Bridgetown

chiatta«Va a Bridgetown?» l’uomo sulla banchina del fiume aveva il palmo della mano sulla fronte per schermirsi dal sole basso sull’orizzonte. La sua voce era ferma ma dubbiosa. Un soprabito elegante mascherava quasi tutta la sua figura.
Il Comandante della “Celestine” stava trafficando a bordo della chiatta mettendo in ordine le sartie: stava per salpare e non alzò neppure lo sguardo.
«Ho bisogno urgentemente di andare a Bridgetown, la pago bene. Oggi c’è sciopero dei taxi e comunque in città c’è un traffico infernale a quest’ora. Ho un importante affare da concludere in centro…»
Il Comandante azionò l’argano dell’ancora che si mise in moto con un rumore di catene rugginose. Poi controllò la corrente placida del fiume come per accertarsi che fosse ancora lì. Il senso di pace che gli dava quella poderosa massa d’acqua in movimento lo meravigliava sempre.
«Mi paga bene, quanto?» buttò lì all’improvviso il Comandante all’indirizzo di quello strano individuo che si agitava nervoso sul pontile.
«500 sterline, subito, e altre 500 all’arrivo…» rispose l’altro che non si aspettava più una risposta.
«Ci deve tenere molto, allora… va bene, salga…» gli disse fissandolo finalmente negli occhi e tendendogli la mano per portarlo a bordo.
«Mi chiamo George, George Logan…» gli fece l’uomo mettendo un piede incerto sulla barca e accennando a un sorriso. Aveva indosso un completo sartoriale su misura e le scarpe erano così lucide da potersi abbronzare anche solo a guardarle. Matt G. Harper sapeva riconoscere un guru della City quando ne vedeva uno.
«Non mi interessa come si chiama» rimbrottò di rimando il Comandante sovrastando il passeggero di almeno mezzo piede. Poi si mise davanti a lui, a gambe divaricate e braccia conserte, in un eloquente atteggiamento di attesa impaziente.
«Ah già, scusi…» fece Logan mettendo mano al portafoglio e dandogli il denaro.
«Bene» fece Harper riprendendo le manovre per la partenza «si sieda su quella panca lì; ci vorranno quaranta minuti circa… non tocchi niente, per favore.»
Logan si accomodò. La panca era umida e scomoda, ma era sollevato. Dopotutto, l’acquisizione della Fish & Cooper si sarebbe fatta.
La “Celestine” si staccò docilmente dal pontile mentre la sirena emise un suono breve ma intenso che rimbalzò sugli argini; fece un’inversione di rotta di 180° gradi a dritta e poi prese a infilarsi nella corrente del fiume.
«Se le raccontassi come mi sono ridotto a chiederle un passaggio non ci crederebbe davvero» confessò Logan accendendosi un sigaro. «È stata una giornata incredibile…»
«Se dobbiamo fare conversazione il passaggio le costerà di più» fece secco il Comandante che accese alcune spie sul cruscotto davanti a lui. «E spenga subito quel sigaro: trasporto materiale infiammabile.»
Rimasero in silenzio per un quarto d’ora. Una coppia di germani reali fece in tempo a risalire il corso d’acqua per poi piegare verso la chiesetta romanica di Chesterwale. Una brezza leggera e profumata accarezzò i meleti prima di stendersi sull’acqua.
«Come mai una chiatta per il trasporto fluviale ha un pennone così alto? Cosa le serve?» ruppe dopo un po’ il silenzio Logan.
Harper, dal castello di prua, si voltò verso di lui cercando di fulminarlo con lo sguardo. E non rispose.
«Lo sa che con quel pennone così alto non ci passa dal ponte di Bridgetown, vero?»
«Ci passo sempre e non è mai stato un problema…» rispose quello, scorbutico, facendo spallucce. «E non sarebbe neppure un problema se lei scendesse subito dalla mia barca e se la facesse a nuoto.»
