Un triste sognatore (seconda e ultima parte)

[RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE: Paul è contento della sua
vita dorata che trascorre negli agi e in compagnia di una 
bellissima ragazza. Tutto va per il meglio fino a quando non scopre, 
a causa di un lieve malessere, che la realtà che sta vivendo è molto 
diversa da quella che credeva: lui esiste solo perché è il frutto del 
sogno di una persona frustrata dalla propria esistenza]

Paul non si poteva arrendere a tutto questo, non avrebbe mai permesso di sparire definitivamente chiuso in qualche cassetto mnemonico di chissà quale oscuro individuo e perdere quanto di più bello aveva potuto conoscere.
Cominciò così ad indagare cercando di capire chi fosse la persona che lo aveva creato e che ora aveva decretato la sua fine. Scoprì che si trattava di un grigio impiegato che lavorava in una dimenticata e squallida biblioteca alla periferia di una megalopoli del Sud del Paese. Una persona dalla vita monotona e incolore che evadeva dalla sua esistenza privo di qualsivoglia svago immaginandosene un’altra piena di soddisfazioni e di esperienze fantastiche. Ma ora, anche in quella tediosa vita, qualcosa era cambiato. Paul scoprì infatti che il triste sognatore aveva vinto un premio favoloso a un concorso nazionale. La fortuna lo aveva aiutato e adesso tutto ciò che aveva solo sognato avrebbe potuto viverlo in prima persona. E’ per questo che Paul di lì a poco non sarebbe più servito a nulla, come si doveva più sognare un qualcosa che finalmente si sarebbe potuto realizzare! Doveva allora far presto, doveva trovare una rapida soluzione per salvare il suo mondo e quanto più gli era caro. Gli venne così in mente che il suo mesto sognatore avrebbe potuto ritornare a desiderare di essere ricco se solo avesse perso ogni cosa e fosse tornato a essere quello di prima.
Fu così allora che, in uno dei più sbiaditi sogni in cui aveva potuto prender corpo, Paul riuscì a convincere il sognatore che dalla brace rimasta accesa nel camino di casa sua si era staccata una scintilla che aveva incendiato il tappeto per poi estendere le fiamme ai quadri e ai mobili della sua nuova e sfarzosa villa. Preso dal panico, il sognatore, pensando che il sogno fosse reale, si buttò a capofitto dalla scala del soppalco dove dormiva e, complice il buio, mise un piede in fallo cadendo malamente e ferendosi seriamente.
Paul poté così ritenersi soddisfatto. Il sognatore, a seguito della caduta rimase paralizzato dalla cintola in giù, cosicché i soldi che finalmente aveva vinto non gli sarebbero serviti se non per avere dei domestici e infermieri che lo avrebbero accudito e aiutato a prendersi cura di lui mandando avanti la casa. Avrebbe però anche dovuto rinunciare a poter vivere una nuova esistenza come la intendeva lui vale a dire viaggiando, facendo sport, andando a ballare in feste sontuose, circondarsi di donne bellissime. Il sognatore, piano piano, riprese i suoi vecchi sogni rimettendo Paul nel suo ufficio, circondandolo, ancora una volta, di tutte le belle cose che mai avrebbe potuto più avere compresa la compagnia della splendida Colette.
Paul si ritrovò a ricuperare il braccio perso e ogni altra parte del corpo che gli era sparita. Anche la giovane mulatta aveva preso di nuovo posto accanto a lui, così come i suoi conti in banca erano diventati floridi. Ogni cosa era tornata al suo posto.
