«Non se ne stia lì da sola, entri, entri… che ci facciamo compagnia».
La donna si alzò un po’ imbarazzata. «Guardi che non volevo curiosare».
«Lo so, non si preoccupi… non lo dicevo per quello è che mi fa piacere se facciamo due chiacchiere, sono spesso solo e poi fra pochi minuti le riportano il gatto».
Clara entrò nervosa e si sedette sul bordo di una sedia bianca guardandosi attorno.
«Ha fatto la scelta migliore, sa?» le fece l’uomo sorridendo dietro ad una montatura d’occhiali nera e spessa anni Sessanta.
«Certo…» gli rispose Clara «… ma in che senso, scusi?!?»
L’uomo non rispose era concentrato su quello che stava facendo. Poi Clara lo guardò meglio. Il cane tra le mani dell’uomo non si muoveva. Scattò in piedi.
«Ma… ma quello è un cane di peluche!» esclamò allarmata la donna.
«No» disse l’uomo risentito. «È un cane impagliato!»
«Come?!? Lei non è un veterinario?»
«No, sono un tassodermista? Perché?»
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Eutanasia, eutanasia
«Non sei un po’ troppo piccolina per fare l’autostop?» le disse lui tirando giù il finestrino.
La bambina lo guardò con aria trasognata.
«Così così» rispose lei aiutandosi con il gesto della mano. «Vado a trovare mia nonna in ospedale. Il mio papà è nei campi e non può accompagnarmi.»
«In quale ospedale è ricoverata?»
«In quello di Collefili.»
«Ma è lontanissimo.»
«Lo so.»
«Va bene, monta.»
Durante il tragitto la bambina raccontò che andava a trovare la nonna tutte le settimane. Che per un po’ l’aveva portata il padre, ma poi c’era l’azienda agricola da mandare avanti e così ci andava da sola. Le era rimasta molto affezionata e poi non c’era nessuno che stesse con lei.
«E le piacciono i cioccolatini?» le chiese Enzo alludendo alla scatola che la bambina aveva in grembo.
«Sì. La nonna respira, ma ha gli occhi chiusi ormai da otto mesi. Però ogni volta che vado via gliene lascio uno sul cuscino. E lei sicuramente lo mangia perché, quando torno, non lo trovo più. Forse fa così perché non vuol farsi vedere dalle infermiere.»
L’uomo aveva un groppo in gola mentre attraversava Lughi diretto all’ospedale di Collefili.
«Sei un uomo buono» le sussurrò la bambina mentre infilava la porta girevole dell’ospedale.
Un mese più tardi, mentre attraversava un incrocio a Tòdaro, la macchina di Enzo si spense all’improvviso. Lo so, non avrebbe dovuto essere lì, né quel giorno, né a quell’ora, ma il destino, è risaputo, è in grado di congiurare solo alle spalle. Così un motociclista a tutta velocità gli entrò nell’abitacolo da parte a parte e lui rotolò sull’asfalto come un sacco di stracci. Dieci minuti dopo era già in coma ad encefalogramma piatto.
«Qui c’è scritto che oggi è il giorno» disse il medico all’infermiere.
«E’ uno di quelli che han firmato per l’eutanasia vero?»
«Già!» rispose secco l’altro mettendo in off la macchina di sopravvivenza come se avesse spento un microonde.
«Ehi, ma cosa mangi?» fece l’infermiere al sanitario mentre usciva dalla stanza.
«Non so… credo sia un cioccolatino ripieno. Ogni tanto li trovo sul cuscino dei pazienti.»
Sto aspettando
«Viene qui spesso?» mi sentii in dovere di chiedergli mentre afferravo la maniglia della portiera per tirarla a me «sembra quasi che i passeri la riconoscano.»
«Non così spesso come vorrei» mi rispose senza guardarmi. «Ma solo quando ho pane a sufficienza.»
A quel punto me ne sarei potuto anche andare, ma continuavo a osservarlo non riuscendo a staccargli gli occhi di dosso: gli uccellini erano davvero tanti e pareva che gli stessero facendo festa. Lui dovette percepire la mia incertezza, perché aggiunse:
«È molto distensivo dar da mangiare ai passeri. E poi mi aiuta ad aspettare.»
«Aspettare?» domandai con un tono interrogativo forse un po’ sopra le righe.
Lui non rispose subito. Stava porgendo con attenzione un boccone di mollica a un passero più intraprendente degli altri che gli era volato fin sopra la manica.
«Sì, aspettare…» proseguì «… aspetto che il sole se ne vada dietro a quella collina laggiù… aspetto che le mie mani smettano una buona volta di tremare… aspetto che mia figlia si ricordi di avere un padre e mi telefoni…»
Io lasciai la maniglia e abbandonai la mano lungo il fianco. L’anziano mi scrutò un paio di volte. Poi frugò in un sacchetto marrone che gli era accanto cavandone un panino raffermo che mi allungò:
«Tenga» mi fece «sono sicuro che anche lei ha un mucchio di ragioni per aspettare. Mentre me le racconta può aiutarmi a dar da mangiare a queste creature.»
Io mi sedetti vicino a lui cominciando a sbocconcellare la pagnotta. Dopo un po’, sembrava che i passeri conoscessero bene anche me.
MMS
La coda si era bloccata per la solita vecchietta perditempo che era incerta se accomunare alla querciolina bianca la nipitella o la rucola nostrana. I clienti stavano sbuffando quando entrò una deliziosa signora con tanto di passeggino e bebè al seguito. Rossa a boccoli spumeggianti, occhiali da sole impenetrabili, la donna aveva un atteggiamento altero, riservato, come di chi sa di non passare mai inosservata. Era entrata senza guardarsi attorno, curandosi solo di essere notata da Sisto che però armeggiava indaffarato dietro al bancone; era tuttavia pacifico che la signora avesse già fatto la radiografia a tutte le persone che erano presenti in quel negozio.
