Caracalla

spiaggia al tramonto«Non è possibile! Sarà la decima volta che passa questa mattina!» se ne uscì Ferrante sbattendo una mano sulla sabbia.
Un gozzo, a circa duecento metri dalla riva, navigando in parallelo rispetto la costa, sparava con un megafono sui bagnanti stesi al sole, uno slogan pubblicitario dietro l’altro.
«Sulle spiagge di questo litorale è così…» chiosò Dario che sembrava ipnotizzato dal luccichio del sole che ballava sulle onde quasi immobili del mare. «Figurati che allo stabilimento di Punta di Castello hanno incorporato nei pali di sostegno degli ombrelloni un diffusore acustico che trasmette messaggi pubblicitari ogni quarto d’ora in cambio di uno sconto sul lettino e l’abbronzante. E non c’è modo di spegnerlo né di attenuarne il suono, tipo legandovi attorno un asciugamano, perché aumenta automaticamente il volume. Un incubo.»
«Davvero? Oh madresanta!»
«La pubblicità è ovunque e onnipresente. Io la televisione non la guardo più per questo motivo. Anche la radio manda in onda dieci minuti di pubblicità ogni canzone…»
Il gozzo nel frattempo aveva appena oltrepassato il Molo delle Garrupe e si trovava ormai in vista della spiaggia accanto. Prima che avesse fatto di nuovo tutto il giro, i due amici si sarebbero potuti godere il suono della risacca, il garrire dei gabbiani e la musica lontana della rotonda. Se non fosse stato per due bambini che, poco distanti da loro, si stavano litigando un secchiello pieno di sabbia sarebbe stato un momento perfetto.
«Figurati che ho letto qualche giorno fa» riprese il discorso Dario «che una joint venture cino-americana ha intenzione di affittare un’area estesa della faccia visibile della Luna per installare una megastruttura fotovoltaica in modo da poter comporre lettere e frasi a contenuto pubblicitario visibili dallo spazio da ogni parte del globo, persino di notte.»
«Dici sul serio? È orribile questa cosa… La Luna no, ti prego…»
Dopo qualche attimo di silenzio, il gozzo della pubblicità, contro ogni previsione, rientrò proditoriamente dal Molo delle Garrupe riprendendo i claim pubblicitari proprio dallo stesso punto in cui si era interrotto. Ferrante balzò in piedi.
«Non ne posso più!» E dopo aver afferrato maschera e boccale annunciò: «caro Dario, mentre tu ti rosoli al sole come una rostinciana, vado a fare un po’ di snorkeling. Almeno con le orecchie piene d’acqua non lo sento… A più tardi!»

«Presto, presto… il suo amico si è sentito male…» fece un ragazzo tutto agitato avvicinandosi all’ombrellone. Dario si precipitò verso la battigia. Due uomini stavano trasportando Ferrante per le braccia e le gambe deponendolo sulla sabbia umida. Era privo di sensi.
«Cosa è successo? Cosa è successo?» ripeteva Dario senza ottenere risposta. «Per carità, portiamolo subito all’ombra e chiamate un’ambulanza» fece subito dopo.
Trascorsero minuti angosciosi. Il polso dell’amico era debole, ma presente. Gli occhi erano serrati come se stesse facendo un brutto sogno da cui voleva svegliarsi. Si lamentava dondolando leggermente la testa. Un rivo chiaro di schiuma punteggiata di bolle si faceva largo tra le labbra pallide e semiaperte.

L’ambulanza arrivò di lì a pochi minuti. Gli uomini erano tre: due più giovani che portavano la lettiga e l’altro dai capelli bianchi e una pancia prominente che dava disposizioni secche e precise. Mentre i due, con pochi gesti sicuri e professionali, caricavano Ferrante sul lettino, l’altro si rivolse ai presenti e, con voce stentorea, disse:

Preferite “Ambulanze Private Caracalla”,
interventi rapidi, interventi risolutivi.
Il soccorso amico della porta accanto.
Ricordate: “Ambulanze Private Caracalla” 
e la vostra Salute verrà a galla.

E lo portarono via.

