C’è solo silenzio sul mare

 

Lei si appoggiò con i gomiti alla balaustra. L’espressione era soddisfatta, le narici piene di salsedine e l’aria del mare tra i capelli. Poi si volse attorno e divenne all’improvviso seria.
«Non trovi che manchi qualcosa?» mi chiese con un certo affanno.
Un ricciolo di sole ondeggiava sulle sue mani mentre le vedevo agitarsi nell’aria a indicare ora l’ombra violetta dei monti lontani, ora il clamore dei gabbiani che rigavano un cielo terso e le dune di sabbia ammonticchiate tra i rami di un albero sulla spiaggia.
«No, non mi sembra» feci io non riuscendo a trattenere un sorriso. «Direi che è tutto perfetto» risposi sentendomene rassicurato.
«Guarda che dico davvero» mi disse lei rizzando il busto e assumendo un’aria imbronciata. «C’è qualcosa di strano.»
Osservai meglio il panorama. Forse le nubi erano troppo alte? Forse la mia voglia di abbracciarla troppo forte? Quando aveva quegli scatti da bambina era irresistibile. Ma lei si irrigidì di colpo: aveva trovato cos’è che non andava.
«È il mare…» concluse lei sospirando.
«Come il mare?»
«Sì, il mare… non senti? Non fa rumore.»
Tesi l’orecchio. Effettivamente nella brezza tesa non c’era il respiro del mare. La risacca s’infrangeva sul bagnasciuga senza il più piccolo suono. Ci avvicinammo, a piccoli passi. Dietro di noi, richiamati chissà da dove, arrivarono alla spicciolata decine e decine di persone attratte dallo stesso silenzio. Camminavano sorpresi, ammutoliti, fissando le onde del mare e la spuma, incartate in una sospensione apparente. Nessuno osava rivolgersi la parola. Forse quella cosa non stava accadendo veramente e non parlare aiutava a crederlo.
Sotto i nostri occhi il mare si stava ritirando sempre più, ribollendo, dapprima con circospezione e poi sempre più velocemente, fino a quando davanti a noi non vi fu, a perdita d’occhio, che la distesa scura del fondo privo di acqua, odoroso di salmastro e di granchi rimasti allo scoperto.

E’ uno di famiglia

Amina aveva tanto insistito. Era stata invitata a cena a casa del suo vecchio professore di matematica del liceo. La mia presenza avrebbe alleggerito ciò che poteva trasformarsi in una interminabile e noiosa serata. Invece il professore e la moglie, benché anziani, erano risultati di conversazione brillante ed anche la cena, contrariamente ai più foschi presagi, non era stata a base di brodino e purea, ma aveva dato ampio risalto a pregevoli specialità pugliesi. Ci eravamo appena trasferiti a fine cena in salotto, con un buon bicchiere di cognac in mano, quando, con la coda dell’occhio, vidi qualcosa di bianco che all’improvviso attraversò il corridoio. Istintivamente mi voltai e il mio gesto non sfuggì al padrone di casa:
«Tutto bene?» mi chiese lui in modo amabile.
«Avrei giurato di aver visto passare qualcuno… ma non ne sono poi tanto sicuro…» feci io dando un’occhiata di sbieco alla mia amica, intenta però a sfogliare un album di fotografie con la signora. Il professore sorrise e osservò:
«Ah… lei riesce a vederlo?»
«Vedere cosa?»
«Il fantasma.»
«Sta scherzando, vero?»
«No, tutt’altro. Si tratta di un monaco. Qui nel Cinquecento c’era un monastero. Si dice che fra’ Bartolomeo sia stato ucciso in modo violento da un pellegrino ospitato per la notte.»
Io, in un colpo solo, ingoiai tutto il liquore rimasto nel bicchiere sbrodolandomelo in parte sulla maglia. «Oramai è uno di famiglia» seguitò a raccontare il professore come se stesse parlando del gatto di casa raccattato per strada. «Ogni tanto troviamo delle cose spostate. Come l’armadietto dei medicinali nel bagno, per esempio. Credo che cerchi ancora il necessario per medicarsi la pugnalata al collo. Strano però che lei lo veda, noi non ci riusciamo… solo mio nipote di cinque anni ha questo privilegio. Ma i bambini, si sa, sono così vicini a Dio.» Poi, assumendo un’espressione paterna mi domandò: «Piuttosto… da quanto tempo è che lei non si fa un buon check-up?»
Io rivolsi uno sguardo angosciato ad Amina tant’è che lei, sentendosi osservata, alzò gli occhi verso di me stupita:
«Non stai bene? Sei pallido. Sembra quasi che tu abbia visto un fantasma.»
«Ad essere sincero si è fatto proprio tardi e domani mi devo alzare presto» ammisi io levandomi in piedi. «E se togliessimo il disturbo?»