Poi il bambino si mise a piangere e la mammina, con eleganza, si piegò su di lui: così facendo, essendo i jeans a vita bassa e il tanga a vita alta, mostrò la sua biancheria intima dello stesso colore dei capelli. In quel preciso istante, come se avesse saputo da almeno mezz’ora che la donna si sarebbe chinata, il ragazzo che era davanti a me si voltò verso di lei scattando rapidissimo una foto con il telefonino per poi immediatamente rigirarsi alla stessa velocità.
Fin qui, quasi niente di strano. Se non fosse che quella foto l’ho ritrovata ieri (per caso) su internet in un sito che raccoglie tutte le immagini inviate dagli utenti iscritti. E da quello che ho capito, l’MMS è anche rimasta, per una settimana, tra le top ten.
Chissà se la mammina ha potuto immaginare, anche solo per un attimo, che il suo tanga sarebbe stato apprezzato da tutto il popolo web?
È questione di ritmo
Così può capitare che, dopo un periodo più o meno lungo di permanenza in città, si ritorni in paese senza riuscire ad adeguarsi alle diverse cadenze del borgo. Il giornalaio, il negozietto di alimentari, il bar, non sono luoghi dove consumare, i propri riti di passaggio, ma punti di aggregazione, di socializzazione, spacci di rifornimento di notizie e del gossip paesano, dove prelevare dicerie per depositarne delle altre.
All’iper del grosso centro di Tòdaro non c’è verso, invece, di far conversazione con la signorina alla cassa, non tanto perché, essendo carina, non dà confidenza a nessuno, ma in quanto ha il capo sempre chino, concentrata com’è nel far passare nel rivelatore di codici a barra il maggior numero di oggetti nell’unità di tempo, senza perdere di vista la fila, l’ispettore di ottimizzazione nascosto dietro la colonna, la carta di credito da controllare sul retro se è firmata, la ricevuta da dare al cliente, la merce da inserire nella varie buste divisa per tipo e dimensione.
Al contrario, agli alimentari di Lughi, dopo cinque minuti a soppesare un melone che poi non si comprerà, si è già al corrente della salute della Beppina che sta sempre peggio e bisogna portarle la spesa a casa che ha appena telefonato o dei progressi di Marietto, il figlio di Giovannino il muratore, che ha imparato a camminare ma continua a sbattere contro gli spigoli delle porte.
E arrivavo proprio da un periodo da sovra dosaggio da città quando atterrai un bel pomeriggio nell’unica farmacia di Pievani, altro modesto borgo della zona. C’era un po’ di gente, ma questo non era un motivo sufficiente per creare del disagio a Marilena, l’anziana farmacista alta, come si dice, un metro e una siringa, che per percorrere lo spazio di pochi metri tra la cassa e gli scaffali dei medicinali sembra metterci un tempo interminabile. Non avendo io ancora “rallentato” il mio tempo per adeguarlo al passo di Marilena, mi stavo spazientendo.
Avevo ancora un paio di persone davanti quando ad un certo momento entrò, urlando, tutta eccitata, una signora:
“Stanno nascendo, stanno nascendo, corri…”
Marilena che stava per consegnare al cliente di turno il medicinale, lo scontrino e il resto in danaro mollò ogni cosa sul bancone al grido:
“Ma davvero?!? Ma davvero?!?”.
In un lampo, dimenticandosi del suo passo strascicato e stanco, sgusciò via dalla farmacia piena oramai di gente.
“Ommadonna…” esclamai io “…e che è successo ora?”
Gli astanti invece di arrabbiarsi per il contrattempo cominciarono a commentare l’accaduto. Tant’è che uno poi mi disse:
“E’ la Lolli, sta diventando mamma…”
“Ah” dissi io fingendo di comprendere la gravità del momento. Evidentemente il fatto che la Lolli fosse incinta era un argomento che mi ero perso.
“Pensi…” disse un’altra donna che faceva a fatica a tenere in braccio una bimba che non stava ferma “… pensi che sembrava spacciata due anni fa, quando è finita sotto una macchina… sua mamma era disperata, faceva una pena infinita.”
“Beh, mi spiace, se le cose stanno così….” feci io “…allora, insomma, è il suo momento…”
Passò un quarto d’ora buona. Io francamente mi sentivo un po’ più disteso: l’effetto campagna stava facendo il suo corso, il tempo stava rallentando anche per me. Quell’attesa mi appariva infatti ogni minuto più sopportabile tanto che mi accorsi di essermi fatto coinvolgere da quella contagiosa atmosfera di buonismo e contentezza generale.
Poi tornò la farmacista. Le due porte automatiche si spalancarono di colpo come fosse stato un effetto scenico ben preparato. Marilena entrò trionfante esibendo un gattino piccolissimo che con gli occhi chiusi miagolava così sottovoce che non lo si sarebbe sentito neppure attaccando l’orecchio ai suoi baffi.
“Questo è l’ultimo della cucciolata. La Lolli ne ha fatti sette e stanno tutti benone.”
Scoppiarono gli evviva e le congratulazioni alla farmacista, qualcuno applaudì.
Mi sfuggiva francamente quale fosse stato il grado di parentela tra Marilena e la Lolli, ma vedere quell’esserino lanoso poco più grande di un guantino che agitava una coda non più grossa di un’unghia, dava di colpo un senso a tutta quella situazione. Il ‘mio orologio biologico’ aveva finalmente preso i ritmi del borgo.