L’abbandono

Le vacanze erano trascorse rapide e non erano state neppure riposanti. Si era verificata una serie infinita di disguidi e il tempo non era stato dei migliori. Ma a tutto questo Renzo non ci aveva badato. La sua mente era tornata mille volte al muso del suo cane, Harp, che lo aveva guardato in quel modo strano, stupito, come se si chiedesse perché mai dovesse rimanere legato alla panchina in quell’area di sosta mentre il suo padrone ripartiva in macchina a tutta velocità senza di lui. E adesso che Renzo era tornato a casa sembrava di sentirlo giocare nell’altra stanza aspettandosi da un momento all’altro di vederlo comparire con il guinzaglio in bocca. Era stato di nuovo a quell’area di servizio, anche se gli era costato un pieno di benzina e una deviazione stancante. Ma non lo aveva trovato. C’erano dei segni di graffi sul basamento della panchina e un’orma agitata sul pietrisco. Segno che il cane si era liberato o, molto più probabilmente, che qualcuno lo aveva portato via con sé. In fondo era sì un bastardino, ma anche tanto simpatico. Sì, sì, a lui che viveva solo faceva proprio comodo un cane, gli mancava: l’indomani sarebbe tornato al canile municipale e ne avrebbe preso un altro. Tanto lì te li tirano dietro pur di levarseli dai piedi.
Si alzò dalla poltrona smanioso, accorgendosi solo in quel momento che era stato tutto il tempo davanti a una televisione spenta. Poi sentì raspare alla porta. Un sorriso gli si illuminò in faccia. Faceva sempre così anche Harp quando voleva entrare o uscire di casa. Si precipitò e nel buio del vialetto vide la sagoma di un cane. Accese la luce per illuminare là davanti: era un meticcio che non aveva mai visto, si sarebbe detto un incrocio tra un mastiff e un dogue. Guardò meglio: aveva qualcosa in bocca che subito posò sulle sue pantofole. Renzo si chinò: era il collare del suo Harp, c’era persino ancora scritto, sbiadito, il suo nome. Si sentì mancare. Guardò fisso negli occhi il cane innanzi a lui.
«Dove l’hai preso? Dimmi, dove l’hai preso?!?» gli urlò l’uomo agitandogli il collare sotto il naso come se fosse colpa sua che Harp era sparito. Il cane prima si ritrasse poi in un balzo gli azzannò la gola.

La macchia opaca

La ragazza era a cavallo della bicicletta, le mani sul manubrio e un piede a terra. Era pallida, le labbra sottili ed esangui.
«Cosa è successo? Dimmi!»
Il ragazzo guardava di lato, l’espressione indecifrabile. Poi si girò verso di lei.
«Ti ricordi quando la settimana scorsa mi hai accompagnato a fare la lastra per questa tosse che non mi passa?»
«Sì» fece lei in modo impercettibile.
Lui sembrava cercare le parole giuste che non venivano, si morse le unghie.
«Mi hanno trovato un brutto male… parto domani… anziché tornamene a casa, andrò a Berna. I miei hanno un buon amico là, un oncologo, mi ricovereranno per ulteriori accertamenti».
La ragazza scoppiò a piangere mettendosi una mano di traverso sulla faccia. Singhiozzava così forte che pareva doversi soffocare da un momento all’altro. Lui era impietrito. Avrebbe voluto confortarla, ma si trattenne.
«Voglio che ci lasciamo così…» fece lui conclusivo.
«Ma io…» disse lei tra le lacrime che gocciolavano sulla t-shirt.
«No, Anna… è meglio, lo preferisco» la zittì asciutto con le parole che gli uscivano a scatti. «Anche se è durato solo un mese d’estate, ci siamo amati più di quanto fosse per me immaginabile. Sei una persona stupenda. Sarà bello portare il tuo ricordo dentro di me». Si girò per allontanarsi. Tossì.
«Umberto… No! Ti supplico».
«Voglio rimanere solo» fece lui voltandosi risoluto. Poi recuperando le tonalità della dolcezza: «Sono io che ti prego, devo farcela da solo». Lei scoppiò nuovamente a piangere. Il ragazzo riprese a camminare sorridendo dentro di sé per come fosse stato facile. Lei l’avrebbe lasciato finalmente in pace con tutti i suoi mi ami?, staremo sempre insieme?, senza di te non posso più vivere. Negli ultimi giorni aveva cercato di scrollarsela di dosso, ma lei aveva sempre fatto finta di non capire. Ora il colpo di genio.