«Sì, ma allora addio a 500 sterline facili facili…» rispose pronto Logan che aveva capito come prenderlo.
Il Comandante grugnì.
Le prime casette unifamiliari di Bridgetown apparvero appena dietro l’ansa di Hazelwood e così anche il bel ponte che collegava l’isola al continente. Ci vollero appena cinque minuti perché la barca fosse a ridosso delle arcate in stile liberty.
Quando pensò fosse il momento giusto, Harper premette un pulsante sul cruscotto. Il pennone cominciò a ritirarsi a cannocchiale senza far alcun rumore. Si ridusse di qualche metro poi si bloccò. Premette ancora il pulsante e poi ancora e ancora, cercando, nel contempo, di rallentare la velocità della chiatta. Per un po’ il pennone riprese a rientrare poi si inceppò nuovamente. La barca, oramai a motore spento, fu catturata dalla corrente al centro del fiume dove, nei pressi dell’arcata principale, era molto forte. Il Comandante riaccese il motore facendo indietro tutta ma era troppo tardi. Logan, dal suo canto, si alzò in piedi per vedere meglio. Agitava le mani davanti a sé come se stesse affrontando un avversario sul ring. Gli scappò un’imprecazione. L’asta prima si incastrò sotto l’impalcato del ponte poi si flesse ad arco facendo impennare “Celestine” che si sollevò dal pelo dell’acqua come avesse voluto oltrepassare il ponte volando. Seguì lo schianto del pennone che si spezzò in più parti facendole sfrecciare in tutte le direzioni. La chiatta, finalmente libera da ciò che la tratteneva come un amante geloso, ripiombò pesantemente sull’acqua alzando ondate di spruzzi di diversi metri. Harper faticò a governarla ma poi le fece riprendere l’assetto ordinario.
«È andata bene, dopotutto…» sbottò tutto sudato Harper volgendosi verso poppa «non trova?».
Una porzione di pennone era fiondato là ove era seduto Logan; la panchina era stata sradicata dal ponte trascinando gran parte del parapetto nel fiume. Logan non c’era più.
Per un po’ il Comandante rimase a bocca aperta. Si portò verso la zona poppiera a scrutare il fiume melmoso. Non c’era nulla sulla sua superficie se non le venature dell’acqua che si accavallavano confuse sulla scia della chiatta.
Guardò l’orologio.
«Però sono in orario…» sospirò. E si aggiustò il berretto tornando al timone.

In gurgite vasto

Aveva vissuto i primi mesi di pensione con entusiasmo. Durante gli ultimi giorni di lavoro aveva pensato a quante cose finalmente avrebbe potuto fare quando si fosse finalmente liberato di quella noiosa routine quotidiana. E lui qualche buon proposito era anche riuscito a realizzarlo una volta acquisita quella libertà ma poi, pian piano, si era fatto sorprendere da una strisciante apatia, da una voglia insopprimibile di non far nulla, complice anche qualche acciacco di troppo della sua salute.
Lo sforzo di dare una cadenza alla sua giornata si era fatalmente infranto nella mancanza di prospettive, nella sensazione di trovarsi ai margini del mondo produttivo, di essere fuori dal novero della gente utile, di chi aveva uno scopo sin da quando al mattino si alzava dal letto. Si accorse così di non aver coltivato hobby né amici degni di questo nome, né poteva contare su nipoti da far giocare o da andare a prendere a scuola. E, a poco a poco, gli si spalancarono le porte della depressione.
Di tutte le sue attività che si era imposto di provare gli era rimasta solo la passeggiata del pomeriggio, ma solo quando era bel tempo e non c’era troppa confusione in giro. Passeggiava da solo, lentamente, cercando di scacciare i pensieri più cupi. Si stava rendendo conto che il lavoro, per quanto usurante e deludente, aveva da sempre riempito di senso la sua vita, mentre ora aveva davanti a sé, per ciascuno giorno che il Padreterno mandava in terra, un’intera e lunga giornata da far trascorrere.
