Premessa giurisprudenziale

Occorre innanzitutto chiarire cosa si voglia intendere per specificità dei motivi.

La questione è ovviamente di rilevanza cruciale in sede di gravame posto che ciò che non viene censurato passa in cosa giudicata e diventa intangibile sia per le parti che per il giudice. Se dunque tale effetto non è voluto da chi impugna la sentenza siamo sicuramente di fronte a un grave deficit del gravame.

La giurisprudenza della Suprema Corte ha da tempo maturato il principio secondo cui, ai fini della selezione delle questioni di fatto o di diritto suscettibili di giudicato interno se non censurate e quindi devolute in appello, occorre aver riguardo all’“unita minima suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato” siccome individuata dalla sequenza logica

fatto > norma > effetto giuridico.

L’impugnazione motivata anche in ordine a uno solo di tali aspetti consente la riapertura della plena cognitio del giudice del gravame sull’intera statuizione che abbia affermato l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma che a esso ricolleghi un dato effetto giuridico (cfr. in tal senso tra le più recenti: Sez. 6 – L, ord. n. 24783 del 8 ottobre 2018, rv. 650927 – 01; Cass. nn. 2217 del 2016, 12202 del 2017 e 16853 del 2018, tutte sulla scorta di Cass. n. 6769 del 1998).

Dunque rimane importante che, per far sorgere l’onere del giudice dell’appello di esaminare la questione in tutta la sua interezza e per non far scattare la “trappola” del giudicato interno, da parte dell’appellante siano censurate le argomentazioni del primo giudice che tocchino almeno uno di questi profili, in modo che anche qualora espresso in via autonoma, sia in modo chiaro collegabile a un passaggio argomentativo della sentenza.
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