L’AM-Z

L’allarme scattò all’improvviso mentre stava ordinando le sue cose per andare al lavoro. Era un suono potente, pervasivo, definitivo. E aveva un solo significato. In un attimo abbandonò la borsa, l’incartamento che avrebbe voluto studiare in treno, la colazione. Presto non ci sarebbe stato più un luogo ove lavorare, né un treno, né la preoccupazione di far venire l’ora di tornare a casa. Andò dritto all’armadio e ne cavò lo zaino da sopravvivenza, quello che in via ufficiale chiamavano AM-Z*402. Non doveva far altro che metterselo sulle spalle e seguire il protocollo che sapeva a memoria.
Il suono dell’allarme si stava facendo più frequente e più acuto, come a chiamare a raccolta, anche se, si sentì di osservare, i Responsabili avrebbero dovuto pensare, in un frangente simile, a qualcosa di meno ansiogeno o nevrotico. Accarezzò il gatto che lo guardava stralunato accanto alla sua ciotola vuota e si buttò giù per le scale senza neppure chiudere la porta. Aveva il cuore che gli pulsava in gola, la bocca arida. Ogni secondo che passava era prezioso, lo sapeva bene.
Anche le porte delle altre abitazioni del condominio erano spalancate. C’era chi era già uscito senza aspettare il resto della famiglia, chi si arrabattava a cercare il suo AM-Z senza trovarlo e chi se ne restava immobile nel corridoio come se avesse dimenticato quello che aveva imparato in tutti quegli anni intensi di esercitazione. Si fiutava l’odore della paura, della rassegnazione per l’Evento Zero che tutti avevano sperato fino all’ultimo non accadesse mai. E invece era arrivato.
Per strada, ad ogni via che percorreva, vedeva la gente confluire a fiotti, come torrenti che divengono fiumi e i fiumi il mare. I volti erano tesi, gli occhi sbarrati, le posture rigide. Nessuno parlava: c’era solo una grande attenzione a percorrere la via giusta nel minor tempo possibile.
L’allarme stava diventando nel frattempo assordante, come se fosse l’unica cosa che si dovesse tener presente: non aveva un origine precisa, era dappertutto. Le mascelle della gente si fecero serrate, i pugni stretti attorno agli spallacci degli zaini grigi.
Poi finalmente si arrivò al Punto di Raccolta, dove era stata programmata l’evacuazione dell’area UTM 9. Ma non c’era nessuno dell’Organizzazione, nessuna giacca con i colori di istituto e soprattutto non c’era alcun mezzo della Tutela Pubblica; avrebbero dovuto essere invece già lì a imbarcare, perché il tempo era essenziale, l’avevano spiegato tante volte.
Scoppiò il panico, nessuno sapeva più che fare.
C’è chi aveva deciso di tornare a casa, chi nella confusione si era messo a cercare l’amico o il parente gridando e spingendo chiunque avesse vicino; c’è chi diceva di aspettare: dopotutto non potevano essere troppo lontani non essendo possibile credere che non avessero mantenuto la consegna.
Il cielo era blu, screziato di viola: avrebbe dovuto essere l’alba da un’ora abbondante e invece vi era solo oscurità incombente, a stento vinta dalle fredde luci di emergenza che contribuivano a creare quell’atmosfera di desolazione. Cominciava ora a scendere anche una leggera pioggia acida.
Lui fermò una donna che indossava una divisa che non riconobbe. Le chiese cosa stava accadendo e perché il piano di sfollamento non avesse funzionato nonostante le rassicurazioni. La donna parlava in modo strano, come se la sua voce non fosse in sincronia con il movimento delle labbra. Così, in quel frastuono montante, lui capì appena qualche parola: ‘tardi’, ‘imprevisto’ e forse ‘scappate’.
D’un tratto un rumore oscillante scosse violentemente l’aria. Lui e molti altri caddero per terra. Una luce violenta squarciò la notte.

