La password definitiva

cezanne«Abbiamo diritto di vedere il quadro!» esclamò George Madou alzandosi in piedi e battendo un pugno sulla scrivania del Direttore generale. Le sue sopracciglia e la barbetta biondo-rossiccio stavano tremando per la concitazione.
Helmut Fragenbaum, dalla sua poltrona regale in stile Biedermeier, lo guardò con ostentata sufficienza. Aspirò a fondo il suo sigaro.
«Glielo ripeto» disse poi con voce tranquilla e a bassa frequenza «il Cézanne è in fase di ripulitura… come da contratto, del resto. Ogni sei mesi viene prelevato dal Caveau da personale sterile e specializzato, minuziosamente controllato, e quindi sottoposto ad analisi spettrografiche con dispositivi sofisticati (di cui solo noi siamo dotati in Europa); inoltre viene ripulito e persino restaurato, se del caso. Quindi ora non è disponibile.»
«Almeno mi dica dov’è adesso… e la seconda volta che veniamo da Parigi per vederlo…» insistette Madou puntando l’indice verso il soffitto come se si stesse appellando a un principio universale.
Il Direttore stette per qualche attimo in silenzio poi, facendo un cenno con la mano come se si rivolgesse al suo schnauzer, gli disse mellifluo:
«Via, monsieur Madou, La prego, perché non si siede?»
L’uomo per tutta risposta sbuffò, si voltò a guardare il suo staff perplesso; infine decise di risedersi sulla poltroncina scomoda.
«Se Lei conoscesse meglio il contratto che lega il suo Paese alla nostra Agenzia» proseguì Fragenbaum con la sua voce ipnotica «Lei saprebbe che non possiamo dare informazioni di questa natura. Il vostro quadro, come altre migliaia di capolavori provenienti da tutto il mondo, si trova ora in una speciale camera pressurizzata a cinquantadue metri sotto terra a temperatura e umidità controllate. L’opera non esce mai dalle profondità del Pozzo, questo è chiaro, a meno che il depositante ne faccia esplicita richiesta dopo però almeno un anno dall’ultima visita, e, soprattutto, sempre che…»
«È passato più di un anno da quando lo abbiamo visto l’ultima volta!» quasi gridò Madou rialzandosi in piedi.
«… sempre che…, abbia la compiacenza di farmi finire, monsieur Madou…», continuò il Direttore ripetendo il gesto di mettere a cuccia l’interlocutore «il depositante avvisi il depositario, nei termini prefissati, in modo che l’Agenzia possa preparare l’oggetto in atmosfera adeguata trasferendolo nella sala-visita al ventiduesimo piano, sempre ipogeo, ovviamente. È tutto scritto nero su bianco, monsieur Madou, controlli pure, evitereste viaggi inutili.» Il Direttore stava finalmente leggendo l’espressione da sconfitto sul volto del suo interlocutore e decise di affondare: «è solo una questione di banale sicurezza, niente di personale, glielo assicuro. In fondo ci pagate proprio per questo, e neppure poco» e unì i polpastrelli delle due mani a cuspide, segnale questo che la discussione era terminata.