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Lo spezzatino alle mille erbe

Paulo abbassò lentamente davanti a sé il quotidiano in lingua spagnola. Andava apposta a quel bar perché lo trovava già sul banco frigo, appena acquistato dal titolare. E, al mattino presto, nessuno lo aveva ancora letto.
«Adesso ho capito chi ha cucinato il piatto speciale del giorno, martedì alla mensa…»
«Eh?» riemerse Kenny dal compulsare il suo cellulare grattandosi una guancia. Kenny aveva sempre le mani in faccia. Per aggiustarsi gli occhiali, toccarsi il naso, stropicciarsi una palpebra. Paulo non ricordava di una foto che ritraesse Kenny senza che il viso fosse parzialmente coperto da una sua mano. ‘È proprio strano’ pensò in quel momento.
«Ti stavo dicendo che ho appena capito chi ha cucinato martedì a pranzo quel piatto che ti è piaciuto tanto…»
«Lo spezzatino alle mille erbe?» fece Kenny poggiando il telefonino sul tavolo accanto alla tazza del caffè.
«Proprio quello.»
«Mai mangiato niente di simile. Peccato che non l’hai voluto assaggiare…»
«Sono vegano, lo sai…»
«Sì, lo so, ma davanti a una cosa simile, potresti anche ravvederti…»
Paulo lo guardò male. Ma poi gli sorrise. Era Kenny “maninfaccia”. Lui era così: quello che pensava diceva, senza filtri, come i bambini.
«Pensa che sono andato dalla mia amica in cucina, Mina» raccontò Kenny con un’espressione estasiata «e mi sono fatto dare dello spezzatino pure un doggy-bag per mia moglie così magari capiva come si faceva e me lo rifaceva…»
«Ed è piaciuto anche a lei, mi pare di capire…»
«Altroché, anche il bambino più piccolo se l’è mangiato tutto, sai? Che ancora non ha neppure tutti i denti.»
Paulo aveva ripreso a leggere il giornale, sfogliando con calma le parti interne.
«E allora chi l’ha preparato?»
«Cosa?» chiese Paulo con aria sorniona.
«Lo spezzatino alle mille erbe, no?» rispose Kenny con aria un po’ scocciata mettendosi l’indice in un orecchio.
«Ah, quello… È stato Angela!»
«Angela?»
«Angela!»
«Ma chi, quella moretta, scura di carnagione, con gli occhi sempre bassi e che non sai mai quello che pensa?»
«Proprio lei…»
«Ma non dà mai confidenza a nessuno…»
«E questo cosa c’entra con la ricetta dello spezzatino alle mille erbe?» obbiettò Paulo bevendosi un altro sorso del suo frullato.
«Sì, hai ragione, c’entra poco… però c’entra con il fatto che tu sia venuto a sapere che lo ha preparato lei.»
«Se è per questo è scritto sul giornale!»
«Addirittura? Le hanno dato un premio?»
«Non proprio. Le daranno qualcos’altro.»
«E cioè?»
«Forse l’ergastolo.»
«Non capisco.»
«Qui dice che dopo sette anni di convivenza il fidanzato l’ha mollata all’improvviso per un’altra…»
«E allora?»
«E allora lei non ci ha pensato due volte: l’ha accoltellato.»
«…»
«Si è liberata di alcune parti del corpo e con il resto ci ha fatto lo spezzatino. Alle mille erbe. Hanno trovato un dente del fidanzato nel frullatore…»

L’abbraccio fatale

Il paracadutismo non aveva più segreti per lui. Era diventato un vero maestro in quel settore, tanto da tenere un corso di lancio estremo da quote basse e con attrezzature sempre più leggere.
Poi a Mark venne in mente una variante originale e mai provata fino a quel momento: l’aveva battezzata “abbraccio fatale” e sarebbe consistita nel lanciarsi insieme al suo amico Fred; ma mentre lui si sarebbe buttato senza paracadute, Fred, lanciandosi subito dopo, l’avrebbe raggiunto e glielo avrebbe consegnato in caduta libera.
“Geniale”, pensò Mark.
“È da pazzi”, gli disse subito Fred che non ne voleva sapere.
Mark sapeva però come convincere l’amico; non ci mise infatti molto a rassicurarlo dicendogli che non avrebbero tentato dal vero la nuova figura prima di averla provata infinite volte nel simulatore di caduta. E così fu, fino a quando almeno non riuscirono effettivamente a ritrovarsi a occhi chiusi e Mark non fu capace di indossare il paracadute con facilità. Anzi, per l’occasione Mark ne aveva progettato uno di nuova concezione in modo che si potesse indossare senza sforzo e nel minor tempo possibile.
Poi venne il giorno della prova dal vivo.
Il lancio andò benissimo. L’emozione era molto forte, ma a parte una leggera incertezza di Fred al momento di consegnare all’amico il paracadute, il passaggio materiale avvenne circa 300 metri di altitudine prima di quanto concordato. L’abbraccio era perfettamente riuscito tanto che atterrarono pressoché insieme.
Da quel giorno ripeterono la figura tante altre volte ancora facendola diventare una routine. Si scambiarono spesso di ruolo in modo da provare la reciproca ebbrezza di chi portava il paracadute e di chi lo riceveva.
Dopo qualche mese, decisero di alzare la posta, lanciandosi da due Piper diversi. La sincronia avrebbe dovuto essere maggiore, così come la concentrazione: il tasso di adrenalina sarebbe risalito.