Così, lungo il solito percorso passò sul ponte. La vista sul fiume e sulla valle lo tranquillizzava. In quel punto poteva godere anche di gran parte dei monumenti della città, scorgere qualche canoa sfidare la corrente e alcuni pigri pescatori impegnati nei loro gesti lenti e pazienti. Ma quel giorno su fiume non c’era nessuno. Era piovuto con insistenza nei giorni precedenti e l’acqua era limacciosa e molto mossa.
Poi la sua attenzione fu attratta da un punto nero in mezzo alle onde. Sapeva di una famigliola di nutrie che avevano trovato lungo le sponde il loro habitat naturale ma non gli sembrava: si trattava di qualcosa di diverso. Si mise a fissare quel qualcosa che stava procedendo nella sua direzione, nella corrente, a gran velocità. Ma sì, ora lo vedeva bene… era una persona: stava lottando per rimanere a galla e ogni tanto finiva per diversi secondi sott’acqua. Lui d’istinto scavalcò la balaustra di protezione e si spinse sul pilone. Si tolse il giubbotto e le scarpe. Non era sicuro che avrebbe potuto fare qualcosa. Non era granché come nuotatore ma certamente non poteva lasciarlo annegare. Si volse attorno alla ricerca disperata di qualcuno che potesse aiutarlo, ma era proprio solo. Forse era arrivato davvero il momento di dare un senso alla sua giornata e a quel triste periodo che stava vivendo, pensò. E intanto l’uomo tra le onde si stava sempre più avvicinando al ponte. La forza del fiume faceva rotolare il suo corpo vincendo agevolmente i suoi sforzi per rimanere a galla. Quindi, all’improvviso, lo riconobbe. Anzi, si riconobbe. Era lui, era indiscutibilmente lui. Era persino vestito allo stesso modo. Non era possibile! Lui era sul ponte, non poteva essere anche laggiù in balia del fiume. Si paralizzò proprio mentre era sul punto di gettarsi. L’uomo nell’acqua si avvicinò ancora di più, prossimo ormai a superare l’arcata principale del ponte, e gli venne così vicino da poterlo vedere bene in volto. L’uomo tra le onde, per un tempo che parve infinito, lo guardò fisso negli occhi quasi reclamasse una risposta; il suo sguardo era sereno, rassegnato, come quello di un vinto. E poi, avendo capito che non sarebbe stato salvato, chiuse le palpebre, e si lasciò andare nel profondo del fiume limaccioso.

L’app ministeriale

«Quando esci, allora?»
«Domani… alle 12.04.»
«Farà caldo!»
Il marito era in piedi accanto alla finestra. Il sole inondava di bagliori il cielo estivo incendiandolo di azzurro.
«Non c’era una slot libera, prima di quell’ora: tutte occupate. Fino a quando la bella stagione non finirà, trovare un corridoio utile per uscire di casa non sarà semplice. Preferisco però uscire di meno, piuttosto che dopo la mezzanotte. Lo sai.»
La moglie notò le nuove tegole del tetto del palazzo di fronte brillare di un rosso più acceso rispetto alle altre. Non avrebbe mai finito di chiedersi che senso poteva avere rifare un tetto solo a metà.
«Sono stato però fortunato» proseguì il marito «perché l’app mi consente questa volta di spingermi fin verso il lungofiume. Posso fermarmi addirittura sette minuti sulla panchina di piazza Martiri, proseguire per San Giuseppe e poi svoltare dopo tre minuti su via Kristiansen…»
«Quindi puoi comprare il giornale…»
«Purtroppo no, devo necessariamente girare prima, per vicolo Annigoni e…»
«Certo non ci voleva…»
«Come dici, cara?»
«Dico che non ci voleva… vuoi un caffè?»
