Note colorate

note colorate

«Quali referenze può offrire?» chiese con sussiego l’Assistente unendo le due mani per i polpastrelli e dirigendole a cuspide verso l’uomo. Un generoso riporto sale e pepe gli copriva il cranio a uovo accentuando l’atteggiamento untuoso e distaccato che aveva assunto. «Il Maestro è molto esigente e ci tiene che il lavoro sia ben fatto» fece ancora con una certa cantilena come se quella frase l’avesse ripetuta così tante volte da farle perdere ogni significato. Il cingalese davanti a lui, nell’allungare un foglio stropicciato, approfittò della smorfia che aveva visto increspare il viso marmoreo del suo interlocutore e chiese:
«Però non ho capito in cosa consisterebbe il lavoro. L’annuncio faceva riferimento a delle pulizie… ehmm… particolari. Quanto particolari?» e sfoderò un sorriso luminoso che l’Assistente non notò neppure: aveva assolutamente bisogno di quel lavoro, anche a costo, pensò, di cambiare lui stesso l’olio a quel riporto.
«Se sarà assunto lo capirà» concluse l’altro, asciutto.

Quando il cingalese entrò nell’ampia sala, candida come la banchisa polare, vide il Maestro Ruud Christian Weber immobile, in frac, seduto al centro della stanza, gli occhi chiusi davanti a un Bosendorfer nero come uno scarafaggio. La scena sembrava finta tanto era irreale. Nell’accostare dietro di sé la porta, il legno scricchiolò in modo impercettibile e il Maestro alzò la testa da un lato, come solo una persona cieca poteva fare. «Lei è l’uomo assunto per le pulizie, vero?» chiese il pianista con voce morbida, quasi melodiosa. L’acustica del luogo era perfetta, una sensazione assoluta e infinita di suono, anche se, a parte il mastodontico pianoforte che giaceva grintoso pronto a balzare fuori dalla vetrata, lì dentro non c’era nient’altro .
«Sì, Maestro, mi chiamo Qwara.»
«Hai l’occorrente?»
«Certo!» rispose il cingalese alzando nella sua direzione una scopa di saggina, ma rendendosi subito conto di quanto potesse essere stupido quel gesto indirizzato a un non vedente. Sorrise imbarazzato. Approfittando di aver aperto un dialogo con il pianista, domandò: «Però non ho capito bene quale sarebbe il mio compito, qui mi sembra tutto così pulito…»
Il Maestro non lo stava già più a sentire e si mise a suonare. Qwara fece spallucce e iniziò a camminare per la sala guardandosi attorno; trascinava svogliatamente la scopa e il carrellino con i secchi e gli stracci come se si chiedesse dove avrebbe potuto nasconderli. Non c’era dubbio: il pavimento, le pareti frastagliate di mogano e perfino i lampadari erano immacolati. Non gli era mai capitato una cosa simile. Avrebbe dovuto forse pulire il pianoforte? Proprio mentre il Maestro suonava? Eppure gli era stato raccomandato espressamente di restare lì proprio mentre Weber era al piano.
A un certo punto, Qwara vide attraversargli il campo visivo alcuni uccellini grigi o dei fazzoletti scuri che volteggiavano lentamente per aria accendendosi di colori vividi e luminosi; si muovevano confusi senza una direzione precisa, sospinti da una brezza immaginaria, per poi cadere uno dopo l’altro mulinando come foglie secche e rimbalzando sul pavimento. Si avvicinò. No, non erano uccellini, né fazzoletti: erano note musicali. Minime, crome, biscrome fuoriuscivano dal pianoforte liberate dalle corde percosse dai martelletti collegati ai tasti. E, man mano che il concerto progrediva, presero ad accumularsi a terra ovunque creando uno spessore consistente tutt’attorno. Qwara capì, finalmente, quale sarebbe stato il suo lavoro. Si chinò prendendone una manciata: avevano la consistenza a metà tra il panno lenci e la plastica morbida. Erano già diventate grigio pietra anche se alcune sembravano ancora vive perché gli vibravano tra le dita. ‘Ci si può fare un mucchio di soldi con questa roba’ pensò. ‘Sono note di un pianista di fama mondiale e, per giunta, ciascuna nota è firmata con il suo nome’. Così, mentre il Maestro suonava, l’uomo riempì diversi sacchi con cui stipò il furgone della ditta. Ma, alla fine del concerto, anziché recarsi alla discarica, si portò nel quartiere sud della città.

«Amitesh, ti assicuro, sarai contento quando vedrai cosa ti ho portato…» gli disse Qwara con la voce che gli tremava. L’uomo, basso e tarchiato, lo guardava torvo. Dietro di lui, due uomini affilati e dall’aspetto minaccioso se ne stavano in disparte apparentemente non interessati a quella conversazione. «La piazzerai in un attimo, te l’assiscuro…» insistette Qwara «dammi ancora un po’ di fiducia. I soldi non te li posso restituire subito, ma questa roba ti renderà milionario…»
«Se mi freghi anche questa volta, Qwara, ti farò andare in giro con un paio di branchie nuove nuove…» disse rigirandosi qualcosa tra le mani che nella penombra lui immaginò essere un coltello. Il cingalese scese sollecito dal furgone e, aperto il portellone, tirò giù un sacco della spazzatura. L’aprì. Anche se la luce del neon del vicolo era debole e intermittente il contenuto si vide benissimo: c’era solo cenere là dentro. Grigia, impalpabile, insignificante cenere di caminetto.

