«Lei è nuovo…» osservò con un certo disappunto Olga mentre saliva a fatica sul predellino della corriera. «È vero che non abbiamo mai visto questo signore, Elvira cara?» fece all’indirizzo dell’amica e dando l’impressione di star per perdere l’equilibrio.
«Certo, Olga… non l’abbiamo mai visto, ma che t’importa, vai a sederti…»
«Come che m’importa, ma che diamine… proprio oggi che c’è da prendere la piccola Emy e che fine ha fatto Enea?» Quindi rivolgendosi direttamente all’autista e assumendo un’aria inquisitrice, come se l’uomo l’avesse nascosto imbavagliato nel vano portabagagli. «Dove ha messo Enea?»
«Ha dovuto raggiungere la madre al paese: sta molto male e così per un po’ lo sostituisco io» fece l’autista sistemandosi meglio il berretto sulla testa. «Io mi chiamo Gregorio» e si sforzò di sorridere.
Nel frattempo la pioggia aveva cominciato a sferzare sulla lamiera e sul parabrezza. Erano gocce grosse scagliate come sassi come a convincere il mezzo a non partire. Salirono poche altre persone: era l’ultima corsa della giornata, ma il tempo in peggioramento aveva lasciato a casa la maggior parte della gente.
Gregorio si accertò che in piazza non ci fosse più nessuno in attesa. Premette quindi un pulsante rosso davanti a sé e la porta a soffietto si chiuse con un cigolio e un sospiro. La corriera lentamente s’incamminò prendendo la strada verso il monte che subito si inerpicava tortuosa dopo la chiesetta. Se non ci fosse stata la pioggia, la corriera sarebbe stata già avvolta da una coperta densa di polvere.
Curva dopo curva, il mezzo arrancò lambendo ogni volta il ciglio della strada e il baratro; man mano che saliva le case del paese, animate di luci flebili, assomigliavano sempre più a quelle di un presepe.
«C’è da prendere la piccola Emy…» disse Olga dopo un po’ cercando di farsi sentire dall’autista. «Non è vero che c’è da prendere la piccola Emy, Elvira cara?» Ma Gregorio non pareva aver sentito affatto. Era concentrato a bucare con lo sguardo la pioggia fitta che scendeva a torrente davanti al vetro. Di fronte a lui solo righe bianche d’acqua a creare un velo quasi impenetrabile.
Olga non si diede per vinta. Cercando di tenersi in piedi all’interno di una corriera traballante, nonostante l’avanzata età, scivolò a scatti verso l’autista urlandogli pressoché nell’orecchio:
«C’è da prendere la piccola Emy…!»
«Chi?» fece Gregorio voltandosi per un istante.
«Attento!» gli gridò di nuovo Olga.
Gregorio la scorse all’ultimo momento. Era la sagoma di una bambina immobile in mezzo alla strada, incurante della pioggia battente. L’autista inchiodò finendo a pochi centimetri di distanza da lei.
«Oddio… c’è mancato poco» disse pallido guardando nel vuoto davanti a sé.
Nel mentre, la bambina aveva già raggiunto la porta aspettando che si aprisse.
«E apra, no? Cosa aspetta?» gli urlò ancora Olga dandogli una manata sulle spalle.
Gregorio, ubbidiente, azionò il pulsante: le gambe ancora gli tremavano per lo spavento. Una bambina di dieci/dodici anni trotterellò dentro senza dir nulla. Era grondante d’acqua.
«Ma che ci faceva lì fuori sotto la pioggia?» chiese quasi a se stesso Gregorio.
«È una storia lunga» rispose Olga tornando al suo posto. «Non è vero che è una storia lunga, Elvira cara…?»
La corriera ripartì a fatica come se avesse perso il suo entusiasmo. La pioggia del resto non accennava a voler diminuire di intensità.
«Cioè?» insistette l’autista volgendo di lato la testa per far giungere la voce dietro alle proprie spalle.
Olga fece spallucce. Passarono alcuni secondi e poi Elvira iniziò a raccontare:
«Oggi è il 6 ottobre e la piccola Emy va al camposanto per portare un mazzolino di fiori sulla tomba della sorellina…»
«Perché cosa è successo?» chiese incuriosito Gregorio.
