesso verso, dal vivo, riempì l’aria. Era sonoro, vibrante, sostenuto. Proveniva dal profondo del bosco, dove l’oscurità era ancora più compatta. Sembrava che qualcuno venisse soffocato e cercasse di chiedere aiuto senza riuscirci; anche se si capiva, per l’intonazione di alcune note, che in realtà era proprio un richiamo d’amore. Faceva raggelare il sangue. Il suono si ripeté alcune volte fino a che si spense lentamente precipitando nella boscaglia come gocce di pietra. Entrambi ne furono sollevati.
«Allora cosa ne pensi, Tom?»
L’amico aveva gli occhi bassi, come se cercasse sulle mattonelle dell’ampia terrazza la risposta. Mathias ripeté la domanda.
«Di che animale si tratta? Può essere, che ne so, una volpe, una lince? Potrebbe costituire un pericolo per noi?»
«No, Mathias, nulla di tutto ciò… tuttavia non saprei…»
«Possibile che tu non ti sia fatto un’idea?»
«Veramente un’idea ce l’avrei, ma non può essere…»
«Dimmela lo stesso…»
«Ma non può essere, te l’ho detto.»
«Dimmela Tom…» Il tono adesso era quasi di supplica.
L’amico guardò gli occhi di Mathias che avevano catturato la luce che veniva dall’interno della casa. Si schiarì la voce.
«Ci… ci sono alcune registrazioni… di tempo fa… ebbene… temo… temo… potrebbe essere il richiamo di un licantropo.»
Mathias a quelle parole si mise a ridere, pensando fosse una battutaccia. Poi vide che l’amico era serio.
«Ma non esistono i licantropi…» gli obbiettò subito dopo.
«Sì è quello che penso anch’io, è per questo che non te lo volevo dire, sono stupidaggini…» fece Tom come per scusarsi. «Anche se si dice» seguitò guardando ora di nuovo le colline grigie «che quando lanciano quel richiamo significa che hanno trovato la loro compagna… Ne possono avvertire l’odore anche a cinquanta chilometri di distanza…»
Mathias ripensò alla reazione della moglie ogni volta che sentiva quel verso. Gli era parso che non fosse di paura o di preoccupazione, piuttosto di inquietudine come da vagheggiamento o da smania controllata. Ma non aveva voluto darvi importanza.
«Non ti preoccupare però…» gli fece Tom «…te lo ripeto, sono solo sciocchezze.» E lo abbracciò forte.

Il bus n. 222

Quando le campane dell’Abbazia si misero a suonare risposero subito dopo quelle più solenni del Duomo e, a mo’ di eco, quelle lievi della Pieve sulla collina; Fosco capì di essere in ritardo lungo la strada per la fermata del bus. Di solito le campane delle sette del mattino lo sorprendevano all’altezza della banca, a due terzi del percorso, e invece non era neppure in fondo alla sua via. Accelerò il passo, anche se odiava farlo perché avrebbe finito per sudare nel suo piumino: non si poteva però permettere di perdere quella corsa. Così, quando giunse finalmente in piazza e vide sbucare il ‘suo’ 222 come una preda che volesse sfuggirgli, si mise a correre. A volte era accaduto che l’autista, fatti scendere i passeggeri, ripartisse immediatamente nonostante fosse un capolinea. Non c’era da biasimarlo, del resto: alla fermata successiva avrebbe smontato dal turno di notte e se ne sarebbe tornato a casa.
Salì che aveva il fiatone. La signora dal cappello di maglia rosa, che normalmente già trovava alla palina quando arrivava, era seduta sul sedile in fondo, il viso tuffato come sempre sul suo cellulare. Era curioso che non fosse mai riuscito a vederla in faccia. Qualche sedile più in là, un uomo con i jeans e la maglia macchiettate di vernice bianca, teneva la testa appoggiata sullo schienale, gli occhi chiusi e la bocca leggermente aperta.
Il bus partì dopo pochi istanti.
A quell’ora le vie, alla mercé di una notte che non se la sentiva di abbandonare la città, erano vuote. Le rare persone che si intravvedono qua e là, avevano il passo svelto come di chi non ha tempo da perdere.
Alla fermata dell’Hotel Ambasciatori, l’autista scese per il cambio programmato. Prese il suo zaino consunto da dietro il sedile e ripose nel taschino del giubbotto l’auricolare bianco. Fosco notò che la fontana delle tartarughe, poco lontano, era senz’acqua.
Le porte si richiusero. Il bus si rituffò in una ragnatela di riflessi di luci che sembravano volerlo trattenere. Alla fermata di via Lulli tirò diritto e dopo l’ampia rotatoria puntò verso la stazione ferroviaria. Lì, alle scalette, sarebbero saliti i pendolari provenienti dai paesi vicini. Avrebbero come al solito riempito metà della vettura, ridendo e scherzando ad alta voce, come se potessero recarsi a una scampagnata. E infatti il bus si arrestò ma più per abitudine che per necessità: la banchina era completamente vuota. Aprì e richiuse due o tre volte le porte come un animale spaventato che non si capacitasse di quell’assenza; dopo pochi attimi riprese nervosamente la sua corsa. Fosco fece appena in tempo a buttare l’occhio verso l’entrata della stazione: c’era il via via di sempre e anche l’edicola dei giornali era aperta.
Il bus fece il suo consueto giro. Solo che, ogni volta che arrivava in vista di una fermata, prima decelerava e poi, siccome non c’era nessuno ad aspettare, faceva riprendere al motore il suo regime di giri.
Non era mai accaduto. Pensò Fosco controllando l’orologio. Se continua così arriverò in ufficio in un attimo. Si voltò per vedere se anche gli altri due passeggeri, saliti con lui al capolinea, avessero notato quella stranezza. Ma era solo. Forse la signora dal cappello rosa e il muratore erano scesi alla fermata del cambio dell’autista. Non se n’era davvero accorto.
Cominciò ad avvertire una strana inquietudine: si sentiva fuori posto o sfasato rispetto al tempo presente. Troppo in ritardo, o chissà troppo in anticipo.
Il cielo intanto si era scrollato di dosso la notte ma era rimasto cupo come se qualcuno avesse passato uno strato spesso di vernice grigia per impedire che l’alba riuscisse a bucarlo.
Passato il ponte sospeso di Lughi Nova, dopo aver saltato l’ultima fermata dell’Iper, il bus, ormai lanciato, arrivò sul rettilineo della ex Alfa. Fosco era arrivato e con ben quindici minuti di anticipo. Provò sollievo: quel viaggio era finito. Si alzò per tempo e premette impaziente il pulsante di prenotazione della fermata. Si pregustava ora il caffè del bar.
Il bus, ubbidiente, quasi fosse stato contento, rallentò e accostò.
«La porta non si è aperta!» esclamò dopo un po’ Fosco che non riusciva a scendere.
Vedendo che le porte rimanevano chiuse, ripeté ad alta voce battendo sul vetro con la mano aperta: «guardi che devo scendere qui! Mi apra per cortesia!»
Poi tornò indietro accostandosi preoccupato all’autista.
Al posto di guida non c’era nessuno.
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Routine