«Sì, grazie…»
«Sono bastate le vacanze di Pasqua e quelle del 25 aprile perché la gente, del tutto sorda ai divieti imposti, si riversasse nelle strade. Così si è ricominciato tutto come prima con questo benedetto virus; anzi peggio di prima.»
«Già: ora la distanza minima è di tre metri e si può uscire solo prenotandosi per tempo con l’app del ministero, su percorsi prestabiliti.»

(Il giorno dopo)
«Vai?»
«Sì» fece lui un po’ emozionato. «Intanto comincio a scendere. Ci metto un po’ a fare le scale» disse continuando a controllare il cellulare che gli stava indicando quando tempo gli mancava all’inizio della passeggiata.
«Mi raccomando, stai attento, perché sei sempre un po’ distratto.»
Lui annuì mettendosi la mascherina, poi gli occhiali protettivi, la visiera in plexiglass e gli indumenti e le scarpe da passeggio sterilizzati. Poi alzò il pollice verso la moglie come se stesse salendo su una navicella spaziale. Sulla soglia del portone lo attendeva un sole caldo e invitante. La via era semivuota; c’era un anziano che percorreva a nord quello che l’app indicava essere come corridoio AFG556K; una signora elegante, dall’altra parte della strada, era arrivata invece al termine del suo percorso e stava già facendo dietro front proprio mentre dalla parte opposta stava arrivando un giovane anche lui pesantemente scafandrato. Lo smartphone vibrò nella sua mano. Doveva partire. Percorse dieci metri verso sud a passo normale, poi girò per due minuti verso est. Un tizio, con in mano una busta pesante della spesa, gli arrivò fino a tre metri di distanza proveniente dalla piazza e poi svoltò correttamente verso sinistra, allontanandosi. Lui proseguì verso il fiume, senza più deviazioni, pensando che, dopotutto, se la sarebbe potuta anche godere quella passeggiata se non fosse che doveva controllare in continuazione il cellulare che gli scandiva percorso e durata. E soprattutto si sarebbe potuto rilassare se non ci fossero stati tutti quei droni in volo a controllare che la circolazione dei pedoni fosse quella esattamente programmata. Arrivò alla panchina. Aveva sette minuti di sosta. Volle esagerare. Tirò fuori le parole crociate. Anche se si accorse di aver perso undici secondi per trovare il punto dove era rimasto l’ultima volta, iniziò di buona lena a fare il suo “Bartezzaghi”; ma era appena riuscito a concentrarsi che il cellulare vibrò di nuovo. Doveva già muoversi. Si alzò a malincuore e fece tutto il lungofiume fino a quando dovette svoltare. Cercò di riempirsi gli occhi con le immagini di quelle onde limacciose e poi tirò giù per quattro minuti e mezzo verso la Chiesa di Ognissanti. Stava arrivando al punto di svolta per tornare a casa quando si accorse che qualcosa non andava. Verso di lui stava infatti sopraggiungendo una ragazza che portava a spasso un cane. La ragazza era priva di mascherina, anzi, era priva di qualsiasi protezione. A ben vedere, procedeva senza una meta precisa, scanzonata, tranquilla, seguendo con gli occhi il cavalier king che annusava e scodinzolava davanti a lei; come si faceva una volta, insomma. Lui si arrestò. Non sapeva che fare. Non c’erano istruzioni su come comportarsi in casi simili. Peraltro da lì a pochi attimi lei sarebbe entrata nel suo spazio sanitario protetto, con grande rischio di contagio. Non riusciva però a muoversi. Era come ipnotizzato. Anche gli altri passanti, bruciando  secondi preziosi del loro percorso, si erano fermati ad ammirarla. Quell’incedere, senza darsi cura di regole e cautele, pareva un gesto eversivo, di assoluta libertà, straordinario, inaudito. Ed era bellissimo.
In un attimo arrivò la camionetta della polizia militare. I soldati scesero in un lampo bloccando la malcapitata a terra con pochi collaudati gesti; una manciata di secondi dopo già la stavano portando via sotto gli occhi increduli del cane che non si era ancora neppure messo ad abbaiare.