Bic Nic

Non è facile andare d’accordo con Niccolò, anche se ci conosciamo dalle elementari. Nic lo chiamavamo allora, Bic Nic, per la precisione: per quella sua mania di portare sempre una penna bic incastrata nella piega dell’orecchio destro. Già a quel tempo aveva tutti quei tratti del carattere che in seguito avrebbe peggiorato da adulto. A sentir lui, non c’è nulla infatti che non sappia fare. Se tu gli racconti di aver comprato una macchina, lui subito ti comunica che ha da poco acquistato in contanti la terza, per la quale peraltro ha fatto costruire anche un apposito garage nella dependance della sua villa. Se tu gli dici che hai fatto un viaggio al Santuario di Oropa, lui ti tappa immediatamente la bocca ricordandoti di essere or ora tornato dall’ennesimo viaggio intorno con il Papa, annoiandosi anche molto perché gli esquimesi non sono più quelli di una volta e la pesca ai marling blue è divenuta tanto pacchiana quanto senza emozioni. Se poi si aggiunge che Nic è anche biondo, alto e con gli occhi azzurri, ce n’è d’avanzo per ritenerlo insopportabile. Così, non appena Amìna, ieri, l’ha visto venirci incontro tra i banconi dell’iper si è eclissata in un lampo bofocchiando non so quale indecifrabile scusa per poi rendersi irreperibile nel reparto abbigliamento.
E Nic mi stava ricordando di aver fatto un investimento milionario comprando uno sproposito di quote, nonostante il parere contrario di un plotone di analisti finanziari, quando passiamo davanti ad uno di quei lettori elettronici a codice barre a disposizione dei clienti.
«Aspetta che devo controllare quanti punti ho sulla mia card» mi disse con il suo sorriso gengivale in dentavision.
«Anch’io sto accumulando punti» replicai ingenuo toccandomi il taschino «volevo prendermi con 2.500 punti un forno a microonde e…»
«Ah sì?» fece lui sbadigliando «io dovrei essere invece sui 96.000, giusto per regalarmi il Mega Screen Home Cinema da 120 pollici in Dolby Surround.» Così blaterando, fece scivolare sotto il lettore la sua card. Dopo un rapido beep beep sottolineato da un impertinente zot zot, comparve trionfale sul display del dispositivo questa scritta in verde:
‘I dati da lei richiesti, non sono disponibili.’
«Accidenti, non funzionano mai queste baracche quando ne hai bisogno!» esclamò lui sprezzante mettendosi in tasca la sua scheda.
E stava per voltarsi verso di me quando un’altra scritta, in rosso, prese il posto della prima:
‘Abbiamo però provveduto a inizializzare la sua card, come da richiesta. Buona giornata.’