A una certa ora, sempre la stessa, qualunque cosa stesse facendo, la interrompeva e iniziava il ‘suo’ rito per prepararsi per la notte. Andava in bagno, prendeva il libro da leggere, saliva in soppalco, dove aveva ricavato una suggestiva e comoda stanzetta, e chiudeva la porta: poi raggiungeva nel buio la lampada del comodino e la accendeva mettendosi a letto.
Tutto avveniva pressoché sempre allo stesso modo, lentamente, in automatico, come scandito da un orologio interiore. Un privilegio acquisito con l’età, ma anche un modo per entrare in sintonia con il sonno che di lì a poco lo avrebbe traghettato sino allo soglie del mattino. E così fece anche quella sera.
Spense il televisore, si alzò dalla poltrona, andò in bagno, salì gli scalini di legno, che scricchiolavano lievemente in modo diverso l’uno dall’altro, ed entrò in camera; chiuse quindi al buio la porta e andò alla lampada del comodino. Ma non si accese.
Aveva previsto che un’eventualità simile potesse accadere, prima o poi, tant’è che aveva comprato una lampadina di riserva e l’aveva riposta nello stipetto del comodino. Si chinò, aprì l’anta e, anche se non vedeva nulla, afferrò la lampadina dove sapeva sarebbe stata e sostituì quella fulminata. Ma non si accese.
Controllò la spina: era inserita nella presa. Il problema è più serio, si disse facendo una smorfia. Odiava quei fastidiosi contrattempi. Che fare, adesso?
Fu tentato di mettersi a letto senza leggere, ma poi pensò che questo lo avrebbe messo di pessimo umore e decise di andare a cercare una torcia per accertarsi cosa fosse accaduto. Tornò alla porta. La maniglia non c’era più.
Tastò a lungo i pannelli individuando solo la toppa della serratura: la maniglia di sicuro non era lì. Com’era possibile? Si piegò per cercarla per terra anche se non l’aveva sentita cadere. Il buio era totale e la sensazione di disorientamento improvvisa si era fatta soffocante. E udì un bisbiglio.
Dapprima era debole, un fruscio di seta o uno stormire di frasche e, poi, sempre più forte, come se il lucernario si fosse spalancato e un pipistrello sgomento fosse entrato sbattendo di qua e di là contro i muri della stanza. No, no. Non era quel tipo di rumore. Piuttosto… ecco, sì… era qualcuno che lo chiamava: ora ne era certo; era proprio il suo nome e la voce veniva da lontano anche se, allo stesso tempo, gli pareva scaturisse come un rivolo da un punto preciso dentro la sua testa. Gli si ghiacciò il sangue. Il suono smise.
Provò a rialzarsi rimanendo per un po’ in ascolto, levando davanti a sé il dito indice come per ricordare da che punto della camera provenissero quelle parole. L’aria era divenuta nel frattempo rarefatta e un gusto amaro gli pervase la bocca mentre la gola si contrasse quasi avesse respirato aria acida.
Poi, dal buio appiccicoso e compatto, una mano gelida lo afferrò sulla schiena tirandolo a sé per la maglia della notte e un’altra l’agguantò per i capelli tirandoli con violenza. Erano due mani ossute, fredde, dotate di una forza spaventosa. Le sentì chiudersi di scatto sul suo corpo fragile come una morsa senza ritorno. Cercò di aggrapparsi al termosifone, perché a quella ‘cosa’, capì, non avrebbe potuto opporsi. Urlò senza poterne avvertire le vibrazioni; al loro posto, di nuovo, quella voce sommessa, ronzante, un nastro mandato all’incontrario: qualcuno che si stava nutrendo dell’oscurità e della sua paura lo voleva a sé chiamandolo in modo sommesso ma deciso; lo chiamava, ripetutamente, come per ricordargli chi era. Cominciò a sentirsi masticare anche se non provò alcun dolore. Quindi venne a poco a poco letteralmente inghiottito dal nulla come se un mostro avesse spalancato le fauci sotto di lui. E sparì, trascinato via, appena pochi secondi dopo.