Il pianista e il suo Re

Quel giorno il pianista si sentiva davvero in ottima forma. Era in pace con il mondo, la giornata era tiepida, il cielo era blu. Avrebbe composto il concerto del secolo, ne era sicuro. Si tonificò così con una doccia energizzante, fece un’abbondante colazione, si tolse il pigiama e indossò il frac. Quindi si mise di buon grado seduto al pianoforte scrocchiandosi le dita della mani (ma anni dopo, nel narrare questa storia, qualcuno giurerà che si scrocchiò pure quelle dei piedi) chiuse gli occhi per ascoltare la propria anima e, colto da inebriante ispirazione, pose le mani sulla tastiera. Con grande meraviglia dovette constatare però che non si udì il minimo suono. L’uomo ripigiò i tasti con forza. Nulla. Provò a pestare sui pedali e a dare qualche manata sui fianchi del mobile. Niente. Cosa poteva mai essere successo al suo splendido e fido pianoforte? Si alzò dallo sgabello sollevando il coperchio come fosse il cofano di un motore in panne e in quel momento si udì una voce:
«Buongiorno, io sono il Re.»
«Oh, Maestà» fece serio il compositore un po’ sorpreso. «Che ci fa lei lì dentro?»
«Ma che Maestà e Maestà! Io sono il Re, la nota di Re.»
«Mi scusi.»
«Dunque: le parlo a nome anche delle altre note: abbiamo delle lamentele da avanzare. Va da sé che fino a quando non saranno esaudite faremo lo sciopero del silenzio.»
«Che guaio!» sbottò il pianista grattandosi il pizzetto. «Proprio oggi che mi sentivo ispirato. E quali sarebbero queste lamentele? Sentiamo!»
«È presto detto: il Mi è stufo di essere equivocato. Lui è un altruista per temperamento. Non sopporta più di dover dire in continuazione ‘mi, mi, mi…’ come un gretto egoista e vuole cambiare nome.»
«Ma guarda! E come vorrebbe chiamarsi?»
«Ti, che ‘suona’ molto più filantropico. Non trova?»
«Trovo, trovo» rispose il pianista divertito. «E poi?»
«E poi Sol è stanco di non avere amici. Perché mai deve essere sempre stare ‘sol’ senza che nessuno gli faccia mai compagnia? È per questo che vuole chiamarsi Stocontùtt
«Ma davvero?»
«Certo! Inoltre il Fa non ne può più di essere operoso, di fare, fare e fare, senza mai potersene stare un po’ tranquillo. Vuole insomma darsi all’ozio, contenuto, centellinato, con sobrietà, ma ozio. Anche lui desidera quindi cambiare il nome in Fagnént. Il Do inoltre non vuole dare più nulla per cui desidera che lo chiamino Metèngognicos. Il La infine vuole essere Qui e il Si vagheggia di dire finalmente No
«E lei?» domandò il pianista che si era messo comodo con il mento appoggiato a una mano. «Non ha richieste, lei che è il Re?»
«Certamente. Tutti mi prendono in giro con questa storia del Maestà o del Sire o con altre battute simili di pessimo gusto. Proprio come ha fatto lei…»
«Già, è vero. Mi spiace. Non sapevo.»
«E così vorrei chiamarmi più semplicemente Unocometànt
«Unocometànt? Ne è sicuro?»
«Sì, è nelle mie corde. Che c’è di strano?»
«Niente, niente. Quindi, ricapitolando:» fece il pianista sospirando «la scala delle note diverrebbe: Metèngognicos, Unocometànt, Ti, Fagnènt, Stocontùtt, Qui, No
«Esatto! Bello no?»
Il pianista scosse la testa e i lunghi capelli alla Beethoven:
«Guardi che non si può fare. Nessun musicista ci capirebbe più niente, sarebbe il caos. E poi non spetta a me cambiare il nome alle note…»
«Ah no? E con chi devo parlare, allora?»
«Non ne ho idea. Le note sono una convenzione internazionale da tutti accettata. Da sempre. Questa è la musica.»
«E dove posso trovarla questa signora Musica?»
«La musica è dappertutto. Qui come in Australia o in Lapponia e persino nelle foreste vergini dell’Amazzonia.»
«Insomma ha il suo bel da fare, mi par di capire, questa Signora.»
«Credo proprio di sì» fece il compositore allargando le braccia. «Però potreste scriverle una lettera, in musica ovviamente. Magari dolce, romantica e appassionata. Sicuramente su una signora farebbe colpo.»
«È un’idea!» fece entusiasta il Re. «Un’ottima idea.»
«Badate bene, però, che presa com’è dal lavoro, potrebbe anche non rispondervi subito. Voi però insistete.»
«Sì, grazie, mi ha dato proprio una splendida idea.»
«E per lo sciopero?» chiese un po’ preoccupato il pianista «Che si fa?»
«Vedrò di parlare con gli altri. E poi dobbiamo assolutamente scrivere quella lettera e se non la si scrive con le note, come fa a capirla la signora Musica?»
«Infatti, arrivederci allora.»
«Arrivederci.»
Il compositore chiuse pian pianino il coperchio del pianoforte. Attese qualche attimo e poi appoggiò delicatamente le dita sulla tastiera. E compose l’opera più bella di tutta la sua carriera.