Tutta colpa degli innamorati

«E’ meraviglioso vedere quante violette siano nate quest’anno!».
Amina sussurrò questa frase lisciandosi una piega inesistente delle calze a rete. Si era aperto uno squarcio tra le nuvole e, benché piovesse sommessamente, la luce del sole stava illuminando sul mio prato centinaia di piantine cresciute un po’ dappertutto ai primi tepori della primavera. Starsene lì, insieme a lei, seduti sui gradini del portico, era dolce e rassicurante.
«Ma è tutta colpa degli innamorati» me ne uscii io sforzandomi di guardare davanti a me, mentre invece cercavo di fissare con la coda dell’occhio l’espressione sorpresa degli occhi scuri di Amina.
«Come dici, scusa?»
«Eh sì. Perché la leggenda racconta che ser Dagoberto (non so più che cosa), innamoratosi perdutamente di una bellissima dama apparsagli in sogno, cavalcò per migliaia di leghe, affrontando indicibili pericoli per cercarla e chiederla in sposa. Giunto, finalmente al cospetto della principessa Viola (non so più che cosa), il cavaliere aprì il proprio cuore alla bionda fanciulla; questa, per tutta risposta, gli rispose che non ci pensava neppure a sposarlo perché lui era brutto e senza neppure un castello tutto suo. Lui le fece allora presente che per chiedere la sua mano aveva affrontato con indomabile coraggio draghi e fattucchiere, orchi e assassini e dunque aveva diritto di chiederla in moglie, tanto più che l’amava. Lei chiarì sprezzante che se non se ne andava lo avrebbe fatto sbranare dai suoi cani da caccia. ‘Almeno dammi un bacio’ implorò il cavaliere messosi in ginocchio; ma subito quattro energumeni di servitori, grossi come catapulte, si materializzarono da dietro gli arazzi defenestrandolo senza neppure fargli mormorare ‘addio’.
Ser Dagoberto rimase tutta la notte aggrappato ad uno spuntone di roccia cui si era avvinghiato cadendo dalla finestra. L’indomani, però, già non c’era più. Al suo posto era nata una piantina dai petali profumati come i capelli della principessa Viola e dal colore tenue e delicato come erano le sue labbra. Da allora si dice che le violette nascono dai baci perduti degli innamorati, perpetuando così la storia di ser Dagoberto (non so più che cosa).»
Amina mi guardò in modo strano. Mi si avvicinò sorridendo per poi stampare le sue labbra morbide sulla mia guancia. Quindi mi disse:
«Un modo un po’ contorto per farsi dare un bacio, ma te lo sei meritato.»

A testa bassa

La pioggia sul tettuccio della macchina stava facendo un fracasso assordante. Erano gocce pesanti e violente, per il freddo e il vento. Amìna mi aveva chiesto di andarla a prendere all’angolo di via Tebaldi e non avevo saputo dirle di no. E così mi trovavo fermo accanto al marciapiede, in attesa, per fortuna al riparo da quel nubifragio; ogni tanto azionavo i tergicristalli: la via era semibuia e temevo che lei potesse non vedermi.
Ad un certo punto scorsi, ad una decina di metri da me, in mezzo alla strada, una figura immobile. Osservai meglio: era un uomo. Indossava un impermeabile scuro, ma era senza ombrello. La pioggia era così fitta che quasi cancellava quella scultura monolitica, inquietante per la sua insensibilità all’acqua gelida che le si stava rovesciando addosso. Ogni tanto alzava il viso verso una luce accesa al primo piano. E lo faceva ritmicamente, come se quella fosse la superficie del mare e lui emergesse dall’abisso per poter respirare.
Una macchina, poco dopo, imboccò lentamente la via: proveniva dalla piazza vicina e il fascio degli abbaglianti finirono per contornare in modo netto quella silhouette innaturale, ma anche tragicamente semplice nell’esser di pietra nata dall’asfalto. La vettura fece i fari; una, due, tre volte, ma senza ottenere strada. Poi si acquietò, come se avesse rinunciato.
Quella scena mi ricordava quella vissuta da me tanti anni addietro e mai rimossa. Avvertii un brivido nell’anima nel riprovare tutta la cupa disperazione di allora, la forza devastante dell’abbandono, il senso di nausea per la vita.
Poi l’uomo alzò per l’ennesima volta gli occhi alla finestra fino a quando la luce si spense. Fu quello il momento in cui si mosse, a testa bassa, verso di me. Me lo vidi arrivare come un fantasma, scivolando sulle bolle d’acqua che la pioggia insistente gonfiava qua e là sulla strada lucida. Per un attimo sfiorò la mia macchina mentre il riverbero debole di un’insegna mi restituì il suo volto. Mi assomigliava. Anzi, chiunque fosse stato al mio posto, in quel preciso attimo, l’avrebbe scambiato per me. La gola mi si fece secca e lo specchietto retrovisore incorniciò la mia faccia sbiancata. Mi voltai al suo passaggio come fossi intenzionato ad attirare la sua intenzione; forse volevo parlargli, forse volevo solo capire meglio.
Ma di scatto la portiera si aprì.
«Ti ho fatto aspettare molto?»
Era Amìna. Mi ero completamente dimenticato di lei. Il suo sorriso radioso entrò in macchina e mi parve persino che avesse smesso di piovere.