Una visita inaspettata

Nel tornare a casa, dopo quella giornata faticosa, apprezzò ancora di più i profumi del suo viale. L’estate vagheggiava leggera nella brezza serale e l’aria si era fatta tiepida, quasi soffice sulle labbra. Allargò il palmo della mano destra fino ad aderire completamente al portone di legno di casa. Lo sospinse, con calma, apprezzandone al tatto le scrostature del legno che risaltavano scure alla luce rada del tramonto.
Si scoprì a trovare piacevole accorgersi dei particolari dell’androne. Del pothos che dallo scaffale in alto si allungava sino a terra, della madonnina assorta e pallida che lo accoglieva compassionevole, del profilo un po’ sofferente delle cassette delle lettere che, sghembe, si sorreggevano una con l’altra.
Salì le scale, sbuffando, accorgendosi che era più stanco di quello che pensava.
Al piano, tirò fuori la chiave che aveva sentito tintinnare in tasca e la inserì nella toppa. Provò alcune volte, ma non girava. Entrava solo a metà, come se dentro ci fosse un’altra chiave o quella non fosse la sua abitazione. Insistette ancora, la ritirò fuori per ispezionarne il filo controluce casomai fosse storta, ma sembrava a posto. Se ne stette così, immobile nel corridoio, senza pensare, come aspettando che qualcuno gli suggerisse la prossima scena.
Poi, si spense la luce del corridoio. In quell’attimo, una sorta di timor panico salì sottile e pungente all’altezza dello sterno. Si sentì straniero in quel luogo. Il cuore prese a battergli forte nel collo.
Trascorse del tempo. Difficile dire quanto.
La luce fioca dell’applique del corridoio baluginò nuovamente davanti a sé. Qualcuno giù dal portone d’ingresso doveva essere entrato. L’uomo riprese a respirare. Si sentiva imbarazzato e stava per andar via quando la porta di casa si aprì davanti a sé.
«Caro, cosa succede?» Lui non rispose. Guardò la moglie fissa negli occhi. Sembrava che non la vedesse da tanto tempo; istintivamente fece un passo in avanti per abbracciarla.
«Ma che fai? Ci sono i bambini…»
«Sì, sì, scusa, hai ragione». E, come se quella fosse una giustificazione per il suo slancio, sentì il dover di chiarire: «È… è che si deve essere storta la chiave o c’è qualcosa nella serratura… non gira e…» Ma la moglie già gli aveva voltato le spalle. Come faceva spesso quando non le interessava più quello che le si diceva. «Va bene, è come dici tu, però fai presto che fra un po’ è in tavola».
«Sì, faccio in un attimo».
L’uomo se ne rimase tuttavia lì in piedi, fermo sulla soglia, come se ancora una volta aspettasse che qualcuno gli suggerisse quello che avrebbe dovuto fare. Sentì la moglie allontanarsi nella cucina da cui giungevano suoni e voci familiari. Gli ritornò il sorriso sulle labbra. Andò in camera a spogliarsi, si mise il comodo vestito di casa.
«Come è andatala giornata, papà?»
«Bene!» disse lui allungando un bacio sulla fronte della piccola. Sua figlia di dieci anni era sempre affettuosa, molto di più del maggiore che ormai giocava a fare il grande; Clara, pur crescendo, era rimasta dolce e affezionata: veniva sempre a salutarlo quando faceva rientro.
«E a te, piccolina, invece come è andata a scuola oggi?» chiese lui dandole per un momento le spalle per prendere la giacca da camera. Non avendo ricevuto risposta si voltò verso la figlia per ripeterle la domanda, ma non c’era più. Rimase sorpreso. Non era da lei comportarsi così. Era un piacevole rito quel piccolo scambio di informazioni serale. Forse era successo qualcosa in sua assenza. Continuò a prepararsi per la cena, imbronciato. Prese le scarpe da casa, mise a posto la borsa. Sentì che la vena nel collo che aveva preso a pulsare in modo fastidio.
«Allora, come è andata sul lavoro papà?» chiese la bambina entrando in camera. Il padre la guardò stupefatto.
«Ma me l’hai appena chiesto qualche minuto fa… tesoro…»
«Ti sbagli papà, ero nella mia camera a giocare. Forse hai parlato con un’altra tua figlia» rispose ridendo. «Cos’hai pa’» fece subito dopo «non stai bene?»
«Sì, sì sto benone, vai ad aiutare la mamma ad apparecchiare, che adesso arrivo».
«Va bene’, ma non ci mettere molto, ho già tanta fame».
Rimasto solo, si appoggiò alla parete, la stanchezza stava montando. Si sentiva confuso. Forse aveva mangiato troppo poco quel giorno, preso com’era stato dal lavoro, o forse aveva mangiato in fretta e male o lavorato troppo. Andò allora in bagno, si lavò bene la faccia, si sedette sullo sgabello accanto al lavabo. Si accorse ancora una volta che era come in attesa di istruzioni, sul come comportarsi, sul come reagire, su cosa pensare. Ma non c’era tempo, doveva andare a cena, non voleva che si impensierissero per quel suo tergiversare. Uscì dal bagno e vide che moglie e figli erano già a tavola e stavano finendo di cenare.
«Come non mi avete aspettato? E come avete fatto a terminare di già la cena? Sono stato pochi minuti in bagno e…» chiese deluso guardando in faccia i suoi familiari.
«Guarda caro che ci hai telefonato dall’ufficio per dirci che potevamo cenare perché avresti fatto tardi…»
«Io?!?» domandò incredulo l’uomo «ma se sono appena le otto di sera?» Poi vide che fuori era già buio e che l’orologio della cucina segnava le nove e mezza passate.
