La signora è qui

«La signora è qui» fece l’avvocato entrando lentamente nell’aula per non fare rumore.
Il giudice alzò lo sguardo, prima su di lui poi su un’anziana signora che aspettava in corridoio. Aveva un cappellino curioso e una borsetta d’altri tempi, l’aria arcigna e battagliera. Si guardava in giro come per capire dove dovesse andare.
«Ha 93 anni…» aggiunse l’avvocato quasi per scusarsi.
«D’accordo la faccia venire…»
L’avvocato uscì per avvertire la cliente. Si offrì anche di darle il braccio per farla entrare con maggior agio, ma la donna si divincolò in malo modo. «Non sono un’invalida!» si sentì dire.
«Buongiorno, si accomodi…» fece il giudice indicando la sedia dall’altra parte della scrivania.
«Guardi che è un po’ sorda» bisbigliò l’avvocato accennando a un sorriso di intesa.
Il giudice fece un cenno con il capo e poi, rivolgendosi alla signora che aveva preso posto davanti a lui senza togliersi il cappellino, disse ad alta voce: «lei lo sa perché è qui, vero?»
«Sì certo… per quei due mascalzoni dei miei nipoti che vogliono mettere le mani sulla mia roba prima ancora che io tiri le cuoia…» e si fermò a guardare il giudice con gli occhi chiari e sbarrati come fosse anche lui il responsabile di quella situazione incresciosa. «Mi vogliono mettere l’amministratore di condominio… Hanno fretta. Loro.»
«L’amministratore di sostegno…» precisò il giudice.
«Sì, quella cosa lì… uno è un fannullone che vive alle mie spalle e sta a Milano, chissà in quale tugurio di sottoscala, e l’altro è un tossico che si fa di barbiturici da mattina a sera e vive con i sussidi della Caritas…» fece lei agitandosi.
«Il “fannullone” vive a Milano ed è primario al reparto di ortopedia del San Francesco di Sales di Opera mentre il “tossico” è professore di medioevalistica alla Normale di Pisa…» chiosò l’avvocato sottovoce per non farsi sentire dalla cliente.
«Ho capito…» fece il giudice chiudendo entrambi gli occhi per qualche secondo «allora, per il verbale… lei è nata a…?».
«Rovigo» rispose la donna cercando di attenuare il tono concitato ma mantenendo il viso imbronciato.
«Il…?»
«12 agosto…»
«Del…?»
«Non si chiede l’età a una signora…»
«Ma è per la procedura» le spiegò l’avvocato.
«È che ci tengo alla mia privacy… e poi è già scritto tutto in quei maledetti fogli lì» indicando con la testa il fascicolo che era tra le mani del giudice. «Non sa leggere?» chiese sfrontata al magistrato.
«In questi fogli c’è scritto anche però che lei dilapida i suoi soldi… fa spese inconsulte… del tipo che compra ogni settimana un nuovo divano per la casa e poi se ne disfa regalandolo al primo che capita perché non le piace più… oppure regala i soldi a chiunque venga a casa sua a chiederglieli… o ancora lascia mance vertiginose al macellaio, neanche fosse il suo tassista.»
«I soldi sono miei e ci faccio quel che mi pare.»
«Certo, niente di più vero. Il problema è che, appena dopo tre giorni aver ritirato la pensione, lei non ha di che comprarsi da mangiare. I suoi nipoti sono preoccupati per lei. Anche perché sta pure cercando di svendere l’appartamento dove attualmente vive. Dove andrà abitare, poi?»
«I miei nipoti fanno finta di essere preoccupati per me, in realtà non vengono neppure a trovarmi. Sono due egoisti. E poi ho ancora il box anche se la macchina l’ho venduta perché ci vedo poco. Andrò a vivere lì, se proprio ci tiene a saperlo, signor cancelliere… magari sul divano che mi è rimasto…» e strizzò un occhio per sottolineare l’ironia.
«È un giudice Marta, il dottore qui è un giudice non un cancelliere.»
«È lo stesso.»
«Cosa ci può comprare con mille euro, signora?» continuò il giudice, paziente.
«Con mille lire? Poco o niente… un chilo di patate?»
«Con mille euro, signora, le ho chiesto con mille euro… non ci sono più le lire… da tempo» cercò di chiarire il magistrato.
«E da quando?»
«Senta… mi può dire che giorno è oggi?»
«Il 12 febbraio, che diamine!»
«Sì, molto bene, ma di che anno?»
«Dell’anno che vuole lei…» disse sgarbata sbuffando.
«Marta, rispondi bene e con gentilezza al giudice» la incalzò l’avvocato. «La scusi, la prego…»
Il magistrato fece un gesto per rassicurare il difensore mentre la donna volse la testa da un lato, come volesse ritrovare la calma che aveva perduto. Poi prese un largo respiro.
«Siamo nel 1943, se non se lo ricorda! È preoccupante che uno come lei che fa un lavoro di responsabilità non lo sappia» rimbrottò la signora Marta facendo gli occhi a spillo quasi volesse fulminare il suo interlocutore. «Si faccia vedere da qualcuno bravo… Anche se, prima o poi, quel bravo baffetto vincerà e vi sistemerà tutti quanti: una volta per tutte.»