A faccia in giù

Dopo tanti anni era ritornata nella sua città. La trovò molto cambiata: diversi negozi erano nuovi, i turisti parevano dappertutto, forse c’era più colore, ma anche più confusione e sporcizia. Quando l’occhio però cadeva lungo le vie traverse, la vita di allora sembrava esservi rimasta intrappolata intatta: le botteghe degli ultimi artigiani, la quotidianità semplice che s’indovinava dalle finestre aperte, la luce che spioveva di sbieco sulle pietre antiche.
«Entriamo qui dentro…» gli disse d’un tratto tirandolo per il giubbotto. L’uomo quasi si spaventò per il modo repentino con cui glielo aveva detto.
«Dobbiamo entrare in una biblioteca? Adesso? A fare?»
«Chetati e vieni con me!»
La donna entrò decisa come se avesse sempre saputo dove andare. I passi liberarono un’eco irriverente tra le volte severe della biblioteca e un andirivieni assorto di giovani indaffarati la sfiorarono distrattamente. Dopo una decina di metri svoltò a sinistra per poi piazzarsi davanti a un ampio televisore acceso mentre su un pannello tutt’attorno grandi fotografie in bianco e nero documentavano la tragedia; scene crude dell’alluvione di cinquant’anni prima, scene violente di una realtà opaca, cupa, disperata. L’uomo finalmente la raggiunse anche se guardava più lei che il resto.
Sul televisore cominciarono così a passare spezzoni di brevi filmati amatoriali ma anche di telegiornali dell’epoca restituendo ciò che di ineluttabile quel giorno accadde. Si vedevano vetture sbattute qua e là dalla forza irosa dell’acqua come barchette di carta a demolire segnali stradali instabili come birilli; onde d’acqua sporca mista a gasolio rovesciarsi dalle spallette del fiume nelle vie della città a cercare una nuova strada che potesse contenerle; uomini e donne, dall’aria apparentemente composta, a spalar fango, a spostare libri, togliere detriti e quel che restava di un incubo che non voleva sciogliersi alle luci della sera.
«Ecco» fece lei con uno scatto verso il televisore e premendo il pulsante del fermo immagine. Il fotogramma mostrava il corpo di una persona che roteava a faccia in giù nella corrente melmosa come un manichino rotto. Lei prese il telefonino e lo fotografò. L’uomo, spalla a spalla, la guardò stupito per quel gesto inaspettato; ma la donna era immobile su quel fotogramma sospeso nel tempo.
«Lo conosci?» ebbe poi il coraggio di chiedere.
«Era mio nonno. Quel giorno dovevamo andare a trovarlo per trascorrere la giornata insieme; allora era festa nazionale, il 4 novembre; era sceso in cantina a prendere le bottiglie di vino per il pranzo quando l’acqua del fiume è entrata a tradimento dalla bocca di lupo e lui non è più riuscito a guadagnare le scale; quando l’acqua in pochi secondi ha saturato la cantina ha anche sfondato il muro come fosse d’ostia e lui ne è uscito trascinato via dalla forza del fiume. Lo hanno cercato per giorni. La furia del fiume se l’era portato giù a valle per chilometri senza trovare ostacoli, fino al mare.»
L’uomo si era fatto pallido ad ascoltarla: «Non… non lo sapevo, non me l’avevi mai raccontato… è terribile.»
«Pensa che viveva del lavoro nei campi, non usciva mai dal suo podere, anche se aveva sempre desiderato di vederlo, il mare. E il mare lo aveva accolto quella mattina come se aspettasse un figliol prodigo… solo che lui, il mare, non poteva più vederlo.»
Si fece un silenzio opprimente, soffocante, acido.
