Aveva preso una scorciatoia perché il suo istinto di viaggiatore gli aveva suggerito così. Anche se il più delle volte il suo istinto di viaggiatore non era buono neppure per orientarsi in casa sua. Ma era in vacanza e voleva crederci, anche se la strada si stava facendo sempre più stretta e da asfaltata era diventata sterrata.
Puntualmente la moglie aveva cominciato a brontolare e a buttare giù due o tre argomenti da litigata sostenuta. Lui però aveva deciso di non abboccare: era in vacanza nella tanto desiderata Alaska, pensò, e nessun contrattempo gliel’avrebbe mai potuto rovinare.
La figlia piccola, nel frattempo, aveva manifestato voglia, contemporaneamente, di fare pipì, di mangiare e di dormire. Solo che non poteva dormire se non avesse prima mangiato e non avrebbe mangiato se prima non avesse fatto pipì. La situazione insomma si stava deteriorando, di minuto e minuto; persino il cane Sister stava abbaiando di continuo avendo fiutato aria di nervosismo.
Poi, sulla sua destra, comparve all’improvviso, da dietro le immense fronde di un cedro giallo, un grosso cartello: “ALBERGO CONFORTEVOLE, PREZZI MODICI” e appena sotto, in carattere più piccoli, “VENITE A FARE UN’ESPERIENZA DA BRIVIDO NELLA CITTA’ DEI MORTI.”
«Fico!» gridò subito la bambina indicando il cartello. «Dai papà, andiamoci… deve essere divertente!»
A Frank parve una soluzione insperata. Si stava facendo tardi ed erano stanchi per il lungo viaggio. Inoltre la meta di quel giorno, a questo punto, sembrava d’un tratto irraggiungibile mentre in quell’albergo avrebbero trovato di che mangiare e dormire. L’indomani, a mente serena, avrebbero deciso il da farsi. Guardò la moglie che stranamente si era acquietata: lo interpretò come un segno di via libera.
«Va bene…» disse lui. «Meno male che a Fairbanks non avevamo prenotato; e poi hai ragione, Zoe, magari è un parco a tema e sarà divertente.»
Voltarono così per una stradina laterale che percorsero per alcune miglia fiancheggiando una linea ferroviaria abbandonata. Dopo circa venti minuti arrivarono a una casa tipica della zona, in buono stato; il parcheggio era vuoto.
«Ma perché nostra figlia ha chiamato il cane ‘Sister’ se è un maschio?» chiese lui alla moglie facendo scendere il beagle lanciato all’inseguimento della figlia già corsa via «…gli farà venire delle turbe psichiche…» Ethel lo guardò con sufficienza. Quindi scosse la testa: «Perché forse vuole una sorellina con cui giocare. È così difficile da capire?»
Quando entrarono nell’hotel, la hall era pulita e ordinata, c’era persino un buon profumo di fiori freschi e un’atmosfera accogliente. Ma non c’era nessuno. Aspettarono un po’ e poi Ethel trovò sul bancone del concierge la chiave di una stanza, ben riposta su un cartoncino con su scritto in bella grafia: ‘Siete i benvenuti, vi abbiamo riservato la nostra suite migliore; la cena sarà servita puntualmente alle ore 19.00, nella Sala grande’. La donna raccolse la chiave passando il cartoncino al marito; e, senza dire altro, infilò le scale con in mente solo di fare finalmente una doccia calda.
La stanza era bellissima e spaziosa, con vista sulle White Mountains, che, a quell’ora, viravano su colori aranciati per un tramonto mozzafiato e una luce prepotente. La figlia era eccitata, il cane silenzioso e scodinzolante, la moglie pacatamente svagata dopo la doccia. La giornata sembrava ora volgere al meglio.
Alle 19.00, pieni di aspettative, scesero rumorosamente nella sala principale. C’erano una ventina di tavoli, tutti apparecchiati in modo colorato e invitante; c’era persino una gradevole musica di sottofondo e un odore invitante di cibo. Ma nessuno in giro.
«Vedremo prima o poi qualcuno in questo posto?» fece Frank ispezionando con gli occhi il locale ampio e luminoso.
«Guarda, papà, qui c’è l’hamburger con le patatine fritte che volevo…» disse la bambina additando il tavolo vicino.
«Già», disse la madre sorridendo appena «e c’è anche l’insalata con il formaggio magro che di solito mangio a casa…»
«Allora cosa aspettiamo… ? Sediamoci!» fece lui entusiasta.