Il Prof. Iginio

La prima volta che, uscito dalla stazioncina ferroviaria, lo vide era un lunedì. L’uomo poteva avere qualche anno più di lui, difficile dirlo, anche se per tenere la posizione eretta si aiutava con un bastone. Lo notò perché sembrava aspettarlo per potersi incamminare anche lui verso il centro. Gli era ben chiara quella strana sensazione che gli parve peraltro ancora più singolare per il fatto di aver notato quell’uomo tra le tante altre persone, tra pendolari e studenti, che animavano a quell’ora la stazione.
Man mano che la settimana trascorse, che piovesse o che il cielo fosse sgombro di nubi, al suo arrivo l’uomo era sempre nella stessa posizione, accanto al bel lampione in ferro in stile liberty appena fuori dall’edificio; era magro e longilineo, calato in un elegante vestito giacca e cravatta, un bel cappello ad adornare un viso bonariamente serio; sì lo aspettava e insieme a lui avrebbe fatto tutto il tragitto fin verso l’ufficio.
Ma ciò che Iginio non riusciva proprio a capacitarsi era come faceva quel tipo, che aveva un incedere molto più lento del suo, a mantenere il suo stesso passo, rimanendogli poco distante. Un po’ più avanti, un po’ più indietro, ma vicino.
Poi, un giorno, l’uomo sconosciuto incrociò qualcuno che, nell’incontrarlo nella via, con gesto ampio si cavò il cappello dalla testa e con una leggera riverenza gli disse:
«Prof. Iginio, buongiorno!»
L’uomo rispose con appena un sorriso garbato portando a sua volta la mano alla tesa del proprio borsalino.
Come sarebbe a dire, buongiorno professor Iginio?’ si chiese Iginio. Anch’io mi chiamo così e anch’io faccio il professore. Come è possibile una coincidenza simile?
Una mattina, che lo aveva a distanza di meno di qualche metro, prese coraggio e volle avvicinarlo. Doveva saperne di più. Ma nell’avvicinarsi, in un attimo, si inframmezzò tra loro un gruppo vociante di bambini in gita scolastica e ben presto lo perse di vista. Un’altra volta, in un secondo tentativo, quello improvvisamente entrò in uno stabile chiudendo dietro di sé il pesante portone. Una terza volta, ancora, il tipo salì all’ultimo istante su un autobus che se lo portò via in pochi secondi.
Si fece così strada nel suo cervello che quell’uomo poteva essere lui, la sua immagine fatta persona. Lo sapeva bene che ciò non era possibile, razionale com’era, e che era tutto frutto della sua immaginazione, ma le coincidenze erano troppe. Quell’uomo era forse lui di lì a qualche anno? Ma per quale motivo gli si mostrava? E perché non riusciva a parlargli?
Così la sua preoccupazione crebbe a dismisura quando una mattina, era un lunedì, uscendo dalla solita stazione, non lo vide. Lo cercò attorno al ‘suo’ lampione controllando bene se si fosse attardato altrove, ma era sparito. Lungo il tragitto dalla stazioncina all’ufficio si voltò spesso indietro per accertarsi che non sbucasse da qualche parte. Ma niente. Così accadde il giorno dopo e i giorni a seguire.
Cominciò allora a convincersi che forse era questo il messaggio: che lui aveva ancora pochi anni davanti. Che doveva andare in pensione, godersi la vita, prima che fosse troppo tardi.
Entrò in depressione. Anche se si ripeteva che in realtà era tutta una semplice suggestione. Forse, a prescindere da quello che gli stava accadendo, mettersi in pensione era dopotutto quello che davvero doveva fare, da tempo. Avrebbe potuto fare quei viaggi che aveva sempre rimandato. Era arrivato il momento di smetterla sul serio con quelle cartacce, le estenuanti riunioni inconcludenti e le continue beghe di ufficio. L’età in fondo c’era. Il suo lavoro nella sua vita l’aveva fatto. Un po’ di riposo non ci stava tanto male.
Sì, forse era così anche se passò il resto dei giorni di ottobre in piena crisi.
Poi, all’inizio del mese successivo, era sempre un lunedì, notò che l’uomo aveva ripreso il suo solito posto aspettandolo appena fuori dalla stazioncina vicino al lampione in stile liberty. Si sentì felice. Per sé stesso, per quell’uomo che stava bene. Era stata tutta una supposizione, allora. Pensò. O forse no. Sì sentì anche stupido e credulone. Avrebbe voluto di slancio andare incontro a quella persona anche se non la conosceva, per abbracciarla. Ma poi pensò che l’avrebbe preso per matto. E poi non voleva farla sparire, un’altra volta.
Così rimase fermo per un po’ a guardare quell’uomo così particolare. Era vestito bene, come sempre. Con il suo cappello, il suo bastone. Si era solo fatto crescere un po’ la barba bianca, peraltro curata, che gli stava molto bene. Stava come sempre immobile a guardare davanti a sé la strada, come se nulla potesse turbarlo, pronto a muoversi non appena lo avesse fatto lui. Gli parve persino che per un attimo si fosse girato nella sua direzione e gli avesse sorriso, ma non ci avrebbe giurato. Poi il Prof. Iginio, in servizio, si incamminò e l’altro Prof. Iginio, in pensione, fece lo stesso. Passo dopo passo.