“Ci vediamo il primo marzo alla solita ora?” scrisse nel messaggio Mark, dopo qualche mese di lanci eseguiti con successo.
“Sì certo, contaci” gli rispose Fred. “Arriverò però con il mio Piper dall’aeroporto di Collefili. Alle 9.00 esatte sarò il tuo angelo salvatore.”

Mark si preparò con la cura di sempre. Si sentiva particolarmente bene quel giorno e in pace con se stesso. La giornata era radiosa e la visibilità perfetta. Alle ore 8.55 spalancò il portellone di lancio sopra a un paesaggio nitido e lussureggiante. Vide in quell’istante il Piper di Fred che arrivava da sud, in orario, come previsto. Le ali dell’aereo luccicavano alla luce del mattino come per un saluto. Gli sorrise per ringraziarlo. Alle ore 9.00 Mark si lanciò proprio mentre l’aereo di Fred era sopra di lui.
Ma capì subito che qualcosa non andava perché il Piper di Fred era troppo veloce. No, non era il suo amico, come realizzò pochi istanti dopo: era un altro aereo, probabilmente da turismo.
Mark, cercò di rallentare la velocità di caduta aprendosi a X e offrendo all’aria il massimo di resistenza. Doveva capire. La lancetta dell’altimetro al polso girava vorticosamente. Aveva ancora pochi secondi. Ma cosa era successo? Poi l’occhio gli cadde sul datario dell’orologio. Era il 29 febbraio, non il primo marzo. Quell’anno era bisestile. Come poteva averlo dimenticato? Il primo marzo sarebbe stato l’indomani.
Chiuse gli occhi e scosse la testa.
La mano volò alla maniglia del piccolo paracadute ventrale di nuova progettazione che un giorno o l’altro si era ripromesso di testare anche se con la sicurezza del paracadute principale. Quel giorno, dopo tutto, era arrivato. Le cascine d’intorno e la torre di controllo diventavano sempre più grandi mentre l’asfalto dell’aeroporto sempre più vicino. Era il momento di sapere se aveva fatto un buon lavoro e se le cinghie avrebbero retto l’eccessiva velocità di caduta.
Tirò con forza e il paracadute nella sacca vibrò violentemente come se avesse voluto solo esplodere; poi fece un rumore come di un urlo liberatorio. E si aprì.