Olga fece un gesto all’amica di tacere: l’autista non era della valle e non doveva sapere i fatti loro. Ma Elvira finse di non aver capito.
«Il 6 ottobre di tanti anni fa ebbe un incidente con la bicicletta e la sorellina è morta sul colpo» spiegò Elvira volenterosa.
«Beh.. mi spiace…» fece Gregorio sincero. E subito Elvira assunse all’indirizzo di Olga un’espressione come per dire ‘vedi che ho fatto bene a parlargli?’. Olga fece una smorfia di dissenso.
«Non capisco però perché non sia andata con i genitori. Andare tutta sola! E con questo tempo per giunta!» obiettò l’uomo.
«La madre non si muove più dal letto da anni. È entrata in un grave stato depressivo; il padre, quel disgraziato, se n’è andato invece via di casa quando il fatto è successo» finì di raccontare Elvira.
«Fermi qui, piuttosto…» sbuffò Olga in segno di insofferenza. «Quella è la casa della piccola Emy.»
Gregorio rallentò per poi fermarsi. Aprì la porta di uscita con il consueto rumore. La pioggia spazzava l’erba scura dei campi non riuscendo più a essere trattenuta. La bambina come era salita, così discese in silenzio gli scalini; la sua figura esile si confuse ben presto con le ombre della sera.
«Speriamo almeno che non si sia buscata un malanno!» disse tra sé e sé l’autista premuroso.
Le prime luci di Locomori uscirono all’improvviso dall’oscurità appena dopo la curva.
«Non si preoccupi…» disse Olga sgarbata. «Era Emy che guidava la bicicletta quel giorno. Sono morte insieme, le due sorelline. Ma Emy non si è più data pace.»
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La piccola Emy
Posted in racconti, racconti di Poggiobrusco, tagged blogtale, fantasma, Lughi, pioggia on 6 ottobre 2019| 23 Comments »
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L’intruso
Posted in racconti, racconti di Poggiobrusco, tagged fantasma, farmacia, Lughi, videosorveglianza on 22 agosto 2015| 36 Comments »
La farmacia La Guardia è la farmacia più antica di Lughi e forse dell’intera regione. Fu grazie alla lungimiranza di Raffaele La Guardia, da tutti conosciuto come il Dottore che, nel 1897, fu aperto nel centro del paese, dapprima un laboratorio di erbe e preparati galenici e, successivamente, scommettendo sullo sviluppo di quelle prime poche case nate attorno alla premiata fabbrica di laterizi De Rossi, una farmacia divenuta con il tempo prestigiosa, meta di costanti pellegrinaggi di chi cercava un qualche miracoloso preparato per un proprio acciacco o malanno. E dopo cinque generazioni, la vecchia farmacia, ricca di fascino e di tradizione, era ancora lì, in bella mostra di sé, sotto i Portici Maggiori.
«Le assicuro che con un impianto così, Lei può dormire sonni tranquilli» le disse il titolare della Security Best Network rimanendo per un momento con le mani immobili a mezz’aria in una posa ieratica e rapita. A parlare era il titolare della ditta, Federico Fedrigotti in persona, con tanto di pinguedine appoggiata al bancone in mogano e un residuo di capelli a crestina che gli incorniciavano la nuca.
«Non ne ho bisogno…» rispose quasi supplicando l’anziana proprietaria Ermelinda La Guardia, cercando nel contempo complicità nello sguardo dei commessi che invece si mostravano insolitamente indaffarati. «A essere sinceri, quei pochi poveri diavoli che mi rubano in negozio li conosco tutti» sbottò la donna aggiustandosi gli occhiali scuri sul naso «e lo fanno solo per bisogno, sicché non mi dà neppure fastidio…»
«Sono i guai ben peggiori che deve prevenire, Signora, mi permetta: c’è un mucchio di strana gente in giro, sa? E questo che Le propongo è un sistema affidabile e sicuro; è di ultima generazione, a raggi ultra infrarossi, non gli sfugge niente.» E abbassando la voce come se fosse un segreto: «del resto, Lei mi conosce da tanti anni e sa benissimo che non le darei mai una fregatura…» A questa frase Ermelinda fece un’espressione stralunata che stava a significare l’esatto contrario. «Dia allora retta a me» incalzò imperterrito il Fedrigotti che aveva preso a sfogliare così velocemente il catalogo dei prodotti da creare un vortice d’aria che cambiò la data del calendario da tavolo «piazzi un telecamera qua e una là e, anche in caso di rapina, potrà contare su una registrazione fedele e indispensabile per le indagini: le consentirà, insomma, di recuperare in un battibaleno il maltolto.»