Per festeggiare Paul passò da una parte all’altra del mondo, visitò casino, alberghi e ristoranti stupendi. Si comprò persino uno yacht di quaranta metri con interni lussuosi ed equipaggio esperto.
Così accadde che, una sera, Paul si trovasse proprio a bordo del suo nuovo yacht ancorato appena fuori un porticciolo su di un’isola sperduta nel mare dei Caraibi. Si trovava sul ponte principale a godersi il suo aperitivo alla brezza serale di quell’angolo di paradiso quando sentì un rumore dietro di sé.
«Sei tu Colette?» chiese Paul girandosi sorridente.
No, non era Colette. Era solo un’ombra, l’ombra di un uomo con un giaccone blu ed un passamontagna scuro a coprirgli il volto.
«Lei chi è? Che ci fa sulla mia barca?» chiese quasi balbettando Paul.
«È stato un gioco piuttosto sporco quello che hai messo su, non è vero, Paul?»
Lui rimase in silenzio. Qualcosa nel suo piano non doveva aver funzionato.
«Vedi, mio caro» fece l’uomo non uscendo dall’ombra che lo proteggeva «non si può mai sapere cosa può passare nell’intuito di un uomo. La mente, come si sa, può essere anche ottusa, poco intelligente persino distratta. Ma l’intuito, eh sì l’intuito, quello non conosce strade rette, ubbidisce a regole non scritte, irrazionali, percorre via impensabili, capisce e arriva là dove la mente razionale si ferma. Una cosa meravigliosa e delicata, ma anche capricciosa e testarda perché può, da una parte, decidere di sognare per potersi stordire e non pensare, ma può anche ritenere che non ne valga più la pena di rifugiarsi in effimeri e vacui sogni se la vita non è più degna di esser vissuta.
«Non vorrà per caso suicidarsi il nostro sognatore?» fece allarmato Paul stringendo il bicchiere che era lì lì per rompersi tra le sue dita.
«No, suicidarsi no, questo davvero glielo impedirò».
«E allora cosa è successo, cosa vuoi?»
«Sono venuto a dirti che il nostro amico è diventato, grazie alla tua bella trovata, di pessimo umore. È depresso e agitato, in poche parole dorme poco e male. Pensa a tutto quello che avrebbe potuto avere e che non avrà mai come in una ossessione. Insomma, come dirtelo caro Paul, quando si addormenta ha iniziato ad avere dei terribili incubi».
«Incubi?!?»
«Sì, incubi!»
«Ma è normale avere ogni tanto degli incubi…»
«Il tuo problema è che il suo incubo sono io; il nostro sognatore in altre parole non ha più bisogno di te. Non c’è più spazio per sogni dorati e donne fatali. E poi come tu sai ci sono incubi innocui e incubi orribili, incubi questi ultimi cioè che possono uccidere i sogni, buoni o cattivi che siano. Io sono insomma la sua nuova realtà onirica, fatta di rivalse, vendette e rivincite sulla vita amara e ingiusta che gli è capitata grazie a te.»
Dicendo così l’uomo tirò fuori dalla tasca qualcosa che Paul non capì bene cosa potesse essere. Poi un raggio di luna si posò sulla canna della pistola riflettendosi proprio nell’occhio sbarrato di Paul. Seguirono tre colpi in rapida successione che trapassarono il corpo di Paul frantumando al loro passaggio persino il bicchiere di cocktail che esplose in una fantasia di mille colori e questo proprio mentre l’uomo come un masso precipitava all’indietro nell’acqua sottostante. Seguì un tonfo sordo, come se venisse da lontano, subito coperto dal risveglio dell’uomo che sognava e che, sorridendo, come non aveva fatto ormai da molto tempo, chiese per favore al domestico un bicchiere di champagne.

