Distrazioni

Camminava distratto come sempre. Come quella volta che, uscito di casa per andare dal commercialista, pensando alle sue faccende, si era trovato davanti alla porta del proprio ufficio. O quando era tornato dal viaggio dal Gabon, portando con sé, in tasca, la chiave dell’albergo, ma lasciando in quella stanza quella di casa.
Era stato così fin da piccolo. Tanto che i suoi genitori avevano pensato che fosse un bambino più che strano e non mancavano, quando ne combinava una delle sue, di guardarsi l’un l’altra scrollando sconsolati la testa.
Solo che quel giorno stava tornando correttamente a casa, anche se c’era quel problema sul lavoro che lo angustiava davvero molto, tanto da assorbirne totalmente l’attenzione. Pensava a tutte le soluzioni possibili, soppesandone i pro e i contro, valutando persino la percorribilità di alternative poco probabili.
E così, quando alzò lo sguardo da terra per evitare una coppia di turisti dall’aria svagata che gli stava per spalmare il cono gelato addosso, vide all’improvviso davanti a sé suo padre. Fu un attimo. Una specie di corto circuito. Era sorridente, forse un po’ stanco, in là con gli anni. Era fermo nella sua posa tipica che tanto conosceva bene: quella che precedeva un suo abbraccio liberatorio, un abbraccio avvolgente, potente, forte. Dove d’un tratto tutto pareva risolversi, ogni cosa ritornare ad avere un senso ritrovando magicamente il suo posto.
Ma cosa ci faceva lì? Lui che abitava ad Alvona, a centinaia e centinaia di chilometri da quel luogo. Venire così, senza avvertire. Che bello però vederlo, dopo tanto tempo. L’antico desiderio di stare un po’ con lui esplose in tutta la sua forza, insieme alla voglia di perdersi di nuovo nelle sue parole, nella sua voce, nella luce dei suoi occhi. Quanto gli era mancato!
E tutto questo avrebbe avuto anche un significato, se il padre non fosse morto ben nove anni prima. E allora come era possibile?
Così realizzò, ma solamente dopo un po’ che ebbe a schivare la coppia svagata, che se ne ristette spaventata a vedere quel suo modo un po’ scomposto di scattare in avanti, che altro non era che lui nel riflesso nitido della vetrina. Era lui che, invecchiando, era diventato l’esatta copia fisica del padre. Non se ne era mai reso effettivamente conto. Forse perché, quando il padre morì, erano già diversi anni che si erano persi di vista. E adesso questo. In una sorta di nemesi, di eterno ritorno, senza scampo e senza derive, perché il tempo mischia ogni cosa, gioie e dolori, rimorsi e rimpianti, perdoni e infingimenti.
Si trattava solo di un vetro, di un banale riflesso, il proprio sorriso spento sulla faccia. Soprappensiero si era ingannato e il suo subconscio aveva fatto il resto: il padre non c’era affatto, non avrebbe mai potuto essere lì; c’era solo lui che invecchiando aveva preso naturalmente le sembianze del padre. Senza quasi accorgersi, nella sua parabola di vita, era diventato l’altro. Non esisteva più un suo doppio, qualcuno contro cui affermarsi e lottare per la propria indipendenza psicologica e far capire il proprio valore. Il passato lo aveva finalmente raggiunto e si era fuso in lui. La trasformazione si era completata. Era stato un flashback a tradimento giusto per farlo tornare indietro per un attimo, dove tutto pareva ancora possibile, il mondo domabile e le ferite curabili. Per comprendere che il passato e il presente erano diventati oramai qualcosa di irrilevante mentre la vita in realtà era andata inesorabilmente avanti ripiegandosi poi su se stessa tornando daccapo.
Restava dunque, ora, ‘solo’ la parte più difficile da fare, prima che davvero fosse troppo tardi: perdonarsi.

La distrazione

Uno dei difetti maggiori di Fabio era la distrazione. Verso le 18 di quasi ogni giorno si concedeva una passeggiata, giusto per staccare dal lavoro che tanto lo opprimeva quando se lo portava tra le mura domestiche. Metteva il naso fuori casa e subito inseriva il ‘pilota automatico’. Un piede tirava l’altro, senza una meta o l’intenzione di un percorso; la camminata semplicemente si faceva lenta, sciolta, quasi ipnotica e, immerso nei suoi pensieri, fatti di nulla e intrecciati di sogno, si lasciava andare. Bastava ci fosse un colore che baluginasse laggiù nel vicolo e lui girava per di là; altre volte seguiva un profumo che fuoriusciva da una finestra o da un negozio o magari aleggiava solo nell’aria ad annunciare questa o quella stagione. Altre volte ancora seguiva per un po’ il viso di una bella donna per poi abbandonarla per lo scorcio di un’altra piazza o per un fiore su un davanzale. Ma spesso, senza sapere neppure perché, finiva per trovarsi davanti al suo ufficio anche se era domenica. ‘È la forza dell’abitudine’, scuoteva la testa mentre se lo diceva tra sé e sè, ben sapendo che non ci poteva fare nulla.
Così anche quel giorno Fabio girovagò per il paese, il lungofiume, la piazzetta del mercato… poi si fermò davanti a un portone. Si guardò attorno, come se si fosse svegliato in quell’istante. Era all’altro capo del paese, un luogo sepolto nel passato, trasformato nel tempo, quasi irriconoscibile. Pian piano ricompose i pezzi del mosaico: rivide la strada come era in quegli anni, il muretto diroccato che non c’era più, il negozio che vendeva paralumi d’epoca e che adesso era chiuso. Alzò lo sguardo verso il secondo balcone di destra. Allora era invaso dalle foglie di un glicine. E lei abitava lì, Rita, trent’anni prima. E gli aveva frantumato il cuore.