Ed Ermelinda, alla fine, acconsentì all’installazione ma al solo scopo di togliersi dai piedi lo scocciatore accordandosi, tuttavia, che avrebbe pagato solo se la videosorveglianza si fosse rivelata davvero utile.
I lavori nel negozio andarono avanti per un bel po’ ma, a installazione avvenuta, la titolare se ne dimenticò in fretta. Fino quando una settimana dopo, il Fedrigotti fece ingresso nel negozio con un sorriso che gli distanziava ancor più le orecchie ai lati della testa.
«E allora?» gli chiese Ermelinda visto che quello non accennava a smettere di sorridere.
«Ce l’abbiamo in pugno. Glielo avevo detto che avrebbe funzionato!» fece l’uomo dando una manata su una vetrinetta di cristallo che scricchiolò sinistramente.
«Ce l’abbiamo in pugno, chi?» fece lei controllando il vetro.
«Il ladro, e chi altri? Chi la deruba, nottetempo…»
«Nessuno può entrare nel negozio una volta che è chiuso, suvvia, ma cosa dice?» fece seccata.
«Eppure guardi, è tutto qui su questo video…» e aprì in un attimo il portatile come se fosse un distintivo, ticchettando rapido sulla tastiera. Il video partì ubbidiente. Con il cursore Fedrigotti si posizionò sul minutaggio in cui si era verificato l’evento, così come lo aveva definito. E, in effetti, a minuti 3 e secondi 7, una figura magra entrava lentamente da sinistra a destra nel campo visivo della videocamera n. 2. Si avvicinava allo scaffale dei preparati per l’infanzia e tornava indietro con noncuranza.
«Ha visto? Non avevo forse ragione? Beccato!»
Seguì un silenzio imbarazzante.
«Ma perché ride, scusi?» domandò offeso il Fedrigotti.
«Perché quello è il Dottore, Raffaele La Guardia, mio proavo. Dopo aver aperto e avviato questa farmacia ci ha lavorato per tutta la vita fino a quando, ottantenne, l’infarto non se l’è portato via tra queste stesse pareti. Da allora è rimasto sempre qui, tra questi vecchi scaffali, e ogni tanto ci dà pure una mano. Ma, le assicuro, non ruba proprio niente e a nessuno.»
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Routine
Posted in racconti, racconti di Poggiobrusco, suspense, tagged blogtale, fantasma, Lughi, morte, notte, solitudine, sonno, surreale, terrore on 15 novembre 2014| 38 Comments »
A una certa ora, sempre la stessa, qualunque cosa stesse facendo, la interrompeva e iniziava il ‘suo’ rito per prepararsi per la notte. Andava in bagno, prendeva il libro da leggere, saliva in soppalco, dove aveva ricavato una suggestiva e comoda stanzetta, e chiudeva la porta: poi raggiungeva nel buio la lampada del comodino e la accendeva mettendosi a letto.
Tutto avveniva pressoché sempre allo stesso modo, lentamente, in automatico, come scandito da un orologio interiore. Un privilegio acquisito con l’età, ma anche un modo per entrare in sintonia con il sonno che di lì a poco lo avrebbe traghettato sino allo soglie del mattino. E così fece anche quella sera.
Spense il televisore, si alzò dalla poltrona, andò in bagno, salì gli scalini di legno, che scricchiolavano lievemente in modo diverso l’uno dall’altro, ed entrò in camera; chiuse quindi al buio la porta e andò alla lampada del comodino. Ma non si accese.
Aveva previsto che un’eventualità simile potesse accadere, prima o poi, tant’è che aveva comprato una lampadina di riserva e l’aveva riposta nello stipetto del comodino. Si chinò, aprì l’anta e, anche se non vedeva nulla, afferrò la lampadina dove sapeva sarebbe stata e sostituì quella fulminata. Ma non si accese.