«Tutto questo è molto inquietante! Lo sai vero, caro?» fece Ethel guardandosi in giro. «Come mai non c’è nessuno? E come fanno a sapere cosa ci piace?»
«Non essere paranoica, Ethel…» fece lui prendendo una patatina e lanciandosela in bocca «…per una volta che troviamo un servizio di qualità non lamentiamoci… saranno tutti al parco dei divertimenti!»
«Perché? Hai visto che c’è?» fece lei sedendosi con circospezione.
«E perché mai non ci dovrebbe essere? Nella città dei morti…» e pronunciò quest’ultima frase facendo la voce da film horror e ridendo subito dopo.
La tavola era ricolma di cibo e tutti i piatti da loro preferiti erano lì, davanti a loro, appena usciti dalla cucina.
Una volta saliti di nuovo in camera, senza ancora incontrare nessuno, si addormentarono quasi subito. La stanchezza del viaggio si era fatta sentire di colpo.
C’erano però degli strani rumori nella stanza e svegliarono Ethel nel cuore della notte. O meglio, così le era sembrato di sentire. Per un po’ stette ad ascoltare nel buio. Poi, all’improvviso, accese la luce.
C’erano sei individui accovacciati in cerchio; uno di essi, il più vicino al letto, si girò di scatto verso la donna. Poteva avere un centinaio di anni o forse più; un occhio gli scendeva dall’orbita verso la guancia bucata da parte a parte facendo intravvedere una fila di denti. I capelli erano a ciuffi sul cranio pelato e dal braccio lattiginoso, che terminava in una mano ossuta con cui teneva ben salda la coscia di qualcosa che stava masticando, penzolava carne scura e sfilacciata; e il tipo che la stava squadrando con severità aveva tutta l’aria di essere morto, molto morto. Anche se soffiò con forza nella sua direzione come un grosso gatto impaurito.
«Ma cosa state mangiando?» chiese lei allungando il collo; poi si avvicinò di più. «No, Sister no!»
Archivi categoria: horror
La stagione degli amori
Mathias e Luna si erano sposati da qualche settimana e avevano deciso di andare a vivere in una casa a ridosso del bosco. La strada dal paese terminava proprio davanti alla loro villetta e poi proseguiva sotto forma di sentiero, prima tra roverelle rade, e poi nel fitto di carpini e faggi.
Il fidanzamento era stato breve, si erano piaciuti subito e anche la scelta di vivere un po’ isolati, in mezzo alla campagna, era stata fatta di buon grado da tutti e due.
«Devi venirci a trovare» aveva detto a Tom quella sera al telefono. E siccome il vecchio amico aveva percepito dal tono della voce una vena di preoccupazione Mathias, aveva chiarito che gli serviva una sua opinione come esperto di animali. Senza aggiungere altro.
La cena era stata squisita e con la scusa di mostragli il panorama dalla terrazza gli mise un bicchiere di passito in mano e se lo portò con sé.
«Tua moglie Luna, ha le mani d’oro in cucina…» disse Tom appoggiandosi alla ringhiera e gettando l’occhio sulle colline lontanissime. «Penso di avervi fatto fuori le riserve alimentari di una settimana intera.»
Mathias sorrise. «Non sai che piacere mi faccia averti qui» e gli appoggiò una mano sulla spalla.
«Allora, mi vuoi dire cos’è che ti turba? Non vai d’accordo con lei?»
«No, al contrario Tom, va benissimo. Non mi sono mai sentito meglio in vita mia: è una compagna dolcissima. È che non ci siamo ancora abituati ai rumori e ai suoni della campagna.»
«Cosa vuoi dire?» fece lui assaporando il liquido ambrato appena illuminato dalla luna.
«Da qualche tempo qua attorno si sentono degli strani versi di animali che inquietano Luna. La fanno trasalire e la rendono nervosa. Lei non mi dice nulla, ma la vedo tesa e preoccupata.»
«Questa è la stagione dei daini, amico mio, e quassù ce ne sono tanti, almeno secondo l’ultimo monitoraggio… è normale… ci farete l’abitudine.»
«Lo pensavo anch’io, Tom, ma ho controllato su internet; dai video su YouTube che ho visionato ho potuto verificare che non si tratta del verso di un daino o di un capriolo… deve trattarsi di qualcos’altro: è… è un suono strano.»