«Carlo, Carlo!» gli disse la moglie scuotendogli il braccio sotto le coperte. «Svegliati o farai tardi al lavoro! E, per carità,… spegni quella sveglia per favore che fa un chiasso d’inferno!»
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hat_gy

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Voci dal sonno

rodin«Come mai quella faccia lì stamattina?»
Gabo alzò lo sguardo verso di lei strizzando gli occhi per poterla mettere meglio a fuoco. Dondolò quindi un po’ il capo come se avesse già risposto e dimostrasse soddisfazione per quanto appena detto. Poi lentamente biascicò:
«Niente, niente…» e scansò la tazza del cappuccino davanti a sé per non urtarla con il gomito.
«Come niente? Con quel broncio?» insistette lei girandosi tra le dita il bicchiere del latte.
La luce del primo sole filtrava tra i rami di frassino disegnando attorno al capo di lei un’aureola di innocenza che contrastava con il tono inquisitorio. Il marito sbuffò appena e, scelto dalla scatola un biscotto ricco di inserti di cioccolato, cominciò a sgranocchiarlo. Si vedeva che stava riordinando le parole scegliendo bene quali di esse fosse il soggetto, il verbo e il complemento. Deglutendo, chiarì con fatica:
«Ti sei messa a parlare nel sonno.»
«Chi? Io?» fece lei rimanendo a bocca aperta quasi le fosse stata sollevata un’accusa infamante.
«Non penso ci sia un’altra donna nel mio letto…» fece lui con uno sguardo indecifrabile.
«Ma non l’ho mai fatto…»
«Appunto… Ma sono cose che succedono; mi ci abituerò, dai… non volevo neppure parlartene… è una stupidaggine.»
E invece Marilisa voleva parlarne. Anzi voleva venirne a capo. Aveva letto da qualche parte su Internet che poteva essere il segnale di un disturbo del sonno, di un principio di apnea notturna con tutto quello che ne conseguiva: e a venticinque anni poteva anche diventare, a lungo andare, un problema. Decise così per qualche tempo di dormire nella stanza degli ospiti. Gabo si era opposto; ripeteva che presto non ci avrebbe fatto nemmeno più caso, ma lei non sentì ragione. Il problema era suo e poi lui stava attraversando un periodo stressante sul lavoro e l’essere svegliato più volte durante la notte lo avrebbe reso inevitabilmente nervoso.
È solo fino a quando non risolvo questa questione’ sentenziò lei chiudendo rumorosamente la porta dietro di sé, mettendo fine alla discussione.
Marilisa cercò ulteriori informazioni su Internet e trovò un’app che registrava tramite il cellulare la voce durante il sonno. Era quello che faceva al caso suo. Avrebbe potuto così capire quanto grave potesse essere il suo disturbo.
La sera stessa, scaricata l’applicazione, la predispose sull’ON. La registrazione sarebbe partita, come informavano diligentemente le istruzioni, solo alla presenza di un suono.
L’indomani, al risveglio, si accorse che il cellulare aveva registrato ben cinque minuti di dialogo. Le batteva forte il cuore. Chissà perché, era emozionata. Si rigirò per qualche attimo il cellulare tra le mani, indecisa. Poi premette play. Per qualche secondo si sentirono fruscii e schiocchi, un colpo di tosse, persino un rumore come di un colpo di vento. Quindi un sussurrato, ma distinto:
«Bambina mia, dormi bene, la tua mamma veglia sempre su di te…»