Controllò la spina: era inserita nella presa. Il problema è più serio, si disse facendo una smorfia. Odiava quei fastidiosi contrattempi. Che fare, adesso?
Fu tentato di mettersi a letto senza leggere, ma poi pensò che questo lo avrebbe messo di pessimo umore e decise di andare a cercare una torcia per accertarsi cosa fosse accaduto. Tornò alla porta. La maniglia non c’era più.
Tastò a lungo i pannelli individuando solo la toppa della serratura: la maniglia di sicuro non era lì. Com’era possibile? Si piegò per cercarla per terra anche se non l’aveva sentita cadere. Il buio era totale e la sensazione di disorientamento improvvisa si era fatta soffocante. E udì un bisbiglio.
Dapprima era debole, un fruscio di seta o uno stormire di frasche e, poi, sempre più forte, come se il lucernario si fosse spalancato e un pipistrello sgomento fosse entrato sbattendo di qua e di là contro i muri della stanza. No, no. Non era quel tipo di rumore. Piuttosto… ecco, sì… era qualcuno che lo chiamava: ora ne era certo; era proprio il suo nome e la voce veniva da lontano anche se, allo stesso tempo, gli pareva scaturisse come un rivolo da un punto preciso dentro la sua testa. Gli si ghiacciò il sangue. Il suono smise.
Provò a rialzarsi rimanendo per un po’ in ascolto, levando davanti a sé il dito indice come per ricordare da che punto della camera provenissero quelle parole. L’aria era divenuta nel frattempo rarefatta e un gusto amaro gli pervase la bocca mentre la gola si contrasse quasi avesse respirato aria acida.
Poi, dal buio appiccicoso e compatto, una mano gelida lo afferrò sulla schiena tirandolo a sé per la maglia della notte e un’altra l’agguantò per i capelli tirandoli con violenza. Erano due mani ossute, fredde, dotate di una forza spaventosa. Le sentì chiudersi di scatto sul suo corpo fragile come una morsa senza ritorno. Cercò di aggrapparsi al termosifone, perché a quella ‘cosa’, capì, non avrebbe potuto opporsi. Urlò senza poterne avvertire le vibrazioni; al loro posto, di nuovo, quella voce sommessa, ronzante, un nastro mandato all’incontrario: qualcuno che si stava nutrendo dell’oscurità e della sua paura lo voleva a sé chiamandolo in modo sommesso ma deciso; lo chiamava, ripetutamente, come per ricordargli chi era. Cominciò a sentirsi masticare anche se non provò alcun dolore. Quindi venne a poco a poco letteralmente inghiottito dal nulla come se un mostro avesse spalancato le fauci sotto di lui. E sparì, trascinato via, appena pochi secondi dopo.
Danza con me
Posted in leggende, racconti, racconti di Poggiobrusco, racconti storici, tagged blogtale, chiesa, fantasma, Lughi, prete on 6 dicembre 2013| 36 Comments »
Era già stato in quella città, ma questa volta l’impegno di lavoro gli aveva lasciato del tempo per gironzolare tra le chiassose vie del centro. Si approssimavano le vacanze di Natale e i negozi si erano vestiti di luci e di colori. Percorrendo la strada principale, Curzio vide a un certo punto, sulla destra, una chiesetta schiacciata in un vicolo come se le due case ai lati fossero cresciute durante la notte con l’intento di cacciarla via di lì. Dal portone aperto s’intravvedeva la luce morbida e calda di un cero acceso: decise di avvicinarsi. Sulla soglia, si accorse che la facciata di marmi rosa e verde smeraldo non rendeva giustizia alla struttura interna che era molto più ampia. La penombra era diffusa, intrisa di incenso, e interrotta qua e là da candele sparpagliate ai piedi dell’altare principale e di alcune statue di santi che facevano capolino dalle loro nicchie. Si genuflesse sull’inginocchiatoio d’un banco come se avesse obbedito a un ordine. Mormorò tra sé e sé qualcosa che sarebbe dovuta essere una preghiera quando da dietro l’altare maggiore sbucò all’improvviso, danzando in un fruscio, una giovane donna completamente nuda sotto un velo di organza che parzialmente la copriva. Ballava con grazia seguendo una musica che solo lei sentiva, volteggiando ora su un piede ora sull’altro a disegnare nell’aria gelida figure eteree ed eleganti. La penombra giocava con quel corpo sinuoso cancellandolo