Sull’isola di Polvento

cane - meticcio - simpaticoMilo era giunto sull’isola di Polvento da meno di una settimana. I suoi abitanti si sarebbero potuti ritrovare, tanto erano pochi, intorno a un’unica tavolata imbandita sulla piazza antica, se solo avessero voluto organizzare una festa; eppure, su quello scoglio martoriato dalle onde, il Ministero aveva pensato bene di tenere aperta una scuola elementare e lui, come insegnante, aveva ottenuto la cattedra per soli tre bambini.
In uno dei pomeriggi lasciati liberi dal lavoro, approfittando di un giorno di sole, si era inerpicato sul monte Apo che si ergeva all’interno dell’isola. Di lassù si poteva godere di un panorama incantevole e, quando spirava il maestrale come quel giorno, era anche possibile scorgere nitida la costa argentea del continente come un raffinato miraggio alla deriva.
Era sprofondato in chissà quali pensieri quando si sentì osservato. Frugò con gli occhi nella direzione del punto da dove gli sembrava provenisse lo sguardo, senza vedere altro che rocce di granito punteggiate da cespugli di erica e di timo salmastro. Poi qualcosa si mosse e così lui lo vide bene: era la figura di un piccolo cane che, dapprima incerto e quindi con fiducia, veniva fuori da un grumo di sassi. L’animale risalì lentamente il sentiero per rimanere guardingo a debita distanza.
Milo distolse lo sguardo. Era ipnotizzato dai gabbiani reali resi immobili dal vento: ondeggiavano come stracci gettati al sole e il loro stridìo pareva un grido di allarme per i pochi pescatori che risalivano a fatica la corrente, una striscia amaranto profonda e a cuneo, che, anziché accoglierli al sicuro del porticciolo poco più sotto, li respingeva verso il mare aperto. L’uomo se ne restò così lassù, dimentico del tempo che passava, immerso nei profumi densi che saturavano l’aria tiepida. Al reclinare indolente del sole riprese la via verso valle, seguito sempre da quel cane che non lo perdeva un attimo di vista. Prima di andare a casa l’uomo decise di fermarsi al bar dove ordinò un caffè.
«Avete mangiato le bacche?» si sentì dire alle sue spalle nell’accento del posto.
Milo si voltò. Era Binnu, il pescatore decano del villaggio.
«S-sì, penso di sì.»
«Una bacca rossa con dei puntini bianchi?»
«Adesso che mi ci fa pensare, sì? È velenosa?»
«No, affatto!» rispose il vecchio sforzandosi di parlare italiano. «Anzi è dolcissima, succosa e molto buona. Solo che adesso, per almeno un mese, avrete addosso questo odore di cadavere.»
«Di cadavere, ma dice sul serio?» Milo provò a odorarsi. In effetti emanava uno strano olezzo dolciastro che aveva attribuito alla sudata per la salita impervia.
«Sì…» confermò Carmelo da dietro il banco del bar «si sente molto… ma poi vedrete che passa. Ci voli pazienza. Chiù scuru i menzannotti nun po’ fari
«E il cane è vostro?» gli chiese ancora Binnu indicando con la testa il meticcio poco lontano, in attesa.
«No, era già su, in cima… mi ha seguito…»
«Noi non abbiamo cani sull’isola, dev’essere vostro» sentenziò Carmelo.
«Le dico di no» ribatté Milo che si stava alterando per quelle troppe novità.
Carmelo alzò le braccia in segno di resa e poi squadrò Binnu che aveva ripreso a leggere un foglio davanti a sé.
Milo se ne venne via contrariato. Aveva preso in affitto per pochi euro una casetta sul versante sud dell’isola e non appena aprì la porta il cane lo superò al galoppo entrando senza troppi complimenti; si acciambellò subito sul divano piazzato al centro dell’unica stanza, come se ci fosse sempre stato. L’uomo cercò di mandarlo via, ma senza tanta convinzione. Il cane aveva già capito che sarebbe rimasto.
L’indomani mattina quando uscì per recarsi alla Scuola, seguito dal cane, Milo s’imbatté in una signora di mezza età, di bassa statura, il volto scritto da una vita di fatica, con un vistoso fazzoletto in testa a raccogliere i capelli ingrigiti; un grembiule azzurro cilestrino, lungo fino a terra, completava la macchia di colore.
«Buongiorno signor Maestro… tenete» fece allungando un pacchettino avvolto in un scampolo di pelle di capra.
«Buongiorno a lei… oh cosa mi dà?»
«È per il vostro cane… mangiano i cani, sapete?» disse dandogli subito le spalle e riprendendo in modo sollecito il sentiero percorso.
«Non è il mio cane» precisò Milo.
«Sì, certo, come vuole vossia» disse la donna voltandosi: «Ah… e io mi chiamo Gnazia e sono la moglie di Maronnu u cardaturi e, a tempo perso, perpetua del parrinu di qui. Però, guardate, non vi offendete, ma glielo devo proprio dire: fetete comu u mortu