Ginger

I due anziani erano seduti sulla loro solita panchina vista lago. Un ampio cedro del Libano protendeva verso di loro i propri robusti rami gentili come a volerli proteggere. Accanto a ciascuno di loro una gabbietta dentro alla quale saltellava un usignolo cinguettante. Si ritrovavano sempre lì, nella tarda mattinata del sabato, per far prendere un po’ d’aria ai loro compagni piumati.
«Lo so che mi ripeto spesso, Fred, ma il tuo usignolo canta che è una meraviglia… fa gorgheggi che il mio non imparerebbe neppure se facesse mille corsi di canto… se ovviamente esistessero corsi di canto per usignoli…»
«Sì, hai proprio ragione, Stan…»
In quel mentre, un bambino su una carrozzina aveva fatto cadere a terra un guantino di lana; si spinse fin che poté per seguirlo con gli occhi, guardando anche la mamma senza dire però nulla. La donna, chiusa nella sua bolla di pensieri, non se ne era accorta, come i due amici del resto, che sembravano ipnotizzati dal luccichio del sole che aveva appena rilasciato della polvere d’oro sulla superficie dell’acqua.
«Ah… ho ragione, quindi…» gli disse l’altro un poco risentito «anche tu sei d’accordo sul fatto che il tuo usignolo canta molto meglio del mio…»
Fred si girò a osservarlo. Si capiva dal suo sguardo che erano molti i pensieri che gli stavano agitando la mente; ma poi decise di dar sfogo solo a uno di essi.
«No, dicevo, che hai ragione quando dici che ti ripeti spesso… Me lo fai notare quasi ogni volta che ci vediamo. ‘Ginger ha un piumaggio più bello del mio, canta meglio del mio, saltella come nessuno mai, ha l’occhio più vispo che si sia mai visto…’. Ginger mi è stata regalata da un mio vecchio commerciante di tè Gyokuro… viene dallo Kirishima nel sud del Giappone… È una usignola speciale.»
«Ginger? Tu ti chiami Fred e il tuo usignolo Ginger?» gli chiese Stan sbarrando gli occhi.
La domanda rimase sospesa nell’aria, come le due piccole nuvole che si stavano rincorrendo nel cielo in quel momento.
«Da quanto tempo ci conosciamo, Stan?» gli chiese sospirando.
«Praticamente da sempre…» rispose l’amico, contento di sapere la risposta.
«E da quanto tempo ho Ginger?»
«Da quando sei andato in pensione, pari a me… cioè quindici anni fa circa.»
«E ti accorgi solo ora che io mio chiamo Fred e la mia usignola Ginger? Perché Ginger è oltretutto una femmina, Stan, una F-E-M-M-I-N-A! Sennò si chiamerebbe Gingerino, il che sarebbe orribile.»
Stan aveva aperto la bocca giusto per ribattere, ma si era accorto di non avere a disposizione le parole giuste.
In quel momento arrivò Albert, il terzo amico. Era così alto che, nonostante fosse curvo di spalle, sovrastava gli altri due minacciosamente. Spingeva un’asta da fleboclisi davanti a sé solo che, anziché far penzolare un flacone di medicinale, c’era attaccata una gabbietta, anch’essa con dentro un usignolo. Albert abitava vicino al parco, diceva, e gli faceva fatica portarsi la gabbietta in mano; così aveva inventato quel sistema.
«Buongiorno, giovani…» esordì come se li avesse notati all’ultimo momento.
E poi, come d’abitudine, si mise goffamente sull’attenti aspettando che Fred gli dicesse di sedersi. Fred era stato il suo comandante in guerra, e quel legame, dopo tanti anni, per gioco o per rispetto, era rimasto tra loro irrisolto.
«Riposo, sergente, riposo…» gli disse Fred accondiscendente «siediti pure con noi.»
«Grazie» gli rispose lui tirandosi dietro rumorosamente l’asta della flebo. «Allora ne approfitto.»
E poi tutti e tre presero a guardare in silenzio il riverbero del sole sullo specchio immobile del lago. Le giornate si erano fatte più tiepide e i primi fiori stavano colorando i rami spogli dei mandorli.
«Chissà cosa pensano di noi…» fece a un certo punto Fred.