Un triste sognatore (prima parte)

Paul era decisamente soddisfatto. Ai bordi della sua piscina, sorseggiando un classico champagne da mezzo pomeriggio, guardava la sua nuova splendida compagna nuotare nell’acqua tersa di quella vasca. Paul era giovane, bello, davvero ricco e nulla sembrava preoccuparlo più del fatto che quello che stava bevendo avrebbe potuto di lì a poco riscaldarsi tra le sue dita.
Ma forse, a ben guardare, qualcosa che lo preoccupava forse c’era davvero. Da qualche giorno, un fastidioso torpore al braccio destro gli stava dava noia. Gli prendeva, prima come un leggero formicolio alle dita, e poi saliva verso il polso impossessandosi dell’avambraccio e di tutto il braccio fin quasi a non sentirlo più. ‘Passerà’, pensava Paul, sorridendo alla modella mulatta emersa dall’acqua della piscina come una venere; ‘passerà non può essere nulla di grave’.
Il giorno dopo Paul partì per un viaggio di affari. Andò in Europa, prima in Inghilterra e poi a Parigi. Colse l’occasione, in tarda serata, per fare un giro per la capitale che trovava sempre seducente e piena di fascino. Si ritrovò così a Saint Germain de Prés, nel quartiere latino, a sorbire una cioccolata a “Les Deux Magots” il caffè storico che si affaccia in modo sontuoso sul boulevard principale, sempre animato di gente e da artisti da strada che tanto gli piacevano. Anche Colette, che lo aveva seguito in quel viaggio, sembrava divertirsi. ‘Ma com’era bella quella donna’, pensò guardandola mentre sorrideva; e quella sera lo era più che mai. Forse perché Colette a Parigi ci era nata, tanto da muoversi con quella spigliatezza tipica di chi ci ha vissuto.
Tutto sembrava perfetto insomma: l’atmosfera, la serenità che aveva nel cuore, la tranquillità per il futuro che solo il danaro e la giovinezza potevano dare. Poi all’improvviso sentì ancora una volta il formicolio montargli dalle dita. Provò un fastidio acuto, come se quel disturbo capitasse a sproposito a rovinargli una serata meravigliosa. Paul cercò di distrarsi ordinando un altro dessert, distogliendo il più lontano possibile il suo sguardo come per scacciare l’immagine della propria mano che sembrava diventare insensibile. Si distrasse tanto profondamente che non sentì Colette che lo chiamava più volte. Era arrivato quello che aveva ordinato. Paul allora allungò la mano ma il movimento andò a vuoto. La sua mano non c’era più. Era sparita e persino tutto il braccio. Dalla spalla non si dipartiva nulla, semplicemente mancava l’arto anteriore destro, come se non ci fosse mai stato. L’uomo riuscì a non gridare. Sudò freddo. Poi riprendendosi si limitò a prendere il bicchiere con l’altra mano portandoselo alle labbra in modo maldestro perché parte del liquido gli cadde sul vestito.
«Ma tu tremi…» gli fece notare Colette che pareva non essersi accorta di quanto di più grave stava accadendo. «Non stai bene?»
Paul avrebbe voluto gridarle ‘ma come, non vedi che non ho più il braccio, certo che tremo!’ Ma stette zitto. Non riusciva ancora a rendersi ben conto della situazione.
«Vuoi rientrare?» gli disse lei comprensiva.
«Sì, forse è meglio, si è fatto tardi».
Il taxi arrivò subito. Paul si chiese se lei si fosse accorta di quanto era successo e avesse preferito non toccare l’argomento o se invece realmente non aveva visto niente. Ma se l’aveva notato, perché mai non gli chiedeva una spiegazione? Non era di certo normale che un braccio sparisse da un momento all’altro.
All’hotel, quando Paul si spogliò, lei non stette a guardarlo così quando poco dopo lui sotto le coperte, cercava di prendere inutilmente sonno, ogni tanto si tastava la spalla destra come se si aspettasse che da un momento all’altro il braccio ricomparisse. Si addormentò all’alba, oramai sfinito dalla veglia e dalla tensione. L’ultima immagine che aveva avuto negli occhi era il viso addormentato e sereno di Colette che gli respirava accanto come se tutto fosse normale.
Fu la sua compagna a svegliarlo, ripetutamente, dicendogli che l’aereo non li avrebbe aspettati e che bisognava far presto se voleva far colazione. Ancora assonnato, Paul s’infilò nel bagno. Mise la testa sotto la doccia fredda nella speranza di riuscire a riaprire completamente gli occhi. Se ne rimase così, forse anche una decina di minuti, poi si asciugò con la sola mano che gli restava. Ma quando si guardò allo specchio si sentì mancare. L’orecchio sinistro e gran parte della mascella dalla stessa parte erano spariti. Non solo il braccio non era ricomparso, ma ora anche parte del viso era come in parte cancellato. Paul si sedette sull’angolo della vasca, cominciò ad avere paura. Gli mancava il respiro.
Sentì Colette chiamarlo, gli chiedeva se stesse male visto che ci stava mettendo molto ed aveva anche cercato di entrare. Paul la rassicurò, disse che aveva finito.
«Colette» le disse uscendo finalmente dal bagno «ma non vedi nulla di strano in me?»
«Beh di strano direi proprio sì» rispose lei con uno di quei sorrisi assolutamente indimenticabili «non ti sei fatto la barba ed è proprio tardi».
«No, dicevo qui alla faccia» cercò di chiarire Paul sempre più spaventato indicando la parte del viso con l’unico braccio che gli era rimasto «e… e il braccio… non ho più il mio braccio destro!»
«Che c’è da vedere? Solo che sei il mio solito bellissimo Paul, cos’altro? Non manca nulla. Certo che sei strano questa mattina!»
Ci vollero diversi giorni a Paul, cui nel frattempo era venuta meno anche una gamba, perché comprendesse appieno che lui, in verità, non esisteva. Si consultò con diversi specialisti e finalmente apprese la verità. La sua villa, le sue automobili, il suo ufficio nell’attico del grattacielo che portava il suo nome, tutto quello cioè che in tanti anni aveva imparato ad amare e a godersi erano in realtà il frutto della fantasia di qualcun altro. Lui esisteva sì, ma solo in quanto era il sogno di qualcun altro e, quel che c’era di peggio, questo qualcuno lo stava volutamente dimenticando, come fosse stato stanco di rievocarlo ogni notte nei propri sogni. Fu un grave colpo per lui e per poco non impazzì.