a tratti e a tratti valorizzandolo come in un bozzetto a carboncino. Aveva gli occhi socchiusi e un sorriso dolcissimo che le illuminava il naso piccolo e le labbra delicate. L’immagine era irreale come un sogno sfilacciato frutto dell’ebrezza: una nuvola di voluttà in un luogo consacrato. Stava danzando da qualche minuto quando entrò, proveniente dalla sacrestia, un prete che, con passo lento e cerimonioso, si diresse al tabernacolo da dove estrasse la pisside che riempì di ostie. ‘Adesso la vede’ pensò Curzio ‘Adesso la vede’. Ma la donna continuava a piroettare indisturbata alle sue spalle come fosse sola, cimentandosi in passi di danza sempre più arditi a mostrare con naturalezza le parti più segrete del suo corpo. Il prete, intanto, nel suo daffare, era passato vicino a Curzio e lui non resistette dal chiedergli:
«Ma quella chi è, padre?»,
«Come dice, scusi?» fece il prete assorto nei suoi pensieri.
«Quella donna, che balla…»
«Ah perché lei la vede?» fece aguzzando la vista e cercando di bucare il buio, ma guardando nel posto sbagliato. «Me lo dicono sovente le mie pie donne. A me, forse per ragioni superiori di ufficio, non mi è data l’opportunità di vederla…» e sorrise tra l’ironico e il compiaciuto. Poi, appoggiandosi con una mano al banco di Curzio si mise comodo e disse: «Credo sia la marchesa Matilde Simi De Castrovillari. Una nobildonna eccentrica, molto ricca, celebre in città per i suoi costumi, come dire…, disinvolti, e per il suo salotto letterario frequentato dal bel mondo del primo Ottocento. Poverina è morta di tisi che non aveva trent’anni, ma ha lasciato un ingente somma alla Curia perché fosse edificata questa chiesa a suffragio della sua anima. È stata sepolta, laggiù, sotto l’altare maggiore. Ma quando mezzo secolo fa aprirono la tomba la trovarono inaspettatamente vuota. Gli scienziati dissero che, siccome il terreno non avrebbe consentito la decomposizione del corpo, le avevano versato addosso, subito dopo il decesso, un potente acido per scioglierlo. Altri ancora, dicono invece che, non potendo rinunciare alla passione per la danza, lei ogni tanto se ne esce a farsi un balletto. Pensavo fosse solo una leggenda. Certo che se lei l’ha vista…»
Blu cobalto
Posted in racconti, racconti di Poggiobrusco, tagged Alvona, antiquariato, blogtale, fantasma on 11 ottobre 2013| 31 Comments »
La prima volta che si avvicinò a quella bancarella degli oggetti d’epoca, alla fiera dell’antiquariato di Alvona, la fotografia color seppia si trovava confusa insieme a delle stampe di castelli dell’Ottocento inglese. Raffigurava un signore di mezza età, molto distinto, preso di tre quarti, con giacca e panciotto eleganti e un fiore vistoso all’occhiello. Ciò che più attirava l’attenzione era però lo sguardo intenso, sornione e sprezzante, sotto un taglio di capelli aristocratico che cercava di coprire con eleganza un’avanzata stempiatura.
Il mese successivo, al medesimo banchetto, Emilio si avvicinò incuriosito da un oggetto di ferro, sbrecciato di ruggine, di cui era difficile comprenderne l’uso.
«È un antico strumento per tostare i cereali» gli rivelò il venditore che, dall’altra parte del banco, aveva alzato gli occhi da sopra il giornale. «Era per l’orzo, credo…» Poi, quasi fosse sfinito per aver pronunciato quelle poche parole, si rifugiò nuovamente nella lettura. Emilio annuì, pensando che un oggetto di quel genere avrebbe forse fatto bella mostra di sé sopra il caminetto. E stava per allontanarsi, quando ebbe la netta sensazione di essere osservato. Vicino a lui c’era solo una donna anziana che parlava dolcemente a una bambina che faceva i capricci, mentre il commerciante, nel suo fortino di oggetti appartenuti ad altre esistenze, pareva impagliato tanto era immobile. Poi vide di nuovo quella fotografia: era appoggiata di sbieco, contro un’edizione datata di Pinocchio: l’uomo effigiato, in quella sua posa sfrontata, sembrava interrogarlo. Emilio tirò a sé la foto e, questa volta, la girò. Una grafia svolazzante, vergata in inchiostro blu cobalto, riportava: ‘Olderico Magnani Scotti, 1909’.
