«Dopo il post trucido del ‘pesciolino’ dell’altro giorno, dovrai inventarti qualcosa che finisca con un happy end…»
«Come dici, scusa?»
«Non hai ancora capito che un racconto potrà essere anche ben scritto, potrà anche esprimere una buona idea, persino originale, non voglio dire… ma, se finisce male, non piace… O smetti di scrivere o cambi. Sennò i tuoi lettori continueranno a inserirti nei commenti le ‘faccine tristi’ o a chiederti se per caso hai mangiato pesante o di quale patologia nervosa soffri.»
«Ma è la vita che è così, cosa ci posso fare io?» tentai di giustificarmi risentito. «Gli happy end nella realtà non esistono e quando accadono, se accadono, durano sempre troppo poco, non sono mai una fine.»
«Non vuol dire niente. La gente non vuol leggere di dolore, di morti ammazzati o di persone che si odiano. Ha già i suoi problemi. Deve trionfare l’amore, la mutua comprensione, la gioia per la vita. Niente violenze o cattiverie e, men che meno, sofferenze o malinconie schifide. Insomma, un po’ come succede in alcuni vomitevoli telefilm americani. Dove ogni cinque/dieci minuti tutti si abbracciano sussurrando di volersi bene, qualunque cosa succeda.»
Mi soffermai a guardare il mio amico e a riflettere sulla sua saggezza spicciola. Da come guardava la televisione non sembrava neanche mi avesse rivolto la parola. La sua pancia si alzava e si abbassava al ritmo regolare del suo respiro rumoroso: pareva in trance; era enorme e dava l’impressione di occupare tutta la stanza. Afferrai il foglio su cui stavo scrivendo il post e lo accartocciai gettandolo da un lato.
«Hai proprio ragione, Browser.»
«Ho ragione? Davvero?» chiese lui incredulo senza però girare la testa verso di me.
«Sì. Devo proprio smettere di scrivere.»
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Il quotidiano del mattino
«Vuoi un quotidiano?» gli chiesi fermandomi all’edicola in centro della piazzetta. Lui tirò su con il naso, poi mi disse che sarebbe andato a prendersi uno di quei giornali che vendono gratis al mattino vicino al ‘Bar del Cinghiale’. Lo vidi infatti, subito dopo, caracollare arcigno verso il locale dove Oreste stava facendo le pulizia, sbilanciando le spalle prima da una parte e poi dall’altra; si avvicinò deciso ad un ragazzo basso, riccioluto, dalla carnagione olivastra e senza troppi complimenti si prese il giornale. Lo piegò in due e, nel ritornare da me, se lo incastrò sotto l’ascella. Senza dire nient’altro proseguimmo. Io andavo al lavoro e lui, da quello che ero riuscito a capire, da ‘Gi per riparargli un modem. Facemmo ancora qualche passo insieme poi lui disincastrò il giornale e lo aprì.
«Ma porc…»
«Cosa c’è, Browser?»
La testata del quotidiano diceva ‘Fuori Binario, la voce dei senzatetto’.
«Ma questo non è il solito giornale!» fece lui guardandomi severo.
«Eh no…» feci io ridendo. «È che ti sei avvicinato al ragazzo con quella faccia trucida come se volessi picchiarlo; lui, che probabilmente è un extracomunitario forse pure clandestino, ti ha visto grosso come un vagone e si è lasciato prendere il giornale.»
Browser era confuso. Si voltò persino indietro per vedere se riusciva a scorgerlo.
«Bene, amico mio, io vado… prima che arrestino anche me.»
Questione di visibilità
«Browser! Che fai qui?»
«Eh?» mi rispose lui come si stesse risvegliando.
«Ti ho chiesto cosa fai qui, con quella faccia, poi…»
«Niente…» mi fece lui vacuo. «E’ che oggi mi sembra di essere invisibile. Nessuno mi saluta, nessuno sembra accorgersi di me.»
«Be’, io però ti ho visto e ti ho salutato.»
«Già, ma tu non conti.»
Preferii non approfondire il senso di quella frase, anche perché sicuramente me ne sarei pentito.
«Vieni, ti offro un caffè.»
Lui mi seguì come un cagnolino al vicino Bar del Cinghiale, ma appena sulla soglia, una signorina minuta, piccolina, in uscita veloce dal locale, gli finì letteralmente contro rimbalzando sulla sua pancia. Poi si guardò attorno spaesata come se non avesse capito con cosa si fosse scontrata.
«Visto?» mi disse Browser con un mezzo ghigno di compiacimento.
Al banco ordinai due caffè, di cui uno macchiato.