Poi lei si voltò verso di lui: «Ma dai… ci hai creduto!» fece lei aprendo il volto a un sorriso contagioso. «Non ho mai conosciuto mio nonno, non so nemmeno che faccia abbia! Va là che sei proprio un boccalone tu… ti bevi proprio tutto…» fece lei prendendo l’uscita.
«Figurati… l’avevo capito subito che stavi recitando…» rispose lui risentito mettendosi sulla sua scia «sei una brava attrice tu, te l’ho sempre detto.»
«Sì sì, come no?» fece lei facendo le scale di corsa. «E ora portami a mangiare che ho fame.»
Il rumore festoso della città li abbracciò entrambi come se fossero stati via per anni.
«Ah, mi sono dimenticata dentro il cellulare… aspettami qui, torno subito» fece lei tornando indietro.
Rifece di corsa tutto il percorso fino al televisore che mostrava ancora quel corpo immobile nell’acqua. Lei aprì la mano e la adagiò su quell’immagine.
«Ti penso sempre, nonnino caro. Vai, vai verso il tuo mare» sussurrò. E sbloccò il fermo immagine.
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Purdey

Ci trovavamo su quel fiume da un paio d’ore. Il sole era basso tra le mangrovie insonnolite e il manto degli ibis scarlatti risaltava ancora di più in mezzo ai colori spenti della palude. Era la prima volta che io e Chase ci trovavamo in quel braccio d’acqua non indicato dalle mappe ufficiali, ma le indicazioni di caccia erano state ottime e le aspettative erano davvero alte.
Per non spaventare la fauna procedevamo con il motore del fuoribordo al minimo. Fu quello il momento in cui sentimmo ondeggiare per la prima volta la barca.
«Deve essere un lamantino» mi disse Chase sorridendo e scrutando l’acqua melmosa. «Ce ne sono di enormi qui». E prima che io potessi dire qualcosa prendemmo una seconda gran botta a prua. L’urto fu così inaspettato e potente che Chase perse l’equilibrio tanto da finire con le mani nell’acqua perdendo il cappello. Ebbi la prontezza di riflessi di afferrarlo per il giubbotto, ma per il contraccolpo scivolai anch’io lungo l’altra fiancata della barca, ritrovandomi nel fiume. L’acqua era marrone, sapeva di marcio ed era sorprendentemente calda. Chase mi aiutò a tirarmi a bordo. Ero già pressoché all’interno dello scafo quando mi sentii agguantare con una violenza inaudita. Un coccodrillo di cinque o sei metri era sbucato dall’acqua inarcando il dorso e afferrandomi il piede sinistro. L’avevo sentito ruggire e ansimare per lo sforzo di lanciarsi contro di me e poco prima che mi mordesse sentii distintamente il rumore meccanico delle sue mascelle. Mi strappò dalla barca con una forza assoluta, trascinandomi nel profondo del fiume come un bambolotto di pezza. Era successo tutto in pochi attimi: mi stavo godendo il respiro magico della foresta pluviale e subito dopo lottavo per la vita trattenendo il respiro e cercando inconsciamente qualcosa cui aggrapparmi nell’acqua scura. I polmoni presero ben presto a bruciarmi nel petto e il bisogno di ossigeno era diventata l’unica ossessione di quel momento. Non sentivo male, non mi curavo del coccodrillo: volevo solo respirare.
Dopo avermi portato fino a quella che doveva essere la sua tana, la bestia prese a ruzzolarmi sul fondo; mi teneva schiacciato con il suo muso nel fango rigirandomi con le possenti zampe: sapeva che ero vivo e voleva affogarmi. In una di queste giravolte devo aver battuto la testa da qualche parte perché ho perso i sensi e quando mi sono risvegliato per il dolore al braccio già mi trovavo incastrato sotto delle radici di una grossa mangrovia. Vicino a me c’erano i resti di una scimmia e di un altro animale con le setole, difficile dire quale. Certo è che mi trovavo nella dispensa del coccodrillo, messo lì a frollare per un po’. Avevo, per fortuna, il viso schiacciato a pelo dell’acqua e respiravo tra le radici, anche se a tratti, e solo quando l’onda non mi passava sulla faccia. La gamba che mi era stata masticata non la sentivo più e il braccio destro doveva essersi rotto malamente perché usciva storto, in modo innaturale, dalla manica del gilet. Avevo sete, avevo paura e mi sentivo mancare per il dolore.