hat_gy
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Sussurri

comignoloSi risvegliò all’improvviso da uno dei suoi soliti incubi che da qualche tempo lo affliggevano. Eppure quel periodo era più calmo di altri e l’imminenza delle ferie, senza grosse grane sul lavoro, avrebbe dovuto renderlo tranquillo. Eppure non era così.
Ci mise come al solito qualche secondo per capire che ciò che gli stava agitando il cervello era solo il parto della sua fantasia. No, non si era dimenticato di quella tal scadenza o di inoltrare quella tal pratica. Non si era verificata nessuna dimenticanza disastrosa, né avrebbero scoperto quella cosa terribile che aveva fatto di cui però non ricordava nulla. Era tutto a posto. Sospirò.
Si adagiò nuovamente sulle lenzuola appallottolate e bollenti: dalla finestra aperta non entrava un fiato d’aria. Cercò di fare il vuoto nella mente per prepararsi a un’altra ondata di sonno, ma quello fu anche il momento in cui, come una lusinga dimenticata, sentì provenire dall’altra stanza il vocio di due persone che sussurravano tra loro come per non farsi sentire. Con chi aveva da parlare a quell’ora del mattino sua moglie? Girò il cuscino alla ricerca di un lato fresco trascurato, cercando di ricordarsi dove avesse messo i tappi per le orecchie. Poi spalancò gli occhi. Non era a casa sua, in città, ma in quella di campagna: ed era solo. O almeno avrebbero dovuto esserlo.
Scese lentamente dal letto infilando le ciabatte di panno e se ne stette per un po’ in corridoio, gli occhi chiusi, orientando le orecchie di lato per capire da dove provenissero quei suoni. Tutto taceva. Ma sì, forse quel rumore proveniva da fuori. Si convinse. Stava per rientrare nella sua camera da letto quando lo risentì. Macché, veniva dalla cucina! Portò con sé, chissà per quale motivo, il cuscino che gli era rimasto in mano. Forse pensava che avrebbe potuto prendere a cuscinate l’ignoto ladro o ripararsi da lui mentre veniva colpito ripetutamente da un coltellaccio. È strano quel che passa a volte per la mente nel dormiveglia. Ma sta di fatto che procedette deciso brandendolo come un’arma.
Giunto in cucina, nel chiarore della luna che chiazzava di bianco la stanza deserta, rimase immobile come se si fosse rappreso nella scagliola; non respirò neppure. Il ticchettio dell’orologio a muro rifaceva in modo assordante il verso del suo cuore. Trascorsero così altri cinque minuti fino a quando risentì quelle voci bisbiglianti. Si guardò attorno. Da dove provenivano? Seguì con attenzione la fonte del suono e non ebbe più dubbi: fuoriusciva come un gas dalla cucina economica, più esattamente dallo sportellino aperto del vano per la legna. Questo non poteva che significare che c’era qualcuno sul tetto, accanto al comignolo. Mollò finalmente il cuscino per terra e salì al piano superiore, in terrazza. Il comignolo si trovava aggrappato alla falda ovest del tetto e il muro di contenimento del terrazzo lo nascondeva del tutto. Prelevò una sedia dalla sala, senza far rumore, e la sistemò nel punto giusto. Vi salì lentamente sporgendosi appena oltre la linea del muro. Due figure diafane dall’incerta consistenza stavano parlottando di schiena accanto all’imboccatura del comignolo. Una gesticolava vistosamente mentre l’altra l’ascoltava con attenzione. Non poteva credere ai propri occhi. Si posizionò meglio, ma spostando il peso dall’una all’altra gamba la ciabatta gli sgusciò di sotto facendo traballare la sedia. Ne uscì un rumore sordo anche se attutito. Imprecò. Poi alzò di nuovo lo sguardo verso il tetto e davanti a lui vide che c’era solo una luna finta tanto gli era vicina; oltre a un mare di tegole che avevano preso a brillare per la rugiada del mattino.
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dietro il racconto
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hat_gy
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Routine