Nello stesso istante, una ventina di chilometri più lontano, in una stanza bianca dietro ad una scrivania semisepolta da documenti sparsi un uomo stava scrivendo. Quando entrò il collega, lui alzò lo sguardo.
«È questa che volevi farmi vedere?» si sentì chiedere per la lastra davanti a sé. Annuì. Il medico dai capelli brizzolati, ma dalle ciglia bianchissime esaminò con cura il referto:
«Uhmm… Hai proprio ragione… è… è… Sì, lo so. Non mi dire nulla, dispiace sempre quando sono così giovani… E’ questo qui il numero di telefono di quel ragazzo? Poverino, mi stava pure simpatico… Va bene, ci penso io, lo chiamo subito».

Con le proprie ali

Erano settimane che lui ci rimuginava. Aveva ancora negli occhi il viso di lei mentre le diceva che era finita, che la loro storia non era più una storia e che era arrivata l’ora che lei volasse via da sola con le proprie ali. Sì, aveva usato proprio quelle parole banali lì, ‘con le proprie ali’. Il tono era stato brusco e l’espressione gelida di sasso, come quella che di solito aveva quando si sentiva a disagio. Ma quel pianto taciturno di lei, a capo chino, quello scuotimento di testa disperato, lo aveva scosso profondamente. Si sarebbe aspettato una scena isterica, un’ondata di male parole. Dopo tanti anni si stava pure, aveva pensato lui. E invece no, lei non aveva detto nulla. Si era solo coperta il volto con entrambe le mani come se avesse voluto ripararsi dalle brutture del mondo, reclinando un poco quella testa bionda dai capelli profumati, chiudendosi in un mutismo assordante. Lui era rimasto ad aspettare vanamente un moto di ribellione, un gesto scomposto che non era però arrivato; e dire che aveva pure in serbo quel bel discorsetto di rinforzo che si era preparato ripassandolo più volte caso mai la situazione fosse divenuta ingestibile. Ma nulla. Solo quel diluvio di lacrime sorde, un dolore impossibile persino da rappresentare. Così non gli era restata che la fuga, perché al silenzio non c’è riparo. Non gli era rimasto che allontanarsi, senza capire, come un ladro di sentimenti, sentendo che qualcosa, dentro di sé, si era pericolosamente rotto.
Ed erano trascorsi ormai tanti giorni da allora senza che fosse riuscito a levarsela dalla mente. Aveva creduto ingenuamente che sarebbe stato tutto facile, che sarebbe bastato un gesto netto e l’orchestra fedele avrebbe smesso di suonare. Pensava a tutto questo, lui, quando, nell’aprire la cassetta della posta si accorse che c’era una all’interno lettera. La prese delicatamente tra le dita quasi potesse rompersi, avendo riconosciuto la grafia di lei. Passò il dito su quella scrittura come per poter decifrare cosa mai quella busta potesse contenere. Il cuore batteva forte. L’aprì senza essere in grado di poter aspettare di essere in camera sua. E dallo squarcio della carta se ne uscì improvvisa una farfalla dalle ali bellissime. Si fermò prima sul bordo della busta come se avesse voluto salutarlo e quindi prese lo specchio del portone rimasto aperto, volando a zigzag nella luce colorata del mattino.