«Cosa pensano di noi, chi?» chiese Albert non smettendo di guardare il luccichio.
«I nostri usignoli. Cosa pensano del fatto che li teniamo in gabbia… che li portiamo un po’ fuori perché respirino l’aria fresca del mattino, perché capiscano che c’è tutto un mondo qui fuori, per poi impedir loro di godersi la libertà; e questo solo per l’egoismo di volerli sentir cantare.»
«Cosa pensano?» fece Stan stralunato. «Ma cos’hai oggi? Sei strano forte. Gli uccellini non pensano e poi senti come cantano!» e mise teatralmente il palmo della mano attorno all’orecchio.
«Che ne sai tu che è un canto di felicità?»
«Guarda che la tua, come del resto i nostri» osservò Albert fermando la gabbietta davanti a sé che si era messa a dondolare per la brezza «è nata in cattività e non saprà neppure cosa significhi volare….». E indicò Ginger con un mezzo sigaro spento che si mise tra le labbra.
«È arrivato il momento di scoprirlo» masticò Fred tra sé e sé; poi, d’un tratto, si alzò andando a posare repentinamente la sua gabbietta su un masso piatto di fronte. Aprì la porticina della voliera tornando subito dopo alla panchina proprio nel momento in cui i due amici esclamavano all’unisono un sonoro: ‘NOOOOOOO!!!’.
Ma poi i due rimasero immobili, come in una istantanea, con il braccio teso verso la piccola voliera come per ripararsi da chissà quale pericolo. Si ricomposero seri, lentamente, senza dire più nulla; tutto sommato erano curiosi di vedere cosa sarebbe successo.
Ginger si arruffò le ali, guardando prima lo sportellino aperto, poi i tre anziani davanti a sé e infine i due usignoli in gabbia. Ma non si mosse.
Albert aveva appena avuto il tempo di dire ‘VISTO?’ che Ginger saltò dalla mangiatoia fin davanti all’uscio della gabbietta. Quindi in un attimo spiccò il volo nell’aria tersa di quel sabato di marzo prendendo, senza il minimo ripensamento, la direzione del sole.
Ben presto fu solo un puntino.
Fred finalmente sorrise.

Come seme di grano

«Cosa fai, Beppe?»
La voce gli arrivò sulla spalla curva. Ma lui non se ne diede conto e continuò a sparpagliare il sale sul camminamento di ferro come fosse seme di grano.
«Si può sapere perché lo fai?» insistette il suo amico d’infanzia Roldo che non era mai riuscito a capire a fondo le sue stranezze.
«Non voglio che qualcuno scivoli sul mio ponte e si faccia male…» fu, dopo un po’, la semplice riposta.
Il passaggio pedonale in ferro scavalcava il torrente, ma in alcune mattine di inverno l’umidità dell’acqua risaliva silenziosa come una serpe indurendo le traversine con ghiaccio azzurrino e insidioso.
«Sono nato in quella casa, Ro’» disse voltandosi e indicando una casupola appoggiata pigramente al basamento del ponte «e ho quasi ottant’anni… come posso non ritenere un po’ mio questo passaggio? Me ne prendo cura, tutto qui…» fece un mezzo sospiro dispiacendosi che il suo amico non capisse. E poi prese un’altra manciata piena di sale e la fece correre sul ferro che restituì un suono di pietrisco e sabbia.
«Ecco, questa mattina ci mancava solo lei…» fece l’anziana signora Pina venendo su dalle ripide scalette. «Gliel’ho già detto mille volte di non buttare quella robaccia qua sopra, mi rovina le scarpe.» La signora Pina si era piantata all’inizio del camminamento con le mani sui fianchi cercando di incrociare lo sguardo acquoso di Beppe che invece continuava nella sua opera in modo risoluto e testardo. «Perché non fa come tutti i vecchi del paese e non se ne va a giocare a tressette al bar?» incalzò lei con gli occhi sbarrati da spiritata.
Beppe, chiuso nel suo mondo, non ribatté mentre la signora Pina, i capelli color viola pallido, gli scivolava accanto sbuffando un ‘Vecchio rimbambito’.

