Quando si dice la fortuna

 

Gualtiero non era mai stato fortunato in vita. Ma neppure da morto fece di meglio. Per una di quelle inspiegabili coincidenze che il destino a volte si diverte a creare nella vita, l’addetto alla cremazione delle salme della camera mortuaria di Lughi, giovane e di poco esperienza, aveva compreso male il suo compito per cui l’unica bara disponibile – e che avrebbe dovuto accogliere la salma del caro estinto – era stata da lui avviata, al posto di un’altra, all’incenerimento, completamente vuota.
Si dovette aspettare una settimana per far venire un nuovo feretro da una ditta di Tòdaro che, a sua volta, era rimasta senza casse per il tragico incidente di un pullman uscito fuori strada che aveva fatto più di venti vittime.
Così Gualtiero se ne dovette stare per diversi giorni in una cella frigorifera che funzionò poco e male per via delle frequenti interruzioni di luce dovute alla riparazione di una turbina della centrale elettrica colpita da un fulmine. Tutto questo non giovò affatto al povero cadavere se si considera che morì in uno dei più caldi ed afosi mesi di giugno che la valle ricordasse. La sua cella fu così cosparsa, in quei giorni, da chili e chili di ghiaccio per granatine e tutto ciò accadde proprio a lui che, in vita, sentiva sempre freddo tant’è che girava con pesanti indumenti di lana anche in piena estate.
L’unico parente per parte di madre, un nipote di nome Guglielmo, che si era fatto carico delle sue esequie, spiazzato dal ritardo dei funerali dovuto agli inconvenienti appena ricordati e accortosi che sarebbero andati a coincidere con il giorno e l’ora in cui la sua squadra del cuore avrebbe giocato la finale di una coppa intercontinentale, fece di tutto presso il parroco per farli anticipare. Alla fine ci riuscì, accorgendosi troppo tardi però che il funerale sarebbe stato celebrato subito dopo un matrimonio. Così la messa ebbe luogo in una chiesa addobbata a festa, con tripudio di fiori, fiocchi bianchi e addobbi vari (un cartello “Siate felici, rimasto nella cattedrale, non fu rimosso) e con il sagrato della chiesa pieno di riso, monetine e pasta (sedanini, maccheroni e mezze penne) in linea, del resto, con le usanze del luogo.
Ora Gualtiero riposa in pace nel cimitero della Pieve, a Punta Moreno, ma, nell’indifferenza del nipote, gli addetti all’area cimiteriale hanno dovuto rimuovere la lapide alla sua tomba perché, durante la notte, una banda di gatti randagi si era ostinata ad entrare nel recinto per fare i loro bisogni su quella sola lastra di marmo. L’odore e il miagolio divenuti insopportabili persuasero i necrofori alla rimozione.
Se qualcuno avesse reclamato, si erano detti i necrofori, l’avrebbero rimessa a posto o sostituita con qualcos’altro. Ma nessuno mai lo fece.
Con l’andare del tempo, la lastra di marmo in questione, spesso in giro a dar fastidio nel gabbiotto del custode, fu dapprima usata come pianale per la briscola e, quindi, una volta rottasi in diversi parti, come pezzi per delimitare l’aiuola di rosmarino nei pressi del vespasiano del cimitero.

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