«Strano?»
«Sì… è per questo che l’ho registrato con il telefonino; per fartelo risentire. Ascolta…»
Il verso che uscì da cellulare si diffuse come una macchia densa nel cielo scuro bucato di stelle. Tom fece una faccia corrucciata, rimanendo per qualche momento senza dir nulla. Poi la registrazione si interruppe.
«Hai ragione: non è un daino, né un altro ungulato e neppure un cinghiale o un uccello notturno… E lo senti spesso?»
Mathias stava per rispondere quando lo stesso verso, dal vivo, riempì l’aria. Era sonoro, vibrante, sostenuto. Proveniva dal profondo del bosco, dove l’oscurità era ancora più compatta. Sembrava che qualcuno venisse soffocato e cercasse di chiedere aiuto senza riuscirci; anche se si capiva, per l’intonazione di alcune note, che in realtà era proprio un richiamo d’amore. Faceva raggelare il sangue. Il suono si ripeté alcune volte fino a che si spense lentamente precipitando nella boscaglia come gocce di pietra. Entrambi ne furono sollevati.
«Allora cosa ne pensi, Tom?»
L’amico aveva gli occhi bassi, come se cercasse sulle mattonelle dell’ampia terrazza la risposta. Mathias ripeté la domanda.
«Di che animale si tratta? Può essere, che ne so, una volpe, una lince? Potrebbe costituire un pericolo per noi?»
«No, Mathias, nulla di tutto ciò… tuttavia non saprei…»
«Possibile che tu non ti sia fatto un’idea?»
«Veramente un’idea ce l’avrei, ma non può essere…»
«Dimmela lo stesso…»
«Ma non può essere, te l’ho detto.»
«Dimmela Tom…» Il tono adesso era quasi di supplica.
L’amico guardò gli occhi di Mathias che avevano catturato la luce che veniva dall’interno della casa. Si schiarì la voce.
«Ci… ci sono alcune registrazioni… di tempo fa… ebbene… temo… temo… potrebbe essere il richiamo di un licantropo.»
Mathias a quelle parole si mise a ridere, pensando fosse una battutaccia. Poi vide che l’amico era serio.
«Ma non esistono i licantropi…» gli obbiettò subito dopo.
«Sì è quello che penso anch’io, è per questo che non te lo volevo dire, sono stupidaggini…» fece Tom come per scusarsi. «Anche se si dice» seguitò guardando ora di nuovo le colline grigie «che quando lanciano quel richiamo significa che hanno trovato la loro compagna… Ne possono avvertire l’odore anche a cinquanta chilometri di distanza…»
Mathias ripensò alla reazione della moglie ogni volta che sentiva quel verso. Gli era parso che non fosse di paura o di preoccupazione, piuttosto di inquietudine come da vagheggiamento o da smania controllata. Ma non aveva voluto darvi importanza.
«Non ti preoccupare però…» gli fece Tom «…te lo ripeto, sono solo sciocchezze.» E lo abbracciò forte.
L’occhio
Non si era accorto che la sveglia, la prima volta che aveva suonato, l’aveva spenta nel sonno. Così, quando si ridestò di soprassalto, era davvero tardi.
Fece colazione rapidamente e infilandosi nel bagno cominciò a pensare a quale scusa inventarsi in ufficio. Poi, lavandosi il viso, sentì che la fedina era sgusciata dal dito e stava rotolando nel lavandino. Fece un paio di tentativi con gli occhi ancora chiusi per il sapone per intercettare l’anello, ma gli svicolò tra le dita e finì nello scarico. Si sentì perduto: se fosse uscito senza fedina al suo ritorno la moglie avrebbe avuto una ragione in più per litigare, se avesse cercato di recuperarla avrebbe accumulato un ritardo ingiustificabile. Optò per recuperare l’anello, anche perché, se fosse caduto dentro il sifone, sarebbe bastato smontarlo e avrebbe fatto presto.
