Così sono rimasto in giardino, incerto se rientrare o no anch’io, visto che si faceva sera; oppure andare a prendere il frisbee.
Pensando però che se riportavo il giocattolo forse il bambino avrebbe smesso di frignare mi sono diretto sul retro. In realtà dietro casa non ci ero mai stato. Una siepe alta e spinosa di pyracantha me lo ha sempre impedito. Una siepe che non è neppure aggirabile, visto che finisce là ove iniziavano le recinzioni dei vicini. Per passare dall’altra parte, insomma, occorreva prendere l’auto, fare il giro del paese, prendere la vicinale tutta curve e alla fine, dopo mezz’ora, arrivare alla casa dalla parte del bosco. Impensabile. Volli allora ispezionare palmo a palmo tutta la siepe alla ricerca di un qualche varco, caso mai se ne fosse creato uno in tutti questi anni; e, cercando con attenzione, mi accorsi che proprio a una ventina di metri verso est, semi nascosto dal tronco di un leccio, c’era un cespuglio bruciato dal freddo. Non sarebbe stato difficile scostarlo e intrufolarsi dall’altra parte. Guardai l’orologio. Ma sì, pensai, faccio in un attimo e torno indietro. Oltrepassai l’arbusto, ma, anziché trovarmi nel bosco, mi vidi la strada sbarrata, a distanza di circa un metro, da un’altra fila di cespugli lunga e parallela alla prima; percorsi il corridoio per tutta la sua lunghezza, sperando di trovare un’uscita verso l’esterno, ma mi imbattei invece solo in una piccola radura. Cercai per un po’ senza successo il frisbee e stavo per rinunciare quando sentii dire:
«Ma guarda chi si vede!»
Mi voltai e notai nella penombra qualcosa di incerto e confuso. Mi avvicinai. Appoggiato a un albero c’era un uomo, malfermo, in avanzato stato di decomposizione: la pelle era livida e gonfia sul cranio, in parte scoperto, mentre i vestiti si presentavano laceri e tesi sul corpo deformato dalla morte. Gridai. Gridai con tutte le mie forze, ma non mi uscì nessun suono.
«Non mi dici nulla?» mi fece ancora quello.«Dopo tanto tempo sei solo capace di fare quella faccia?»
Retrocessi di qualche metro in preda a conati di vomito.
«Scusami» mi disse in modo appena percettibile. «Non volevo spaventarti; ma è che non ce la faccio a restare a lungo sottoterra, anche se dove mi hai messo tu non è poi tanto malaccio; è asciutto e riparato e abbastanza lontano dagli animali del bosco; ogni tanto però sento la necessità di uscire, proprio per sentire quest’aria fine e fresca, che tanto mi manca, anche se non riesco più a respirarla. Ma non ti preoccupare, adesso ritorno buono buono nella mia buca, non ti voglio dare fastidio.»
«Come sarebbe a dire che ti ci ho messo io?» gli ho chiesto non pensando che non sarei riuscito a parlare.
«Te lo sei già dimenticato? Mi hai ucciso tu, una sera. È stato un incidente, lo so bene. Non dovevo prendere il motorino, alla mia età e poi, a dirla tutta, avevo bevuto davvero troppo quella volta. E forse la fine che si deve fare a vivere soli, senza affetti e senza amici. E così, di ritorno a casa dall’osteria, mi hai preso in pieno con la tua macchina.»
«No… non ricordo nulla» gli ho detto sincero.
«È successo una decina d’anni fa. Hai pensato bene di seppellirmi qui, dietro questi cespugli che hai piantato apposta per separare la casa dal bosco. Forse mi volevi tener d’occhio, chissà, o forse volevi solo darmi una sepoltura tranquilla. Ma dai, non fare quell’espressione: non è stata tutta colpa tua, te l’ho detto: ero vecchio e me la sono cercata. Solo che quando mi hai seppellito ero solo ferito; sì, mortalmente ferito, ma ancora vivo. Avresti potuto aspettare una decina di minuti, non ne bastavano di più e sarei morto da me. Solo che tu avevi fretta. Fretta di nascondere ogni traccia di quello che avevi combinato e di tornare a casa dalla tua deliziosa famiglia. È per questo che ogni tanto ancora me ne vengo fuori; non riesco a togliermi la sensazione della terra nell’esofago e nei polmoni, anche se probabilmente non ho più né l’uno né gli altri; e poi è come se fossi morto solo un po’ o non del tutto, insomma…»
Nell’aria sentii in quel momento che mia moglie mi chiamava. Forse lo faceva da qualche minuto perché udii solo qualche spezzone di frase.
«Vai…» mi ha detto allora l’uomo «è ora di cena. Non vorrai mica farli stare in pensiero?»
Mi voltai, ma senza riuscire a muovermi veramente.
«Non ti dimenticare il frisbee, ce l’hai appena dietro di te» mi disse lui nella semi oscurità. Notai la macchia arancione sotto le foglie; lo raccolsi e, senza più girarmi, mi allontanai senza far rumore. Ma nel buio feci appena in tempo a sentire:
«Vienimi a trovare qualche volta, se puoi. Tanto sono sempre qui.»
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E’ veramente fantastico, eppure sembra anche reale, tanto è ben scritto. Complimenti davvero.
Se avessi visto un morto parlarmi sarei svenuta dalla paura. Non so tu come hai fatto. Ma davvero l’avevi ucciso tu?
Questo è un blog di racconti, non un diario 🙂
Quindi non l’hai ucciso tu?:-)
Molto particolari i tuoi racconti carissimo. Riesci sempre ad incuriosire come in questo caso. Complimenti. Isabella
Delizioso racconto, il povero zombie è di una educazione rara quasi dell’altro mondo.
Il rimorso della coscienza ha portato l’uopmo dove aveva sepolto colui che aveva investito. Però è umano perché ha rimosso dalla mente quel lontano incidente. Rimosso e cancellato come spesso facciamo noi per i ricordi scomodi.
Cmq noto che pur cercando di esserlo…non riesci mai ad essere troppo cattivo…il frisbee si è perso e si deve cercare…è stato scoperto il morto e lo si andrà a salutare…mi piace il retrogusto dolce dopo il salato (se ti associo ad un sapore – in questo brano – sei cioccolato nero al peperoncino!)
Bello…penso anche io che si debba aver paura di alcuni vivi e non dei morti!
Ma non era meglio comprare un altro frisbee a due passi sotto casa?
La moglie dirà che il marito è sempre il solito…anche prima di sposarsi gironzolava per ora e non stava mai fermo…quindi nemmeno quella è tacitata!
molto brividoso!
la banalità del male…un racconto sorprendentemente “cattivo”!
Ho fatto un po’ fatica a districarmi tra i cespugli ma il finale ne è valsa la pena!
La prossima volta avvertimi così ti faccio avere un fiocchettino rosa da attaccare al polso in modo da ricordarti dove stanno la destra e la sinistra 🙂
Direttamente da un incubo, buio e tenebroso. Che sia un po’ TWD ad ispirarti?
Potrebbe, non è da scartare…
Nel prossimo post cercherò di farmi influenzare da ‘Nashville’ 🙂