La delegazione francese, avvilita, uscì poco dopo dalla sala riunioni. Il Direttore generale rimase nella stanza con il suo vice Planks. I due si scambiarono un’occhiata. Fragenbaum non resse lo sguardo e lo distolse dirigendolo verso il muro lontano; poi, nervoso, si alzò dando le spalle all’altro, mettendosi davanti all’ampia vetrata senza neppure godere del sorprendente viola delle montagne al tramonto.
«Cosa è successo?» gli chiese Eric Planks avvicinandosi.
«Come dici?» fece lui evasivo senza voltarsi.
«Ti conosco troppo bene, Helmut… mi nascondi qualcosa. Non abbiamo nessuna speciale camera pressurizzata a cinquantadue metri sotto terra e non ci mettiamo certo a pulire e analizzare Cézanne o Caravaggio o chissà cos’altro. Teniamo i quadri sotto terra, certo, a temperatura e umidità controllate, ci mancherebbe,… ma nulla di più.»
Per un po’ Fragenbaum non mosse neppure un muscolo, forse tratteneva persino il respiro. Poi si portò una mano sulla faccia come per nascondersi. «E va bene» sbottò a un certo punto. «Non ce la faccio più a portare da solo questo peso…»
«Oddio, Helmut: è successo qualcosa ai quadri?»
«No, i quadri stanno benissimo. Come sai sono sistemati in un pozzo di cemento armato spesso più di due metri e profondo ottanta, calato all’interno di una guaina di materiale nanostrutturato, che è 50% più duro del diamante. La cassaforte elettronica, blindatissima e inespugnabile, è a prova non solo di ladro, ma anche di una guerra nucleare…»
«Lo so, l’abbiamo costruita proprio per questo, e allora?»
«E allora… la password a 64 bit per entrare nel Caveau di solito la so io e il povero Nötzell…»
«Certo, per ragioni di sicurezza. La sai solo tu e il secondo Direttore… che è però è deceduto un mese fa in quel terribile incidente stradale…»
«Già, purtroppo lui la password l’aveva appena cambiata, come accadeva ogni mese, e proprio mezz’ora prima che andasse a sbattere! Insomma… non ha fatto in tempo a comunicarmela… e tutta la documentazione che aveva con sé è andata bruciata con la vettura su cui viaggiava; ma sai anche questo…»
Planks impallidì. Per non svenire si sedette sul pavimento di marmo. «Questo significa… questo significa…» riuscì solo a ripetere balbettando.
«Esatto, mia caro Eric. Significa che abbiamo più di quattromila capolavori, dal Settecento ad oggi, stipati in un luogo divenuto per tutti inaccessibile… Rimarranno lì, per sempre, senza che nessuno li possa mai più recuperare e vedere.…»
«Non è possibile, non è possibile…» ripeteva Planks, lo sguardo appannato.
«È successo, Eric. Non doveva ma, per una tragica fatalità, è successo.»
Si girò verso il suo Vice ancora seduto sul pavimento e si accorse che stava piangendo.
«Però, se ti può consolare» gli disse con un filo di voce «abbiamo a disposizione delle copie perfette e forse…»
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La Biennale e la bambina