Ieri notte. Alle tre

Mi svegliai di soprassalto. Uno sbuffo d’aria fredda mi si era posato sul volto. C’era un silenzio innaturale in casa: il buio sembrava guardarmi e i muri della stanza erano come protesi verso di me. Stavo soffocando. Afferrai nella penombra il bicchiere d’acqua che un’abitudine mai dimenticata ha reso sempre presente sul comodino. La sveglia, con i suoi occhietti luminosi, segnava le tre. ‘Deve essere stato un incubo’ pensai. ‘Sono sempre più frequenti, del resto.’
Mi girai da un lato, per riaddormentarmi, tirandomi fin sotto il collo le coperte calde. Quella sensazione di disagio mi si era appiccicata addosso.
Passarono diversi minuti. Feci appena in tempo a rientrare in un sogno ancora più agitato che ancora quell’alito freddo mi aleggiò sul viso. Questa volta era stata come una carezza d’aria, prolungata e lieve.
Mi alzai. Feci il giro della casa a chiudere finestre e porte, trovandole però tutte serrate. Tesi l’orecchio. Non c’era vento sul tetto. Il ramo di mimosa appena fuori dalla finestra era immobile.
Mi rimisi tra le lenzuola, con gli occhi chiusi, sforzandomi di non pensare alla lunga giornata che mi aspettava; poi finalmente, all’alba, scivolai nuovamente in un sonno affatto ristoratore.
A lavoro, la giornata difficile mi fece dimenticare ben presto la notte semi insonne. Gli impegni si succedevano a ritmo incalzante. Tutto era urgente, tutto era improcrastinabile. Il telefono, come contorno di quella giornata da dimenticare, non smetteva mai di far sentire il suo suono odioso.
Verso metà mattinata era poi successo qualcosa di complicato da qualche parte dell’entroterra. Occorreva andare sul posto, ovviamente subito.
Avevo appena lasciato la scrivania per uscire quando il telefono squillò ancora. ‘Forse hanno risolto il problema e non devo più andare fin laggiù’, mi dissi.
«Ciao» si sentì semplicemente dall’altra parte. Era un suono solo, con un eco leggero di sottofondo, come se stessero parlando da un luogo vuoto: ma riconobbi subito quella voce nonostante fosse passato tanto tempo.
«Mi fa molto piacere risentirti» feci io, tentando di capire a cosa preludesse quel tono.
«Avrei voluto telefonarti prima, ma lei non ha voluto» fece la voce del mio amico, rotta dall’emozione. «So quanto lei significava per te… aveva un brutto male all’intestino… mi spiace tantissimo.»
Il mondo mi si spezzò in due. Erano trascorsi vent’anni da quando ci eravamo lasciati a seguito di quella infantile incomprensione, ma non c’era stato giorno che non avessi pensato a lei, tanto che avevo sempre nutrito, in cuor mio, la speranza che le cose si sarebbero prima o poi aggiustate, che saremmo tornati insieme come tutti i grandi amori assoluti.
«E quando è morta?» domandai con la gola arrochita.
«Ieri notte. Alle tre.»

Il tuo respiro

È caldo l’alito ambrato della pelle attorno al tuo seno fragrante; si dischiudono le tue labbra sotto i sussulti di un sogno che rende ancora più languido il corpo al chiarore di questa notte insonne. I suoni della strada si stanno spegnendo sui pensieri del giorno.
E si insinua, prepotente, nelle mie vene ubriache del tuo respiro, il desiderio di rifugiarmi dentro di te.