routineA una certa ora, sempre la stessa, qualunque cosa stesse facendo, la interrompeva e iniziava il ‘suo’ rito per prepararsi per la notte. Andava in bagno, prendeva il libro da leggere, saliva in soppalco, dove aveva ricavato una suggestiva e comoda stanzetta, e chiudeva la porta: poi raggiungeva nel buio la lampada del comodino e la accendeva mettendosi a letto.
Tutto avveniva pressoché sempre allo stesso modo, lentamente, in automatico, come scandito da un orologio interiore. Un privilegio acquisito con l’età, ma anche un modo per entrare in sintonia con il sonno che di lì a poco lo avrebbe traghettato sino allo soglie del mattino. E così fece anche quella sera.
Spense il televisore, si alzò dalla poltrona, andò in bagno, salì gli scalini di legno, che scricchiolavano lievemente in modo diverso l’uno dall’altro, ed entrò in camera; chiuse quindi al buio la porta e andò alla lampada del comodino. Ma non si accese.
Aveva previsto che un’eventualità simile potesse accadere, prima o poi, tant’è che aveva comprato una lampadina di riserva e l’aveva riposta nello stipetto del comodino. Si chinò, aprì l’anta e, anche se non vedeva nulla, afferrò la lampadina dove sapeva sarebbe stata e sostituì quella fulminata. Ma non si accese.
Controllò la spina: era inserita nella presa. Il problema è più serio, si disse facendo una smorfia. Odiava quei fastidiosi contrattempi. Che fare, adesso?
Fu tentato di mettersi a letto senza leggere, ma poi pensò che questo lo avrebbe messo di pessimo umore e decise di andare a cercare una torcia per accertarsi cosa fosse accaduto. Tornò alla porta. La maniglia non c’era più.
Tastò a lungo i pannelli individuando solo la toppa della serratura: la maniglia di sicuro non era lì. Com’era possibile? Si piegò per cercarla per terra anche se non l’aveva sentita cadere. Il buio era totale e la sensazione di disorientamento improvvisa si era fatta soffocante. E udì un bisbiglio.
Dapprima era debole, un fruscio di seta o uno stormire di frasche e, poi, sempre più forte, come se il lucernario si fosse spalancato e un pipistrello sgomento fosse entrato sbattendo di qua e di là contro i muri della stanza. No, no. Non era quel tipo di rumore. Piuttosto… ecco, sì… era qualcuno che lo chiamava: ora ne era certo; era proprio il suo nome e la voce veniva da lontano anche se, allo stesso tempo, gli pareva scaturisse come un rivolo da un punto preciso dentro la sua testa. Gli si ghiacciò il sangue. Il suono smise.
Provò a rialzarsi rimanendo per un po’ in ascolto, levando davanti a sé il dito indice come per ricordare da che punto della camera provenissero quelle parole. L’aria era divenuta nel frattempo rarefatta e un gusto amaro gli pervase la bocca mentre la gola si contrasse quasi avesse respirato aria acida.
Poi, dal buio appiccicoso e compatto, una mano gelida lo afferrò sulla schiena tirandolo a sé per la maglia della notte e un’altra l’agguantò per i capelli tirandoli con violenza. Erano due mani ossute, fredde, dotate di una forza spaventosa. Le sentì chiudersi di scatto sul suo corpo fragile come una morsa senza ritorno. Cercò di aggrapparsi al termosifone, perché a quella ‘cosa’, capì, non avrebbe potuto opporsi. Urlò senza poterne avvertire le vibrazioni; al loro posto, di nuovo, quella voce sommessa, ronzante, un nastro mandato all’incontrario: qualcuno che si stava nutrendo dell’oscurità e della sua paura lo voleva a sé chiamandolo in modo sommesso ma deciso; lo chiamava, ripetutamente, come per ricordargli chi era. Cominciò a sentirsi masticare anche se non provò alcun dolore. Quindi venne a poco a poco letteralmente inghiottito dal nulla come se un mostro avesse spalancato le fauci sotto di lui. E sparì, trascinato via, appena pochi secondi dopo.

Takiezam

Si sentiva dondolare quasi dovesse perdere l’equilibrio da un momento all’altro. Anche se non si era addormentato, aprì gli occhi per lo spavento: erano gonfi, pesanti, cisposi. Non era disteso sul letto, ma in piedi. Riconobbe la sua stanza anche se era ampissima: il comodino era lontano, così come la sveglia e la lampada, l’armadio quasi non si vedeva più, per non parlare della sedia che era solo un puntino davanti a lui. I due cuscini stropicciati e bagnati di sudore si trovavano invece seminascosti tra le lenzuola. Era vestito di un vestito che non era il suo. Perché lo aveva indosso? Per quanto si sforzasse di ricordare non c’era stato motivo perché fosse dovuto andare a letto senza spogliarsi. E poi chi gli aveva dato quei pantaloni strappati, gli anfibi sporchi di fango? Non si sentiva bene, proprio no. Il vuoto nella testa dilagava come un’onda al resto del corpo e la sensazione era quella di aver perduto altre due braccia per essergli state amputate. La memoria era una voragine e ingoiava insaziabile pezzi acuminati della sua vita. Si agitò. In tasca una scatola di ‘Takiezam’: insonnia, vomito, nausea, astenia e, 1 su 10.000 casi, allucinazioni. Così c’era scritto sul foglietto. Qualsiasi cosa curasse, doveva smettere di prenderle, vedeva cose che non c’erano. Accartocciò la scatola e la gettò. Il pavimento non c’era più e la scatola cadde di sotto senza far rumore: il letto galleggiava, non sapeva su cosa, ma galleggiava. Chiuse nuovamente gli occhi. Quando li riaprì doveva essere trascorso molto tempo perché si sentiva meglio: gli effetti del medicinale erano passati, le allucinazioni svanite. Solo la sensazione del dondolio era ancora presente. Si guardò attorno: al posto della stanza c’era una giungla. Ora, a poco a poco, gli sembrava di ricordare. Sì, sì… lui era un militare, un militare in missione ed era stato catturato. Lo avevano messo… lo avevano messo lassù su, in piedi, su quel palo conficcato nella palude non so da quanti giorni. Ogni tanto qualche jacaré annusava il suo palo urtandolo e facendolo dondolare. Sì sì, ora ricordava tutto: aveva preso il Takiezam per non dormire e non cadere nell’acqua. E ora lo aveva gettato via.