Andò a prendere la pila per illuminare meglio il tubo di scarico e subito scorse luccicare la fedina a mezza via. Prese un ferro da calza dal cestino della lana della moglie e cominciò a rovistare. Per un paio di volte gli sembrò persino di essere riuscito ad agganciarla, per spingerla o tirarla a sé, ma l’anello all’ultimo momento gli scappava sempre via per fermarsi sempre allo stesso punto. Poi si accorse di non vederlo più. Forse la fedina era finalmente caduta. Azionò il pulsante della pila per avere una luce più bianca, quando vide che il fondo scuro del tubo si stava muovendo. Un occhio si spalancò all’improvviso su di lui. Lo scrutava fisso, senza timore, con aria interrogativa, come se fosse stato anche lui appena svegliato da un sonno profondo e si chiedesse chi lo avesse potuto disturbare. Lui fece un balzo indietro, con il cuore che si era messo a battere all’impazzata. Non poteva aver davvero visto un occhio; non lì dentro. Forse, tutto sommato, era meglio andarsene, avrebbe potuto trovare una scusa anche con la moglie. La curiosità ebbe però il sopravvento. Si riavvicinò con cautela e indirizzò il fascio di luce di nuovo sulla verticale del tubo per vedere meglio: non c’era nessun occhio. Solo il suo anello che ora sembrava più vicino. Forse aveva solo intravisto il suo stesso occhio riflesso nell’acqua dello scarico. Sì, non poteva che essere così. Insistette ad armeggiare con il ferro da calza; la fedina si muoveva e ricadeva, si muoveva e ricadeva. E poi, quando stava oramai per disperare, l’occhio gli si sbarrò davanti. Questa volta era torvo, severo, arrabbiato. E non era davvero il suo. Istintivamente girò il ferro dalla parte della punta e lo calò più volte verso il basso con tutta la forza che aveva. Colpì e colpì più volte tanto che il ferro rimase finanche conficcato in quella sostanza da cui fece fatica a estrarlo. E dopo che l’ebbe finalmente estratto un fiotto di liquido rosso/marrone risalì dal tubo a coprire il fondo del lavandino; e, mentre quel liquido dall’odore nauseabondo copriva di qualche centimetro la vaschetta, l’impianto iniziò a tremare come se si volesse scardinare dal muro. Poi tutto cessò e il lavandino si svuotò di colpo.
Rimase fermo, in silenzio. Si sentiva confuso e spaventato, ma non voleva mollare. Quella cosa comunque doveva essere morta. Ne era sicuro. Diresse con precauzione il fascio di luce nel tubo per vedere cosa fosse successo; con sorpresa si accorse che l’occhio invece era però sempre lì: aperto, vigile, carico di odio. Lui rapidamente afferrò allora da sotto il lavandino una confezione di varechina pura e la svuotò nel lavello. L’impianto vibrò come in un terremoto. Si staccarono persino alcune piastrelle e cadde un po’ di intonaco. Ancora una volta, dopo diversi minuti, tutto cessò. E l’anello di lì a poco fu sputato fuori dal buco di scarico a roteare nel lavandino come una pallina da roulette e, prima che ricadesse all’interno del tubo, lo afferrò al volo. Rimase a quel punto incerto sul da farsi. Aveva ottenuto quello che voleva. Forse se avesse fatto presto a vestirsi avrebbe potuto contenere il ritardo. Al diavolo quella cosa che c’era là sotto. Per quel che ne sapeva lui poteva anche essere al piano inferiore e non lo riguardava.
Ma all’improvviso dal buco di scarico uscì un bastone scuro, nodoso. No, non era un bastone. Osservò meglio. Era un dito ossuto. Anzi erano più dita ossute che si aprirono a ventaglio a far presa sulla ceramica bianca. Una sostanza scura e gelatinosa uscì contemporaneamente anche dal rubinetto e dal buco del troppopieno e si espandeva in progressione sotto il suo sguardo attonito. Il lavandino prese a incrinarsi, il tubo di mandata scoppiò e l’acqua sgorgò copiosamente. Lui continuò a fissare il lavello senza riuscire a muoversi fino a quando l’impianto non si spaccò in due.
E poi fu troppo tardi per scappare.
Il settimo maggiordomo
Non appena suonò il campanello, una successione delicata di note dilagò per la casa. E la porta si aprì.
«Entrate, entrate…» fece Saverio dal fondo del corridoio guardando in direzione dell’ingresso; i due amici appena arrivati fecero entrambi l’espressione di chi fosse stato colto sul fatto. Saverio nell’avvicinarsi loro sorrise e li baciò entrambi.
«Non dovevate, grazie» fece raccogliendo dalle loro mani il cabaret di paste e lo spumante: «bene, ora appendete pure i cappotti e mettetevi comodi in sala che ho tutto sul fuoco.»