«Hai sentito, Ro’? Beppe è in terapia intensiva… l’ha presa proprio brutta» fece calando una carta con una certa veemenza e alzando dal tavolo il suo bicchiere con dentro due dita di chiaretto.
«Certo che l’ho sentito, Tito. Ci sono stato ancora questa mattina, in ospedale, ma non me lo hanno fatto vedere… Sembrava stesse meglio nei giorni scorsi, ma poi si è aggravato da un momento all’altro: è conciato proprio male… Sono davvero preoccupato.»
«Mi spiace proprio.»
«E al ponte? Chi ci pensa al ponte?» fece Ro’ interrogando gli amici al tavolo.
«Quale ponte?» chiese Mario guardando fuori dalla finestra le luci dei lampioni appena accesi che non riuscivano a bucare le ombre lunghe della sera.
«Il camminamento sul torrente…»
«Mah… so assai…» fece Mario calando con soddisfazione una carta. «Che vada in malora quel maledetto ponte.»
Tutti al tavolo del tressette assentirono senza dire più nulla. Si sentiva solo il fruscio delle carte consunte che luccicavano sulla tovaglia quadrettata mentre in lontananza Remo sistemava le tazzine sporche nel lavastoviglie. Dovevano ricostruire il ponte più a sud, ampliandolo, giusto per consentire il traffico veicolare; e questo già all’inizio nel nuovo secolo, ma solo quando avessero anche spostato la linea ferroviaria. Poi avevano lasciato la linea lenta dov’era facendo passare l’alta velocità sul lungo lago e ogni cosa, nonostante le promesse del Sindaco, era rimasta come prima.
«Ah… lo sai Ro’ della Pina?» fece Nando bloccandosi per aria con la carta da giocare in mano.
«No, che ha fatto ancora quella vecchia megera…?»
«Passando questa mattina sul ponte… è scivolata sul ghiaccio. E s’è rotta il femore.»