Dopo qualche tempo volli controllare le condizioni del piede. Feci diversi tentativi di immersione nonostante i dolori lancinanti e poi finalmente nell’acqua opaca lo intravidi. La scarpa, con il piede dentro, era attaccata alla gamba per un moncone. Dovevo fare qualcosa. Perdere sangue così, nell’acqua, oltre a dissanguarmi, poteva solo attirare altri predatori. Non sapevo che fare. Cercai di raggiungere il piede con l’altra mano ma inutilmente: non riuscivo a muovermi. C’erano dei rami sott’acqua che mi tenevano bloccato a contrasto con le radici dell’albero e uno, in particolare, molto appuntito, mi premeva sulle reni.
Poi, nell’ultima immersione, d’un tratto, dal centro del fiume vidi comparire prima gli occhi gialli e inespressivi del coccodrillo e poi il suo enorme muso a triangolo. Era venuto a vedere se c’ero ancora e se tutto funzionasse per il meglio. Mi ispezionò per bene. Socchiusi le palpebre come per fagli intendere che non potevo scappare. Arrivato all’altezza del piede che gli ciondolava sul muso come un’esca me lo staccò di netto. Sono svenuto un’altra volta.
È solo per la pioggia calda e battente sul viso che mi sono svegliato di nuovo, ma era già notte. Aveva preso a scrosciare forte come succede a quella latitudine. E ben presto quell’ansa del fiume si ingrossò rapidamente tanto che la corrente creò un mulinello sotto la mangrovia svuotando la dispensa. Mi ritrovai ancora una volta nel fiume, in sua balia; solo che adesso ero immerso nell’oscurità totale di una natura selvaggia, le gambe avanti, il corpo inerte dietro; galleggiai per un tempo infinito, le stelle luminose sopra di me, fino a quando non impattai qualcosa; alle prime luci dell’alba capii che era il tronco di un albero caduto di traverso. Poteva essere la mia salvezza ma non riuscivo a muovermi. Ero sfinito, debole, probabilmente avevo la febbre alta. L’acqua tiepida attorno a me non riusciva ad alleviare i brividi di freddo che scuotevano violentemente il mio corpo. Cercavo di non urlare, per evitare che l’acqua sporca del fiume mi entrasse in bocca. Staccai un rametto e presi a morderlo disperato.
Dopo qualche ora mi sentii afferrare per il colletto della camicia. Non era evidentemente ancora finita. Era un lupo. Mi trascinò lentamente standosene sul tronco e sfruttando il fatto che nell’acqua pesassi poco. Giunto sull’arenile, ne arrivò un secondo e poi un terzo che mi presero per il braccio rotto e mi tirarono su fin dove era asciutto. Urlai per il male ma questo li spaventò solo per qualche secondo perché tornarono subito dopo per continuare a mangiarmi anche se erano sospettosi non capendo che tipo di animale io potessi essere. Ero una facile preda, però, inerme, e dunque un ottimo pasto; e non si butta mai via niente nella palude.
Pregai solo che finisse tutto presto. Che cominciassero dalla gola e che perdessi subito i sensi.
Dall’alto della golena ho sentito invece esplodere alcuni colpi di fucile.
Era il Purdey di Chase. Avrei riconosciuto la voce del suo fucile, tra mille. Del resto glielo avevo regalato io.
I lupi fuggirono, controvoglia, più per prudenza che per paura. Io chiusi gli occhi.
Sentii Chase scendere dalla ripa, molto lentamente. Non aveva fretta. Era sicuro che fossi già morto.


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