Anche la moglie di Saverio, Abe, fece per un attimo capolino dalla cucina e trillò un ‘ciao Berti, ciao Rita, siete bellissimi… fate come se foste a casa vostra’.
A tavola i quattro amici risero e scherzarono parlando di tutto un po’ e quindi, al caffè, Rita si complimentò:
«Avete proprio una bella casa…»
«È che siamo stati fortunati a trovarla» raccontò Saverio. «Una ventina di anni fa quando io e mia moglie siamo venuti qui a Lughi ci hanno offerto questa villa e ce ne siamo subito innamorati.»
«A proposito…» fece Berti additando con il pollice le proprie spalle. «Al cancello, in strada, abbiamo visto che qui avete anche una Scuola del Paranormale… Avete affittato?»
«No no… è mia moglie che se ne occupa…» fece Saverio, serio, indicando con la testa Abe che stava allungando verso gli ospiti le tazzine del caffè.
«Non mi dite che credete ai fantasmi e a tutte quelle stupidaggini lì…» disse Berti con un sorrisetto di scherno e girando il cucchiaino nella tazzina.
«Altro che crederci… viviamo con loro!» confermò il padrone di casa.
«Cosa?» domandò incredula Rita.
«Vedete» si intromise Abe, «abbiamo trovato questa grande casa proprio perché nessuna la voleva comprare: è rimasta sul mercato per molto tempo. Da quando appunto è successo quel grave fatto di sangue.»
«Quale fatto di sangue?» chiesero quasi in coro entrambi gli ospiti.
«Archibald era il settimo maggiordomo di Arthur Pembroke, Duca di Conwy, trasferitosi in questa villa dal North Wales, dopo la seconda guerra mondiale, per curare i propri interessi in zona. Una sera Pembroke ha scoperto Archibald a letto con la moglie. Il Duca, dopo aver consegnato una spada ad Archibald perché si difendesse, lo ha ucciso senza pietà, per poi giustiziare orrendamente anche la moglie.»
«Ma è terribile!» commentò Berti.
«Certo che lo è… e, come accade a tutti coloro che muoiono di morte violenta, da allora sia Archibald che la Duchessa sono rimasti come puri spiriti in questa vecchia magione, dove non trovano pace. La Duchessa, per la verità, non esce mai dalla torretta a ovest della casa e guarda sconsolata dall’ampia vetrata in direzione delle terre avite nel lontano Galles.»
«E Archibald?» chiese ridendo nervosamente Rita.
«E Archibald continua egregiamente a fare il maggiordomo. Fa ancora il suo lavoro in modo impeccabile!»
Sia Berti che Rita non sapevano cos’altro dire.
«Comunque quando siamo entrati in questa casa, io e Abe ci siamo chiariti con loro e da allora conviviamo in perfetta armonia.»
«Ah… vi siete chiariti…» ripeté meccanicamente Berti.
«Sì, certo… nel senso che loro non avrebbero mai dato fuori di matto e noi non avremmo cercato di mandarli via…»
«…»
«Così mia moglie, che già era appassionata di queste cose, ha messo su una Scuola del Paranormale e il pezzo forte delle lezioni è proprio il buon Archibald che si manifesta volentieri ai discenti, con grande soddisfazione di tutti.»
«Ma dai… non sarà mica vero…» se ne uscì a quel punto Rita, squadrando preoccupata il marito.
«E allora…» fece Saverio guardando di lato verso la porta come per rivolgersi a qualcuno che solo lui vedeva «… chi pensate che vi abbia aperto la porta quando avete suonato oppure vi abbia tolto i cappotti o servito a tavola?»
[space]
Questo racconto è stato inserito nella lista degli Over 100.
Scopri cosa vuol dire –> Gli Over 100
Zheb
Sto guardando il cielo, sdraiato immobile sul marciapiede. Sto pensando. Ma forse sono solo i miei ultimi pensieri.
Tutto è iniziato circa sei mesi fa. Dapprima erano solo rumori confusi, poi si sono rivelati più precisi, meglio scanditi. E così ho capito che erano parole. Qualcuno mi stava parlando. Ma la voce non veniva dalla mia testa ma da dentro il mio corpo, più esattamente dall’altezza dell’ombelico, tanto che facevo a volte fatica a sentire quando mi trovavo nella via e attorno a me c’era confusione. Ma non vi erano più dubbi: ero abitato.