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(seconda e ultima parte)

Io e te…

La ragazza entrò in cucina ciabattando, il viso nascosto dai lunghi capelli biondi. Erano quasi le dieci del mattino, ma per Rita era come se fosse l’alba.
«Cosa vuoi per colazione?» domandò la madre con tono sommesso per non dar fastidio alla figlia.
La ragazza si limitò a grugnire qualcosa di indefinibile che però la madre riuscì a capire mettendosi ai fornelli.
«Ma ce l’hai ancora con me?» chiese a un certo punto la donna voltandosi di scatto. La ragazza non rispose.
La madre riprese a scaldare il latte e a mettere sul fuoco la moka; tirò fuori dal pensile una confezione di fiocchi di avena e la posò sul tavolo.
«Allora, possiamo parlare un po’?» domandò ancora la donna ora con tono supplichevole.
«Perché, ti importa qualcosa di me?» disse la ragazza in modo rude e la voce ancora impastata.
«Ma certo che mi importa di te, sei mia figlia, sei tutto il mio mondo, la cosa più preziosa che ho…»
«E allora perché non mi permetti questa sera di andare alla festa di Luca? Eh? Che cosa ti costa? Ci tengo tantissimo, lo sai… Sono settimane che te lo chiedo.»
La madre spense il fuoco sotto il pentolino e ne versò il contenuto nella tazza dove aveva già messo il caffè.
«Dobbiamo parlare, Rita, dobbiamo farlo necessariamente, e subito…» disse lei risoluta, allungandole la tazza.
«Io con te non ci parlo mai più… la mia vita è rovinata per sempre, grazie a te, perderò l’amore di Luca e…»
«Stammi sentire, Rita…» fece la madre sedendosi al tavolo della cucina, vicino a lei.
La figlia si era messa a squadrarla con aria di sfida, ma la madre non riusciva a trovare le parole.
«Ecco vedi, come al solito, quando è il momento, non sai cosa dire…» la rimproverò.
«Non è così, non è così…» fece la donna lisciando davanti a sé una piega inesistente della tovaglia. «Tu… tu… non puoi andare a quella festa perché… perché moriresti… Verso l’una ti riaccompagnerebbe a casa Luca che, drogato, bucherà con la macchina uno stop schiantandosi così contro una moto…»
La figlia la stava osservando incredula.
«Cosa stai dicendo?» fece dopo qualche attimo con la voce che le tremava di rabbia. «E mai possibile che devi arrivare a tanto? Luca non si è mai drogato in vita sua… e mai lo farà!»
«Lo farà, lo farà… i suoi amici gli faranno lo scherzo di mettergli una pillola nella birra mentre lui è distratto a parlare con te e, nonostante non sia in grado di guidare, lo farà ugualmente per portarti a casa…»
«Questo è incredibile! Che cosa ti devi inventare ancora per negarmi il permesso di andare a quella festa? Ti detesto mamma, con tutte le mie forze!» e afferrò la tazza del caffellatte per andarsene nella sua stanza.
La madre la prese con decisione per un braccio impedendole di alzarsi.
«Ahia! Mi fai male, sei impazzita!?!»
«Siediti, non ho finito. C’è dell’altro!»
La figlia aveva appena visto sul volto della madre un’espressione che non conosceva e si spaventò.
«Io e te… io e te…» mormorò la donna incespicando nelle parole «…non esistiamo.»
«Cosa dici, mamma, stai vaneggiando? Cos’hai fumato?» chiese la ragazza sempre più preoccupata.
«Vedi, piccola, noi siamo il prodotto del sogno di una donna che si chiama Alma..»
«Allora si chiama come te, mamma…»
«Sì, si chiama proprio come me. Alma aveva una figlia, Rita, proprio come te, che, quando quest’ultima aveva sedici anni, la sera del 17 di maggio, cioè oggi, è andata a una festa per stare con il suo Luca… Be’, tutto il resto te l’ho appena raccontato…»
La figlia era rimasta senza parole.
«Dopo quel fatto tragico in cui perse la figlia, tanti anni fa, Alma è entrata in una grave depressione. Ha rivisto in sogno, il suo incubo ricorrente, questa stessa scena per migliaia di volte; e ogni volta ha sempre sperato in un esito diverso, che ti salvasse la vita, senza mai però riuscirci. E dopo anni di terapie per non impazzire, di sforzi e di impegno costante, Alma sta guarendo. Presto, prestissimo, non farà più questo sogno, dove io e te esistiamo…»
Rita stava cercando di dire qualcosa ma non ci riusciva.
«Ecco, ecco…» disse Alma gridando e alzandosi in piedi, come se avesse sentito qualcuno arrivare alle sue spalle. «Sta succedendo prima del previsto, proprio ora…»
In un’esplosione di luce la parete alle sue spalle in un attimo scomparve e poi madre e figlia si videro come in un negativo di fotografia. La luce intensa divenne accecante in un crescendo dirompente, divorando ogni cosa.
E poi più nulla.