Per tutto il mese successivo si scoprì più volte a ripensare a quella immagine brumosa chiedendosi cosa mai lo mettesse così a disagio. Quello sguardo severo lo ossessionava, come se gli stesse domandando qualcosa e lui avesse avuto la risposta.
Quando arrivò la prima domenica del mese, giorno di fiera, si diresse immediatamente alla bancarella delle stampe per cercare la foto. La voleva comprare. Si mise a rovistare tra gli oggetti esposti con una smania che catturò l’interesse del commerciante alle prese con il solito quotidiano sgualcito che dava l’impressione di essere sempre lo stesso.
«Posso aiutarla?» gli chiese a voce bassa sperando probabilmente di non essere sentito. Emilio gli descrisse la foto e il nome che aveva letto dietro.
«Non ho mai avuto una foto simile» concluse il venditore dopo averci pensato un po’. Emilio sentì crescere l’inquietudine come per un appuntamento importante mancato; era lì lì per dire qualcosa quando la scorse appena sotto un disegno a carboncino.
«Eccola!» esclamò trionfante.
«Mi faccia vedere… Uhmm… non l’ho mai vista prima, dove l’ha trovata?»
«Va bene, quanto vuole?» fece Emilio infastidito per quel discorso senza senso.
«Assolutamente nulla, la prenda pure, se crede. Non è mia» insistette.
Emilio la portò a casa, soddisfatto. Alla lampada alogena del suo studio la esaminò accuratamente con una lente di ingrandimento. Non era una foto professionale, era certo, ma nonostante ciò restava suggestiva e ben eseguita; non aveva sfondo e la luce viva, che non si capiva da dove spiovesse, era perfetta e assegnava profondità alla figura facendola emergere dal buio. L’uomo era in posa senza perdere tuttavia di spontaneità e gli occhi terribili sfidavano ancora infingardi il mondo intero a distanza di più di un secolo.
Emilio di lì a poco si addormentò.
Sognò una città tenebrosa senza contorni e colori. Pareva sempre sul punto di poterla riconoscere a ogni passo e a ogni angolo che svoltasse, ma poi non riusciva a metterla a fuoco. Forse si trattava di una città conosciuta ma di un’altra epoca. Sognò di Olderico Magnani Scotti, che lo aveva avvicinato in un locale pubblico carico di odori e disegnato da mattoni masticati dal tempo. Gli disse che era un conte, che le immense tenute del padre gli avevano permesso una vita agiata al riparo dalle urgenze del lavoro. Che era un appassionato di arte sacra, di musica e di magia nera e che durante una seduta spiritica un suo avo, il conte Eugenio, gli aveva rivelato il segreto dell’immortalità dell’anima su questa terra. Un destino indifferente e inflessibile, proprio pochi giorni dopo lo scatto di quella foto, aveva voluto però che, durante una battuta di caccia, un ospite incauto l’avesse ferito a morte scambiandolo per un cinghiale.
Quando riaprì gli occhi era già mattina. Era ancora seduto sulla sua poltrona, la foto in una mano, una sensazione straniante di debolezza addosso. La casa galleggiava nel silenzio assoluto di una domenica senza data e il giorno attorno a lui pareva in attesa di un cenno per poter riprendere il cammino.
Squillò il telefono. Si alzò a fatica, strascicando le scarpe fino alla scrivania.
«Pronto?» chiese con una voce che non riconobbe.
«Emilio Ruggeri?»
Lui rimase a rimuginare su quella domanda apparentemente facile, poi sbottò:
«Guardi, ha sbagliato numero. Qui casa Magnani Scotti. Sono il conte Olderico Magnani Scotti.»
E riagganciò.