È stato di recente accertato da un gruppo internazionale di ricercatori (si tratta di Gunter Kreutz dell’Università di Oldenburg, di Emery Schubert dell’Università New South Wales di Sidney e di Laura Mitchell della Caledonian University di Glasgow) che i musicisti professionisti, quando ascoltano (o pensano) la musica lo fanno in modo strutturato e sistematico rispetto al semplice ascoltatore.
È facile pertanto che accada, quando si mettono ad ascoltare un brano musicale, che prestino maggior attenzione alla esecuzione dei singoli strumenti musicali e alle componenti vocali piuttosto che all’insieme concertistico, mentre i non professionisti si affidano alla cosiddetta “tematica emotiva” (fonte: Psicologia Contemporanea, 2010, 220, pag. 52) facendosi trasportare cioè dal risultato complessivo.
Qualcosa di simile accade, a mio avviso, allo scrittore: è creativo nel momento dell’ideazione, ma diviene (o dovrebbe diventare) un tecnico manipolatore della propria idea nella fase intermedia della trasposizione del ‘nero su bianco’, per poi calarsi nelle vesti, quando avrà portato a termine il lavoro, del mero correttore di bozze (che, mantenendo il parallelismo con l’ambiente musicale, dovrebbe corrispondere al direttore di orchestra, il soggetto cioè che, in quanto ‘terzo’ rispetto al compositore e al musicista, verifica e controlla la correttezza formale della composizione).
In realtà le tre fasi appena indicate, nella scrittura in senso lato, non sono a compartimenti stagni come può esserlo forse per la musica. Si continua a creare narrativa infatti anche molto tempo dopo che si è avuto la buona idea iniziale e si comincia a correggere molto prima che il lavoro sia completamente finito o anche solo abbozzato.
Si persevera in altre parole a ‘inventare’ di getto anche quando la trama è o dovrebbe essere ‘ferma’ nella propria mente per essere oramai delineata nei suoi parametri di massima. Lo scrittore è infatti sempre pronto a sacrificare quanto già scritto sostituendolo con altro (anche se gli è costato fatica e impegno farlo) se la variazione lo convince di più e funziona meglio.
E si comincia poi a correggere lo scritto anche quando si è ancora distanti dalla parola fine e non si sa peraltro con esattezza dove il lavoro creativo finirà per portarci oppure allorché ci si trova nella necessità di rendere ‘presentabile’ il testo in vista di una supervisione intermedia da parte dell’editore.
Le fasi di scrittura dunque si mischiano, si fondono, si sovrappongono, si rincorrono senza sosta. Questo non significa però che tali ‘step’ non siano individuabili e distinguibili tra loro; anzi, nella loro valutazione di insieme, può sicuramente affermarsi che, a ben vedere, essi esprimono una traiettoria definita, delineando una sorta di oggettivazione sempre più pronunciata a partire da un momento iniziale (la creazione delle spunto narrativo) che invece è molto intimo e dunque squisitamente soggettivo.
L’intimità della ideazione spiega d’altronde il perché da un lato sentiamo il prodotto narrativo come parte di noi, quasi fosse un nostro figlio e perché ci si riscopra così tanto suscettibili alle critiche altrui.
Quando si scrive, d’altronde, si pesca nel nostro profondo, in quello che ci piace pensare essere non il nostro cervello, ma la nostra anima, la nostra essenza, per cui ciò che scriviamo siamo ‘noi’, in una specie di transfert liberatorio, sicché una censura al nostro lavoro può diventare un affronto personale.
Ma una volta che il prodotto creativo si cristallizza su carta, almeno nella sua struttura di massima (di trama e di personaggi) l’apporto emotivo, passionale, sensibile, lascia (o dovrebbe lasciare) il posto all’affinamento formale dello scritto, scivolando lentamente il lavoro su un piano più alto, sempre più stilistico, formale, lontano dal nostro sé e dunque maggiormente oggettivo.
Per poi arrivare alla massima distanza dal momento iniziale che è quello della correzione che in tanto può essere efficace in quanto venga effettuata da un terzo estraneo o persino da noi stessi se saremmo in grado di estraniarci così tanto da dimenticarci del lavoro fin lì svolto.
La difficoltà dello scrivere è quindi anche quella di svolgere egregiamente questi ruoli così differenti fra loro.
Bisogna essere dei buoni compositori (se difatti il prodotto iniziale non è di buona qualità, non ci sarà manipolazione stilistica talmente ‘alta’ che tenga che possa far diventare un lavoro degno di nota) ma è necessario essere anche dei buoni esecutori di se stessi, dei tecnici del testo (valorizzando il buon spunto originario per non svilirlo con trame contorte e con uno stile opaco) ed è infine indispensabile essere dei validi direttori di orchestra, perché un prodotto ben pensato e ben scritto dal punto di vista organico, può essere completamente sminuito se infarcito di errori di sintassi od ortografia.
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IN CONCLUSIONE
Dunque, ricapitolando, di cosa si è parlato in questa pagina:
del parallelismo concettuale tra le discipline della musica e della scrittura, per poterne capire di più dell’una e dell’altra.
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E’ molto interessante questa similitudine che metti in evidenza attraverso le tue argomentazioni, tanto ben articolate quanto esposte in maniera appassionata e avvincente. Ho sempre pensato anch’io che scrittura e musica abbiano molto in comune. Oltre agli aspetti che hai preso in considerazione, a mio parere è fondamentale la comune ricerca nel perseguire e manifestare una certa armonia espressiva che possa essere immediatamente colta e goduta alla lettura o all’ascolto, una sorta di equilibrio, di simmetria, di rotondità che predispone ad accogliere le parole, per quanto riguarda lo scrivere, e la melodia, nel caso della musica. Trovo che il tuo blog sia una fonte inesauribile e variegata di spunti e di riflessioni per chi ama esprimersi attraverso le parole.
Quindi… a presto!