Purdey

purdeyCi trovavamo su quel fiume da un paio d’ore. Il sole era basso tra le mangrovie insonnolite e il manto degli ibis scarlatti risaltava ancora di più in mezzo ai colori spenti della palude. Era la prima volta che io e Chase ci trovavamo in quel braccio d’acqua non indicato dalle mappe ufficiali, ma le indicazioni di caccia erano state ottime e le aspettative erano davvero alte.
Per non spaventare la fauna procedevamo con il motore del fuoribordo al minimo. Fu quello il momento in cui sentimmo ondeggiare per la prima volta la barca.
«Deve essere un lamantino» mi disse Chase sorridendo e scrutando l’acqua melmosa. «Ce ne sono di enormi qui». E prima che io potessi dire qualcosa prendemmo una seconda gran botta a prua. L’urto fu così inaspettato e potente che Chase perse l’equilibrio tanto da finire con le mani nell’acqua perdendo il cappello. Ebbi la prontezza di riflessi di afferrarlo per il giubbotto, ma per il contraccolpo scivolai anch’io lungo l’altra fiancata della barca, ritrovandomi nel fiume. L’acqua era marrone, sapeva di marcio ed era sorprendentemente calda. Chase mi aiutò a tirarmi a bordo. Ero già pressoché all’interno dello scafo quando mi sentii agguantare con una violenza inaudita. Un coccodrillo di cinque o sei metri era sbucato dall’acqua inarcando il dorso e afferrandomi il piede sinistro. L’avevo sentito ruggire e ansimare per lo sforzo di lanciarsi contro di me e poco prima che mi mordesse sentii distintamente il rumore meccanico delle sue mascelle. Mi strappò dalla barca con una forza assoluta, trascinandomi nel profondo del fiume come un bambolotto di pezza. Era successo tutto in pochi attimi: mi stavo godendo il respiro magico della foresta pluviale e subito dopo lottavo per la vita trattenendo il respiro e cercando inconsciamente qualcosa cui aggrapparmi nell’acqua scura. I polmoni presero ben presto a bruciarmi nel petto e il bisogno di ossigeno era diventata l’unica ossessione di quel momento. Non sentivo male, non mi curavo del coccodrillo: volevo solo respirare.
Dopo avermi portato fino a quella che doveva essere la sua tana, la bestia prese a ruzzolarmi sul fondo; mi teneva schiacciato con il suo muso nel fango rigirandomi con le possenti zampe: sapeva che ero vivo e voleva affogarmi. In una di queste giravolte devo aver battuto la testa da qualche parte perché ho perso i sensi e quando mi sono risvegliato per il dolore al braccio già mi trovavo incastrato sotto delle radici di una grossa mangrovia. Vicino a me c’erano i resti di una scimmia e di un altro animale con le setole, difficile dire quale. Certo è che mi trovavo nella dispensa del coccodrillo, messo lì a frollare per un po’. Avevo, per fortuna, il viso schiacciato a pelo dell’acqua e respiravo tra le radici, anche se a tratti, e solo quando l’onda non mi passava sulla faccia. La gamba che mi era stata masticata non la sentivo più e il braccio destro doveva essersi rotto malamente perché usciva storto, in modo innaturale, dalla manica del gilet. Avevo sete, avevo paura e mi sentivo mancare per il dolore.
Dopo qualche tempo volli controllare le condizioni del piede. Feci diversi tentativi di immersione nonostante i dolori lancinanti e poi finalmente nell’acqua opaca lo intravidi. La scarpa, con il piede dentro, era attaccata alla gamba per un moncone. Dovevo fare qualcosa. Perdere sangue così, nell’acqua, oltre a dissanguarmi, poteva solo attirare altri predatori. Non sapevo che fare. Cercai di raggiungere il piede con l’altra mano ma inutilmente: non riuscivo a muovermi. C’erano dei rami sott’acqua che mi tenevano bloccato a contrasto con le radici dell’albero e uno, in particolare, molto appuntito, mi premeva sulle reni.
Poi, nell’ultima immersione, d’un tratto, dal centro del fiume vidi comparire prima gli occhi gialli e inespressivi del coccodrillo e poi il suo enorme muso a triangolo. Era venuto a vedere se c’ero ancora e se tutto funzionasse per il meglio. Mi ispezionò per bene. Socchiusi le palpebre come per fagli intendere che non potevo scappare. Arrivato all’altezza del piede che gli ciondolava sul muso come un’esca me lo staccò di netto. Sono svenuto un’altra volta.
È solo per la pioggia calda e battente sul viso che mi sono svegliato di nuovo, ma era già notte. Aveva preso a scrosciare forte come succede a quella latitudine. E ben presto quell’ansa del fiume si ingrossò rapidamente tanto che la corrente creò un mulinello sotto la mangrovia svuotando la dispensa. Mi ritrovai ancora una volta nel fiume, in sua balia; solo che adesso ero immerso nell’oscurità totale di una natura selvaggia, le gambe avanti, il corpo inerte dietro; galleggiai per un tempo infinito, le stelle luminose sopra di me, fino a quando non impattai qualcosa; alle prime luci dell’alba capii che era il tronco di un albero caduto di traverso. Poteva essere la mia salvezza ma non riuscivo a muovermi. Ero sfinito, debole, probabilmente avevo la febbre alta. L’acqua tiepida attorno a me non riusciva ad alleviare i brividi di freddo che scuotevano violentemente il mio corpo. Cercavo di non urlare, per evitare che l’acqua sporca del fiume mi entrasse in bocca. Staccai un rametto e presi a morderlo disperato.
Dopo qualche ora mi sentii afferrare per il colletto della camicia. Non era evidentemente ancora finita. Era un lupo. Mi trascinò lentamente standosene sul tronco e sfruttando il fatto che nell’acqua pesassi poco. Giunto sull’arenile, ne arrivò un secondo e poi un terzo che mi presero per il braccio rotto e mi tirarono su fin dove era asciutto. Urlai per il male ma questo li spaventò solo per qualche secondo perché tornarono subito dopo per continuare a mangiarmi anche se erano sospettosi non capendo che tipo di animale io potessi essere. Ero una facile preda, però, inerme, e dunque un ottimo pasto; e non si butta mai via niente nella palude.
Pregai solo che finisse tutto presto. Che cominciassero dalla gola e che perdessi subito i sensi.
Dall’alto della golena ho sentito invece esplodere alcuni colpi di fucile.
Era il Purdey di Chase. Avrei riconosciuto la voce del suo fucile, tra mille. Del resto glielo avevo regalato io.
I lupi fuggirono, controvoglia, più per prudenza che per paura. Io chiusi gli occhi.
Sentii Chase scendere dalla ripa, molto lentamente. Non aveva fretta. Era sicuro che fossi già morto.