L’AM-Z

L’allarme scattò all’improvviso mentre stava ordinando le sue cose per andare al lavoro. Era un suono potente, pervasivo, definitivo. E aveva un solo significato. In un attimo abbandonò la borsa, l’incartamento che avrebbe voluto studiare in treno, la colazione. Presto non ci sarebbe stato più un luogo ove lavorare, né un treno, né la preoccupazione di far venire l’ora di tornare a casa. Andò dritto all’armadio e ne cavò lo zaino da sopravvivenza, quello che in via ufficiale chiamavano AM-Z*402. Non doveva far altro che metterselo sulle spalle e seguire il protocollo che sapeva a memoria.
Il suono dell’allarme si stava facendo più frequente e più acuto, come a chiamare a raccolta, anche se, si sentì di osservare, i Responsabili avrebbero dovuto pensare, in un frangente simile, a qualcosa di meno ansiogeno o nevrotico. Accarezzò il gatto che lo guardava stralunato accanto alla sua ciotola vuota e si buttò giù per le scale senza neppure chiudere la porta. Aveva il cuore che gli pulsava in gola, la bocca arida. Ogni secondo che passava era prezioso, lo sapeva bene.
Anche le porte delle altre abitazioni del condominio erano spalancate. C’era chi era già uscito senza aspettare il resto della famiglia, chi si arrabattava a cercare il suo AM-Z senza trovarlo e chi se ne restava immobile nel corridoio come se avesse dimenticato quello che aveva imparato in tutti quegli anni intensi di esercitazione. Si fiutava l’odore della paura, della rassegnazione per l’Evento Zero che tutti avevano sperato fino all’ultimo non accadesse mai. E invece era arrivato.
Per strada, ad ogni via che percorreva, vedeva la gente confluire a fiotti, come torrenti che divengono fiumi e i fiumi il mare. I volti erano tesi, gli occhi sbarrati, le posture rigide. Nessuno parlava: c’era solo una grande attenzione a percorrere la via giusta nel minor tempo possibile.
L’allarme stava diventando nel frattempo assordante, come se fosse l’unica cosa che si dovesse tener presente: non aveva un origine precisa, era dappertutto. Le mascelle della gente si fecero serrate, i pugni stretti attorno agli spallacci degli zaini grigi.
Poi finalmente si arrivò al Punto di Raccolta, dove era stata programmata l’evacuazione dell’area UTM 9. Ma non c’era nessuno dell’Organizzazione, nessuna giacca con i colori di istituto e soprattutto non c’era alcun mezzo della Tutela Pubblica; avrebbero dovuto essere invece già lì a imbarcare, perché il tempo era essenziale, l’avevano spiegato tante volte.
Scoppiò il panico, nessuno sapeva più che fare.
C’è chi aveva deciso di tornare a casa, chi nella confusione si era messo a cercare l’amico o il parente gridando e spingendo chiunque avesse vicino; c’è chi diceva di aspettare: dopotutto non potevano essere troppo lontani non essendo possibile credere che non avessero mantenuto la consegna.
Il cielo era blu, screziato di viola: avrebbe dovuto essere l’alba da un’ora abbondante e invece vi era solo oscurità incombente, a stento vinta dalle fredde luci di emergenza che contribuivano a creare quell’atmosfera di desolazione. Cominciava ora a scendere anche una leggera pioggia acida.
Lui fermò una donna che indossava una divisa che non riconobbe. Le chiese cosa stava accadendo e perché il piano di sfollamento non avesse funzionato nonostante le rassicurazioni. La donna parlava in modo strano, come se la sua voce non fosse in sincronia con il movimento delle labbra. Così, in quel frastuono montante, lui capì appena qualche parola: ‘tardi’, ‘imprevisto’ e forse ‘scappate’.
D’un tratto un rumore oscillante scosse violentemente l’aria. Lui e molti altri caddero per terra. Una luce violenta squarciò la notte.