Il laghetto – Olio su tela – Opera di Silvana Brunotti

«Ti piace?» chiese ponendosi accanto a lei e contemplando lo stesso quadro appeso al muro.
La bambina, che non poteva avere più di dieci anni, indossava jeans sbiaditi e una maglia di lana blu che metteva ancora più in risalto il pallore lunare del viso ovale; due occhi verdi galleggiavano profondi in una cornice di riccioli rosso mattone che le arrivano fin sopra le spalle. Senza distogliere l’attenzione dal quadro, lei sospirò:
«Mi fa sentire a casa.»
La tela ritraeva un paesaggio montano, dai colori tenui e caldi: il prato era di un verde improbabile, ma era solcato da una stradina piena di brio che portava a una casupola con gerani ai balconi e tendine alle finestre seminascosta da querce massicce.
«È un’opera di Spartaco Vela» rivelò l’organizzatore compiacendosi. «È di pregio ed è molto suggestivo.»
«Sì, lo so» rispose la bambina decisa, accendendosi in un sorriso che illuminò la spolverata di lentiggini sul naso.
Poi l’uomo venne chiamato da un artista che lo aveva preso amichevolmente sotto braccio trascinandolo lontano. Succedeva spesso in quei primi giorni di apertura della Biennale d’Arte pieni di frenesia e concitazione: gli stand erano affollati da artisti provenienti da ogni parte del mondo in una babele cacofonica di complicata e delicata gestione, temperata, per fortuna, dall’andirivieni tranquillo di appassionati entusiasti e semplici curiosi.
Il giorno dopo, nel momento preciso in cui lui si stava sorbendo un meritato caffè, al riparo di un divisorio di cartongesso che avrebbe dovuto garantire un po’ di privacy, la bambina gli apparve all’improvviso come un fantasma.
«Ma come le è venuto in mente di vendere il Vela?» lo investì con voce alterata, il labbro inferiore a tremarle di rabbia e i pugni chiusi lungo il busto proteso verso di lui.
«Come dici, scusa?» fece l’organizzatore non riconoscendola lì per lì.
«Il Vela, mi ha venduto il Vela! Adesso che faccio?»
L’uomo, che finalmente aveva messo a fuoco sia la bambina che il quadro, allungò l’occhio verso la parete dove la tela era stata appesa. C’era in effetti uno spazio vuoto e un cartello che avvisava essere stata rimossa. «A dire il vero, non l’ho venduta. È venuto il proprietario a riprendersela perché la cornice si era pericolosamente incrinata… e se l’è riportata a Melbourne» sorrise lui buttando giù il resto del caffè.
«A Melbourne? Santo cielo! Non si poteva fare più lontano? Lei proprio non capisce!» continuò la bambina indicando lo stesso spazio vuoto dietro le spalle «io ci abitavo lì; quella era la mia casa… e adesso? Ho ancora tutte le mie cose là dentro, senza contare che non so più dove andare…»
L’uomo rimase senza parole temendo di aver capito bene. La bambina, a dire la verità, gli era sembrata strana fin dal primo momento che l’aveva intravista, ma ora quella discussione stava scivolando un po’ troppo sul surreale: e non sapeva proprio cosa aggiungere. Il suo prolungato silenzio fu però malamente interpretato dalla bambina come indifferenza per il suo grave problema, tanto che quella scosse la testa in una nuvola di boccoli rossi che continuò a rimanergli impressa nella retina, anche quando se ne fu andata.
Ma, a parte quel particolare contrattempo, i giorni della Biennale scorsero veloci e proficui. Era stato un successo, al di là di ogni aspettativa. Molte le opere esposte divenute oggetto di proficui dibattiti e critiche lusinghiere, molti i contatti allacciati anche con mercati stranieri, più che soddisfacente il riscontro di pubblico. Poi, come sempre accadeva, era ben presto arrivato il momento di chiudere i battenti.
«È proprio strano…» sbottò un giovane, con la scritta arancione di una ditta dietro la schiena, staccando dalla parete un quadro da imballare.
«Cos’è che è strano?» fece l’organizzatore avvicinandosi.
«Quando ho appeso queste tele, una decina di giorni fa, avrei giurato che il quadro pesante fosse un altro…»
«Pesante? C’era un quadro pesante? In che senso?»
«Sì, ho pensato fosse la cornice, ma poi ho visto che era di plastica, insomma… non saprei spiegarmi meglio… Ora quel quadro, per la verità, non c’è nemmeno più, come mi accorgo adesso, in compenso c’è quest’altro che ho in mano e che pesa lo stesso tanto, mentre quando l’ho trasportato qui non lo era affatto. Proprio non mi torna.»
Quelle parole fecero sobbalzare l’organizzatore.
«Il quadro che hai trovato pesante e che ora non c’è più era per caso un Vela?» domandò lui che non voleva credere che stesse facendo proprio una domanda simile.
«Sì, forse…»
L’uomo raccolse la tela dalle mani dell’operaio; aveva ragione: era piuttosto pesante per essere un quadro di grandezza normale; poi l’osservò meglio. Raffigurava un paesaggio morbido e romantico e, ai margini di un laghetto, una villetta di campagna. C’era una luce accesa, là dentro.

* * * * *


Firenze
Fortezza da Basso
30 novembre – 8 dicembre 2013

http://www.florencebiennale.org/