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Il testimone

66866_496917383702296_338955915_n 2I due uomini camminavano per la città parlottando rilassati, uno accanto all’altro. Si capiva subito che erano amici. Uno dei due, quello con i pantaloni color mattone e la camicia beige un po’ troppo sbottonata sul davanti per l’età, ogni tanto si fermava a gesticolare: raccontava qualcosa di divertente, perché l’altro rideva, facendo ricadere all’indietro la testa a mostrare denti bianchissimi.
«Senti, non so come dirtelo» fece a un certo punto quello più giovane, con il berretto da baseball calzato con la visiera alla rovescia. «Credo che siamo seguiti.»
L’amico, si fermò per l’ennesima volta, proprio davanti a un semaforo spento e, aiutandosi con le mani, domandò:
«Ha per caso una t-shirt grigina con su scritto ‘Notre Dame’ e jeans sdruciti?»
«Uhmm, direi di sì» rispose il giovane voltandosi indietro e drizzando il collo.
«Allora è Mario» disse attraversando la strada. «Nessun problema: è il mio testimone.»
«Ti sposi?»
«Macché! È un testimone, un possibile testimone processuale. Da quando sono nel vostro Paese, era l’unico mondo per sentirmi veramente  tranquillo. Leggevo di continuo sui giornali ciò che accadeva qui: qualcuno per la via ti aggredisce per pochi centesimi e poi la fa franca perché nessuno mai vede niente… »
«E allora? Quel tizio ti guarda le spalle?»
«Ma no, mi so difendere benissimo da solo, come ben sai… Piuttosto, mi fa da testimone oculare, come ti ho detto. Dovesse accadermi qualcosa, e dovessi soccombere, lui potrà pur sempre raccontare cos’è successo, magari riuscendo a descrivere l’aggressore perché sia individuato, arrestato e punito, senza che un buon avvocato lo faccia assolvere per mancanze di prove. Almeno avrei quest’ultima soddisfazione. Mario, del resto, è un testimone perfetto: è incensurato, sveglio, ottimo osservatore, non è un mio parente e non lo pago, per cui agli occhi della legge è un teste disinteressato e, quindi, già di per sé, attendibile.»
«Come sarebbe a dire che non lo paghi?» chiese il giovane che si grattò i capelli attraverso il cappello.
«È un mio studente dell’università. Ha detto che su questa esperienza ci preparerà la tesi di laurea… insomma: lui è contento e io pure.»
«Lo sai che sei un po’ paranoico e piuttosto strano, vero?» disse il giovane ridendo. «Con tutto il rispetto parlando, ovviamente…»
L’uomo con i calzoni color mattone stava per replicare quando si sentì alle spalle uno stridio acuto di freni e una botta fortissima. I due si girarono.
«Hanno investito il tuo Mario!!!» urlò il giovane indicando un punto dietro di lui.
I due tornarono precipitosamente sui loro passi. Mario era disteso a terra, diversi metri più in là contro la vetrina di un negozio di scarpe: aveva una posa scomposta come fosse stato gettato lì dal vento. Perdeva copiosamente sangue dalla testa e un rivolo di materia densa e scura gli scivolava via lento dalla nuca. Attorno a lui si era già formato un capannello di persone.
«Mario! Mario!» esclamò il professore con una voce di cui non riusciva a modulare i toni. «Ma che è successo?»
«Sembra che una moto sia sbucata dal nulla e l’abbia investito in pieno proprio mentre scendeva dal marciapiede» disse un uomo impassibile, accanto a lui, guardando la via in un punto indefinibile. «Il semaforo non funziona già da qualche giorno.»
«Qualcuno ha preso il numero di targa, ha visto chi è stato?» fece il giovane agitatissimo.
«No, pare proprio di no. Non ci sono testimoni» si sentì dire.