Sì, qualcuno era venuto a stare dentro di me: la faccia, piccola piccola, così almeno me l’ero immaginata, si trovava all’altezza della mia pancia e poi tutto il resto di questo essere si insinuava tra gli altri miei organi interni per allungarsi nella mia testa fin dentro il cervello. Avrebbe potuto sembrare un gatto se si fosse mostrato, ma con un corpo lungo lungo da serpente. E mi parlava.
Aveva modi gentili, mi rassicurava, diceva di non aver paura e che lui era nato da un qualcosa che avevo mangiato e poi era cresciuto lentamente e attraverso diverse e successive mutazioni era diventato adulto. Mi ha detto che si chiamava Zheb e che veniva da un posto lontano; me lo ha spiegato, per la verità, dov’era questo posto ma non ho capito molto anche perché ha cominciato a parlare in un’altra lingua e in modo concitato. Di lui non dovevo far parola con nessuno, si è raccomandato, in quanto nessuno avrebbe capito. Mi avrebbero preso anzi per matto e io per matto non ci volevo passare, perché non lo sono davvero.
I primi mesi è stata dura, perché spesso mi parlava persino di notte mentre dormivo; ma nella mia solitudine ha finito per farmi compagnia, come un amico, perché come un amico mi dava consigli sul lavoro, nelle situazioni difficili della vita, sul gentil sesso; insomma, mi ci ero abituato.
D’un tratto però ha cominciato a farmi fare le cose.
All’inizio, per la verità, erano cose semplici e banali come andare a toccare tre volte un cartello stradale al di là della strada o storcere i tergicristalli delle macchine o sputare sulle vetrine dei negozi. E non c’era verso di rifiutare di farlo; perché iniziava a scalciarmi nel cervello o a premermi entrambi gli occhi spingendoli dal di dentro verso l’esterno; il dolore era atroce e non mi restava che fare come diceva lui: era diventato lui il mio padrone.
Poi ha iniziato a chiedere sempre di più: mi ha detto di raschiare gli escrementi secchi di piccione dal davanzale; mi ha detto di scioglierli ben bene nell’acqua calda aggiungendoci bicarbonato e una piccola percentuale di alcol denaturato e di andare al supermercato per iniettare il liquido con una siringa nei panetti di burro; ho chiesto perché dovessi fare una cosa simile e lui mi ha improvvisamente stretto la laringe con una parte del suo corpo lasciandomi senza respiro e semi svenuto per terra. Da quel giorno mi ha trasformato in un assassino. Un assassino sempre più sofisticato ed efferato.
Non sapevo come ribellarmi; perché lui pensava i miei pensieri, preveniva ogni mio tentativo di oppormi: ero disperato; non perché temessi che mi scoprissero, no: semplicemente perché non volevo uccidere; io sono una persona pacifica, buona e persino dolce. Lo sanno tutti.
Poi un giorno ho sentito che aveva paura. Mi ha detto che c’era qualcuno come lui dentro a un altro come me che cercava di ucciderlo; cioè che cercava di uccidere me per uccidere lui. Si trattava di una vecchia questione di potere, così almeno mi ha spiegato; lui, Zheb, si era rifugiato dentro di me proprio per sfuggire a questo tizio, evidentemente senza riuscirci. Ho pensato però che tutto sommato sarebbe stata una bella idea: che mi avessero ucciso, cioè; avrei infatti smesso di soffrire, di essere lo strumento di qualcun altro.
Da quel giorno sono trascorse diverse settimane e, nonostante tutti gli accorgimenti e le attenzioni che Zheb mi aveva imposto, eccomi qui: con questo grosso coltello nella pancia, riverso sul marciapiede a guardare le nubi alte che passano nel cielo. Quella donna è sbucata d’un tratto dal nulla e prima che la potessi mettere a fuoco mi ha allungato una coltellata dritta dritta al ventre. Una donna minuta, mi è parsa, ma ha usato ugualmente tanta forza per bucarmi e girarmi la lama ben bene.
Perdo molto sangue e non ho neppure la forza di levarmi via il coltello.
Almeno ci fosse qualcuno che mi aiutasse.
Zheb lo sento lamentarsi dentro di me; urla in modo straziante e si contorce dal dolore.
Io sento male, è vero, ma lui sta senz’altro peggio di me. Forse il coltello l’ha preso in un punto vitale.
Sarebbe bello, in fondo, morisse solo lui e tutto tornasse come prima. Ma questi forse sono davvero solo i miei ultimi pensieri.
[space]