«Carlo, Carlo!» gli disse la moglie scuotendogli il braccio sotto le coperte. «Svegliati o farai tardi al lavoro! E, per carità,… spegni quella sveglia per favore che fa un chiasso d’inferno!»
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A occhi chiusi

Aveva dormito poco durante la notte. Seduto a quel banchetto da scuola elementare sentiva l’adrenalina montargli la testa. Sparpagliati all’interno di un capannone gelido, migliaia di ragazzi come lui aspettavano la dettatura del tema. C’era chi ostentava una spavalda sicurezza, chi indifferenza e chi invece come lui aveva l’aria spaurita e tesa. Aveva bisogno di calmarsi ma anche di essere reattivo senza lasciarsi andare a pensieri negativi.
Cercò di ricordarsi quello che aveva letto in un manuale di mindfulness.
Chiuse gli occhi stando con la schiena dritta e appoggiata allo scomodo schienale della sedia e iniziò a svuotare la mente. Ogni tanto agganciava spezzoni di ricordi, segmenti di idee, barlumi di aspettative ma riusciva sempre a ritornare alla condizione di base di assenza di pensiero. Pian piano si stava rilassando escludendo il mondo là fuori che pareva lontano, persino al là della strada, anzi in un altro mondo.

Furono tre giorni di scritti molto stressanti perché le tracce erano complicate come al solito. La selezione fu durissima tanto che, quasi un anno dopo, gli comunicarono che erano stati solo 350, tra cui lui, ad aver superato lo scritto. Gli altri dodicimila erano stati scartati per vari motivi.
Si mise a studiare con grande impegno anche perché gli orali, a base nazionale, erano tra i più difficili di quel genere. Ma anche quell’esame finale andò bene tanto che il punteggio complessivo fu così alto da consentirgli di poter scegliere un posto nel raggio di pochi chilometri da casa.
Sposò finalmente l’amore della sua vita e andò ad abitare con lei in quella nuova città del nord dove si ci fecero ben volere e accettare da tutti.
Nacquero tre bei figli, due maschi e una femmina, come avevano sempre desiderato. Uno dei due divenne un musicista affermato, l’altro un neurochirurgo mentre la ragazza prese a girare il mondo per diverso tempo per poi tornare dall’Ecuador con un mucchio di soldi fatti con il commercio di gamberi.
E gli anni trascorsero, con alti e bassi, come per tutte le coppie. Ma la vita in prevalenza aveva loro sorriso riservando anche sul lavoro (lei aveva uno studio ben avviato da architetto), le soddisfazioni che avevano con così tanta caparbietà ricercato.
Arrivò quindi il momento di andare in pensione e si ritirarono in quella casetta di campagna che avevano adocchiato in uno dei loro viaggi e dove sarebbero vissuti ancora per diverso tempo tra volontariato, belle passeggiate e il mestiere di nonni.

Poi sentì una voce che reclamava attenzione.

Allora avete otto ore di tempo per sviluppare la traccia che ho appena dettato. Sarà possibile poter usufruire delle toilette solo entro due ore da adesso.”

Aprì gli occhi. Si guardò in giro.
«Traccia?» chiese sgomento «quando hanno dettato la traccia?»
Gli altri candidati erano ordinatamente già seduti ai loro banchi. Quello dietro a lui che aveva sentito distintamente la sua domanda fece finta di nulla. Altri, attorno, stavano già scrivendo.
“Non è possibile” pensò “non può essere vero!”
E sentì che il panico gli stava paralizzando il cervello.