Rimase senza parole anche perché nessuno si stava meravigliando per quella situazione che sembrava paradossale.
«Qualcosa è andato storto in studio, caro?»
«Quale studio?»
«Lo studio… come quale studio? Il tuo studio da avvocato, perché ne hai un altro?»
«Cosa dici?» chiese non capacitandosi di quello che gli stava chiedendo la moglie «mi stai prendendo in giro?»
«No, assolutamente» rispose lei rassicurante.
«Il tuo studio legale, papà» si intromise il bambino masticando con la bocca aperta «in Groven Street. Non è lì che si trova?»
«Ma state scherzando tutti quanti? Sono dieci anni che non ho più quello studio. Sono un professore universitario ora, all’Harvard University.» In quel preciso istante squillò il telefono. «Ci penso io, esclamò l’uomo arrabbiato, risponderò dallo studiolo». Disorientato, parlò con il suo collega, a lungo. Avrebbe voluto sfogarsi con lui, ma non era solito confidarsi con nessuno. E poi il collega sembrava allarmato. Lo stava avvertendo che il rettore lo voleva convocare davanti al Consiglio di Facoltà. Non avevano digerito quella sua intervista così polemica alla televisione. Avevano in mente una risposta forte da dare all’opinione pubblica. Forse volevano sospenderlo.
‘Ci mancava anche questa’ pensò uscendo dallo studiolo. ‘Ma se è questo che vogliono, renderò loro la vita difficile, non sanno con chi hanno a che fare…’ Era intenzionato, però, nel frattempo, a riprendere quel discorso lasciato a metà con i suoi. Doveva assolutamente chiarire quel fatto. Come potevano essersi dimenticati che da tanto tempo faceva un altro lavoro? Era stato ultimamente così fuori di casa da essere diventato per loro un estraneo? Fece un passo in direzione della cucina. La casa era immersa nel silenzio più cupo. La televisione taceva, le luci erano state spente.
‘Sono già andati a dormire? Alle dieci di sera? Mia moglie non va mai a letto prima di mezzanotte…!’ L’uomo si guardò in giro, accese la lampada da tavolo. Guardò l’orologio: non erano le dieci, ma l’una di notte. ‘La telefonata non è durata più di cinque minuti! Ma cosa sta accadendo oggi!?!
Senza neppure cenare decise di andare a coricarsi. Il giorno dopo sarebbe stata una giornata dura e forse l’indomani avrebbe trovato una risposta plausibile per tante stranezze. Entrò in camera da letto. Sentì il respiro profondo della moglie, come se stesse dormendo da parecchio tempo. Non accese neppure la luce, si spogliò come poté e si mise sotto le coperte leggere. Si rigirò più volte come se si fosse dimenticato di qualcosa di molto importante, poi alla fine si addormentò.
«Sveglia, sveglia!!!» L’uomo sentì quella voce sgradevole in lontananza quasi venisse dall’appartamento accanto. «Giù dal letto, brutto bastardo che non sei altro, hai visite». L’uomo non riusciva ad aprire gli occhi, era stanchissimo. Per un qualche motivo quella voce odiosa gli era persino familiare. Ma sì, sì lui la conosceva quella voce rauca e disarmonica. Certo! Adesso ricordava, era la voce di Rufus Galloway, quell’irlandese odioso e attaccabrighe. Cosa caspita ci faceva Rufus Galloway in camera sua? «Allora, signorina» fece Rufus facendo un chiasso infernale con il manganello contro il metallo delle sbarre «ti vuoi alzare o ti devo raccontare una canzoncina a suon di sberle sulle orecchie?» L’uomo aprì finalmente gli occhi. E quello che vide non gli piacque affatto. Era una cella. La sua miserevole cella. Pian piano i ricordi venivano a galla come sacchi vuoti pieni d’aria dal fondo fangoso di un lago. Ma sì l’omicidio di quello studente di colore. Avevano finito per incolpare lui. L’avevano incastrato laggiù all’Università, i grossi papaveri del Consiglio: avevano pensato di ‘farlo fuori’ in quel modo, lui che era sempre stato tanto scomodo per le sue idee da comunista.
‘No, non poteva essere vero! Non poteva!’ Si ripeteva l’uomo guardandosi affannosamente attorno con la vena sul collo che gli faceva male da impazzire tanto era gonfia. Cercava qualche particolare in quello spazio angusto che gli facesse capire che quello che stava vivendo era un sogno e non la realtà. No, no. Era tutto vero! C’era stato il processo, quel giudice maledetto che ce l’aveva avuto con lui e lo avevano condannato. A morte. Era dieci anni che si sbatteva in quel braccio della prigione di Stato. Oh sì, ora ricordava ogni cosa, sua moglie, i suoi figli, il lavoro, tutto perduto.
«Allora, caro figliolo, sei pronto?» disse la voce melliflua del reverendo padre venuto per l’ultima confessione prima dell’esecuzione.
L’uomo aveva ora presente tutto il suo orrore. Lo sguardo sarcastico di Rufus e quello falsamente dispiaciuto del prete, parlavano chiaro. Quello era il suo ultimo giorno. L’appello, la grazia, la richiesta di perdono, ogni possibilità di salvezza erano finiti nel cesso incrostato della sua vita.
Ed ora toccava a lui. Andare all’inferno. Sarebbe bastata una semplice iniezione, un’iniezione soltanto, ma letale, e avrebbe smesso anche di sognare.

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