Mashemashink

Autovettura - americana - d'epoca

Ci volle un po’ perché la polvere sollevata si posasse di nuovo a terra. E quando successe apparve una Ford Thunderbird del ’66 che un tempo forse era di color acquamarina.
L’uomo al volante, capelli neri e ricci, sulla cinquantina ben portati, abbassò a fatica il finestrino e, sporgendosi verso il distributore di benzina, domandò indeciso:
«Vado dritto per Pinetop Bow o devo svoltare a sinistra?»
L’anziano, in salopette di jeans, era in bilico su una sedia malconcia che si reggeva appena sulle gambe posteriori, lo schienale obliquo a toccare il muro scrostato del capanno. Era immobile tanto da sembrare di cera se non fosse stato che masticava vigorosamente qualcosa; forse del tabacco o della liquirizia.
L’uomo al volante, non avendo visto alcuna reazione nel suo interlocutore, ripeté la domanda questa volta ad alta voce, indicando vistosamente la strada ampia ma sterrata davanti a sé e soprattutto la biforcazione.
«Se continuo su questa strada ci arrivo a Pinetop Bow o devo andare verso sud? Non c’è nessun cartello!»
Passò ancora altro tempo. Poi l’anziano, spostandosi con il busto in avanti, raddrizzò la sedia che piombò sulle gambe anteriori scricchiolando.
«Vuole far rifornimento? Di quanti galloni ha bisogno?» gli chiese con una voce un po’ rauca ignorando la domanda.
Un colpo di vento investì un segnavento di legno che sembrò prendere vita. Difficile dire di cosa si trattasse. Per qualche attimo oscillò con un rumore di pentole fino a indicare con una asta scortecciata di pruno la direzione del vento. Durò poco perché la brezza calò in un attimo e il segnavento riprese la sua sagoma informe e inanimata.
«No, non ho bisogno di benzina, ho fatto il pieno giù a Blackwell… Volevo solo sapere dove devo andare. Non ce l’ha una mappa della zona?»
L’anziano a quel punto si alzò lentamente facendo leva con le braccia sulla seduta. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni uno straccio unto e maleodorante con cui prese a pulirsi le mani.
«Non abbiamo mappe qui… non c’è nulla per miglia e miglia e quelle poche persone che abitano in zona le si conoscono tutte…»
Lo straniero fece una smorfia di disappunto. Guardò davanti a sé come se ora vedesse non una strada infinita che si perdeva nel deserto torrido ma un muro invalicabile.
«Abbiamo Pinelake Grab, un Grosvenor Bow e finanche un Pinehollow Bridge, ma un Pinetop Bow proprio no…» fece l’anziano che, sempre strofinandosi le mani più per abitudine che per necessità, si era avvicinato al finestrino. L’uomo al volante lo stava squadrando frustrato.
«È proprio sicuro che non vuole un po’ di galloni di benzina?» insistette il vecchio arricciando il naso e mettendo così in mostra alcuni denti imbruniti «le servirà di certo una riserva se si addentra nel Thoughtful Angel Desert…» fece sputando nella polvere un grumo scuro che centrò sulla testa una lucertola grigia.
«Le ripeto che non ho bisogno di carburante… voglio solo arrivare a destinazione: è da ieri che sono in macchina…»
Nel frattempo, si era presentato un altro anziano. All’uomo della Thunderbird parve vedere doppio. Era esattamente identico all’altro, anche per come era vestito e per come masticava con la bocca storta.
«È sicuro che non vuole fare benzina?» chiese il nuovo venuto non appena si accostò anche lui alla macchina. Le mani erano entrambe sepolte nelle tasche della salopette dove pareva cercare qualcosa senza trovarla. «Sa, qui ci passa davvero poca gente… e questa settimana c’è uno sconto speciale sulle taniche di carburante da 5,3 galloni…» ribadì quello tirando su con il naso.
Lo straniero li guardò ripetutamente. Erano impassibili anche se avevano lo stesso ritmo di masticazione.
«Ma sì, riflettendoci bene, forse un paio di taniche mi servirebbero proprio… non si sa mai…»
I due gemelli continuarono a fissarlo come fossero impagliati.
«Probabilmente ne ho bisogno di quattro…sì sì, quattro» si corresse l’uomo, dopo un po’, sospirando.
«Ottima decisione, giovanotto!» esclamò il primo anziano che, come il segnavento, parve all’improvviso essere stato investito da una giovanile vitalità.
E mentre uno dei due fratelli caricava le taniche nel bagaglio della Thunderbird e lo straniero pagava, l’altro, tirando su con il naso, se ne uscì:
«Però, adesso che ci penso meglio, Jack, la zona di Maskemashink, prima che le ridessero il nome in dialetto Lakota, come era chiamata?»
L’espressione della faccia dell’altro fratello era interrogativa.
«Ah sì, ora ricordo Jack: la chiamavano Pinecop Row…»
«Già, Aaron, Pinecop Row, assomiglia molto al Pinetop Bow di questo giovanotto…» gli sorrise di rimando. «Ma lì non ci sta proprio nessuno se non le capre selvatiche e il vecchio Glenn, Glenn Weissman…»
«Sono Arthur… Arthur Weissman, il figlio di Abraham Glenn…» disse l’uomo della Thunderbird come fosse un’ammissione di colpa.
«Il figlio di quella vecchia cariatide di Glenny? E chi l’avrebbe mai pensato?» fece Jack facendo finta di dare una gomitata al fratello. «Ma perché non l’hai detto subito che sei il piccolo Arthur?» lo  rimproverò, ora in modo cordiale, Aaron. «Ascolta, non puoi sbagliare: prendi subito qui a sinistra, procedi per una ventina di miglia e quando vedi una roccia a forma di Angelo Pensoso, be’ sei arrivato. La casa di tuo padre è lì sulla destra.»
E subito entrambi i fratelli, senza aspettare un cenno di assenso del guidatore, si girarono all’unisono come se avessero preparato quella uscita di scena tante altre volte.
«Il figlio di quella vecchia cariatide di Glenny!!! E chi l’avrebbe mai detto?» fece ridacchiando Aaron prima di sparire all’interno del capanno.