«Non farci caso…» gli feci cercando di sdrammatizzare «la gente è distratta.» Poco dopo il cameriere portò entrambi i caffè a me, senza neppure considerare il mio amico. Gli passai il macchiato, ma i suoi occhi si erano fatti acquosi come quelli di un basset-hound che avesse perso la cuccia. Meditabondo, girò a lungo il cucchiaino nella tazzina quasi ci volesse fare un buco. Trascorse ancora qualche minuto, quindi mi voltai verso di lui e dissi:
«Dai adesso non far scherzi, Browser, dove sei finito?»
Lui alzò il capoccione e mi guardò con aria sorpresa:
«Ma sono qui…» la voce era bassa e gutturale.
«Ha visto per caso il signore che era con me, un po’ grosso, con una montagna di capelli arruffati… è… è sparito!» chiesi al cameriere.
«No, mi spiace non ho visto proprio nessuno.»
Browser nel frattempo si era messo ad agitare le braccia davanti a me eseguendo dei salti sul posto che lo facevano assomigliare ad un ippopotamo che facesse aerobica. «Sono qui! Sono qui!» ripeteva incantato.
«Ma dai che stavo scherzando…» gli feci ridendo. «Vuoi un cioccolatino?»
A cena da Browser
«Allora, cos’hai preparato di bello per cena?»
La sua alzata (asincrona) di sopraccigli cespugliosi non prometteva nulla di buono. Poi, senza distogliere gli occhi da un enorme monitor, mi disse di guardare nel frigo.
«Quale frigo?»
«Se ti volti…» fece lui in un grugnito facendo aprire dal muro, a comando, una porticina tipo cassaforte. Mi alzai meravigliato, venendo però subito fui stordito da un tanfo di piedi sporchi.
«E’ il ripostiglio dei tuoi calzini?» gli buttai lì sarcastico. Ma non raccolse.
«E’ formaggio francese, l’ho comprato apposta per te.» Il frigo era in realtà completamente vuoto se non fosse stato, a metà del secondo ripiano, per un triste e rinsecchito tomino arancione. Lo presi.
«E tu cosa mangi?» gli domandai ancora speranzoso. Non avevo fatto in tempo a finire la domanda che lui aveva già tirato fuori da un ripiano un sacchetto di patatine fritte e una lattina di coca. Mi rigirai tra le dita, incredulo, il formaggio.
«E questo affare come lo mangio?» insistetti.
Lui più seccato di essere continuamente interrotto che per la domanda in sé:
«Dovrai mangiarlo così, non ho posate.»
«Ehi, ma questo formaggio è scaduto due anni fa!»
«In effetti l’ho comprato da qualche tempo.» Si giustificò. «Tu non mi vieni mai a trovare! Ma è buono lo stesso.»
Il mio stomaco aveva appena fatto una capriola all’indietro e poi non aveva più osato muoversi.
«Ficoooo!» se ne uscì ad un certo punto lui. «Ho Pam sulla videocam dall’Australia!»
Un quarto d’ora dopo, al mio terzo ‘bene, allora io me ne vado…’, uscii in punta di piedi mentre lui ancora si accalorava nella conversazione transoceanica. Poco tempo dopo mi trovavo con i piedi sotto il tavolo della nuova osteria aperta sulla collina di Poggiobrusco, domandandomi, davanti ad un fumante e promettente piatto di agnolotti, quanto fossero davvero speciali i miei amici.
Autovelox allo spray
«Guarda che a me non piacciono i cetriolini» gli feci tentando di rassicurarlo.
«Non si sa mai» fu la risposta lapidaria mentre con pochi colpi di mascella lo stava già giustiziando. «Comunque non è vero che non mi muovo mai di qui» mi farfugliò in un linguaggio reso quasi incomprensibile dal successivo boccone che stava impastando.
«Ah no?»
«No. Ieri, per esempio, sono stato a Collefili e ci sono pure arrivato in venti minuti netti.»
«Hai praticamente volato.»
«Già, ogni tanto mi piace correre.»
«Lo sai che ci sono almeno due autovelox lungo la strada, vero?»
«Quelli non mi preoccupano. Ho inventato uno spray da spruzzare sulla targa della macchina. All’apparenza la targa rimane inalterata, ma in concreto diventa illeggibile alla foto.»
«Questa sì che è una bella invenzione!»
«C’è da diventarci ricchi, lo so. Guarda tu stesso, è il flacone vicino a te.»
Mi girai intorno e, seminascosto tra le riviste di informatica, lo trovai.
«Ma questo è un semplice spray per zanzare» gli comunicai sorpreso.
«Non è possibile!»
«Controlla…» gli dissi facendoglielo ruzzolare vicino.
«Porc… nella penombra del garage devo aver scambiato i flaconi!»
Per un po’ rimase con lo sguardo per aria aprendo un paio di volte la bocca come fosse stato un pesce allamato. Quindi riprese a mangiare tranquillo il panino:
«Va beh… tanto la macchina è ancora intestata a te.»