Ampelio era uscito dalla tranvia, come faceva sempre, seguendo l’esile filo dei suoi pensieri. Era il suo modo di estraniarsi dal mondo che lo circondava, un mondo fastidioso fatto di turisti chiassosi, studenti maleducati, molesti questuanti e, perché no, da impiegati distratti come lui.
Il marciapiede era ingombro di passeggeri che salivano e scendevano dalle carrozze, mentre una donna, con un ampio velo che le copriva la testa e una lunga veste grigia che le insaccava il corpo, gli passò davanti lasciando dietro di sé un profumo di vaniglia e spezie resinose. Il volto pallido, incorniciato da un ovale semplice e non truccato, metteva in evidenza uno sguardo bruno molto espressivo costantemente diretto verso terra. Nel parapiglia, Ampelio riusciva a stento a procedere mentre la signora velata sembrava destreggiarsi con disinvoltura evitando gli uno e gli altri. Giunto al semaforo con luce rossa, guardò il cielo sospirando. Il sole si stava abbassando sulla linea dell’orizzonte bucando due strati spessi di nubi scure. Pensò che, anche lui, aveva tutta l’impressione di volerla finire lì con quel giorno così inconcludente e noioso. La gente, sull’orlo del marciapiede, fremeva di impazienza, un po’ sbirciando la strada ancora bollente per la calura del pomeriggio e un po’ l’irraggiungibile riva opposta del centro storico con i suoi colori ipnotici e il suo indecifrabile andirivieni. Nell’attesa, il suo pensiero prese a svolazzare ancora, come una carta di caramelle sollevata svogliatamente dalla brezza della sera.
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La luce del semaforo divenne improvvisamente verde. Di tutte le persone che si trovavano in attesa solo la donna con il velo sembrò accorgersene. Scese sollecita dallo scalino proprio mentre, dalla direzione opposta della strada rispetto a quella da lei ispezionata per attraversare, arrivò a tutta velocità una moto di grossa cilindrata accelerando l’andatura nella convinzione di fare in tempo a passare. Ampelio si rese subito conto di quanto stava per accadere. Istintivamente alzò il braccio per afferrare la donna e la trasse con forza verso di sé. La moto sgusciò rombante mentre la donna guardò stupita l’uomo che l’aveva trattenuta, ma più per la sua presenza accanto a lei che per il fatto di aver appena scampato l’investimento.
Subito un quarantenne, scuro di carnagione e dal naso importante, si avvicinò ad Ampelio a sbarrargli il cammino.
«Cosa hai fatto tu?» domandò. Era alto, minaccioso, gli occhi stralunati. E stava sudando. Ampelio cercò di scostarsi anche perché quello aveva messo il suo viso a pochi centimetri dal suo e il suo fiato non profumava di rose. La signora invece aveva fatto alcuni passi indietro e, perfettamente immobile, consapevole del dramma che si stava per consumare, faceva finta di osservare il cemento del marciapiede sotto le scarpe di raso nero.
«Tu toccato Lubaaba, adesso tu sposare.»
«Eh?» fece Ampelio che non sapeva se mettersi a ridere.
Un altro uomo corpulento arrivò rapidamente urtando il suo avambraccio con il torace possente. «Tu toccata, tu disonorata.»
«Lasciatemi stare… io, piuttosto, le ho salvato la vita, ma che dite? C’era quella moto che la stava per investire. L’hanno visto tutti…» disse avvedendosi però che il marciapiede, se non fosse stato per lui e per quegli altri strani tipi, si era fatto deserto.
«Io visto solo te toccare Lubaaba a braccio» fece il terzo che si approssimò in modo da chiuderlo all’interno di un cerchio. «Tu non facevi se non intenzioni serie; rimedi ora con buon matrimonio… quante pecore per noi?»
«Ma quale matrimonio, ma quali pecore?» disse Ampelio perdendo la pazienza «da che buco sotto terra siete usciti? Lasciatemi perdere…» e si strattonò da quello che più lo pressava fisicamente.
«Allora Lubaaba morire lapidata. Stasera stessa…» se ne uscì imperioso quello che gli aveva parlato per primo fendendo l’aria con un gesto secco del palmo della mano.
«Come lapidata? Non scherziamo!»
«Lapidata, certo, non può vivere con marchio di infamia… non vuole più nessuno lei a paese… usare noi questi blocchetti di pietra di fondo vostre strade… va benissimo.»
«Ma no… ma no… parliamone ancora…» piagnucolò Ampelio ad alta voce.
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Alcune persone che come lui aspettavano la luce verde del semaforo lo squadrarono. Si sentì a disagio e sollevò nuovamente gli occhi verso il sole che stava ora incendiando la nube più bassa.
Poi il semaforo improvvisamente diede il via libera. Di tutte le persone che si trovavano in attesa solo la donna con il velo sembrò accorgersene. Scese sollecita dallo scalino proprio mentre, dalla direzione opposta della strada rispetto a quella da lei ispezionata per attraversare, arrivò a tutta velocità una moto di grossa cilindrata accelerando l’andatura nella convinzione di fare in tempo a passare. Ampelio si rese subito conto di quanto stava per accadere. Istintivamente alzò il braccio per afferrare la donna, ma poi si trattenne. La signora con il velo fu presa in pieno dal centauro che la scaraventò lontano dopo averle fatto fare una doppia capriola per aria come fosse un fantoccio. Quando ricadde fece il rumore di un’anguria lanciata a terra dal secondo piano.
«Lei era vicino e l’ha vista incamminarsi perché non l’ha fermata?» lo rimproverò una donna anziana alzando il dito ossuto nella sua direzione.
Ampelio subito non rispose. Ci pensò un po’ su e poi disse:
«Non volevo mica sposarla!»
E raggiunse l’altro marciapiede confondendosi ben presto con il via vai quotidiano della solita gente.
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Quante pecore?
Posted in racconti, racconti di Poggiobrusco, tagged blogtale, città, Lughi on 15 settembre 2019| 22 Comments »
Codice giallo
Posted in racconti, racconti di Poggiobrusco, tagged ambulanza, blogtale, bus, città, fermata, Lughi, medico, traffico on 25 marzo 2016| 54 Comments »
Da qualche giorno il servizio era peggiorato. Per colpa dei lavori alla tranvia, il bus passava in modo discontinuo, senza rispettare gli orari. A volta si aspettava mezz’ora e anche più e poi si vedevano arrivare tre autobus, tutte assieme, della stessa linea.
Andrea stava passeggiando nervoso avanti e indietro nella piazzola oramai gremita di gente. Guardò l’orologio. Se avesse potuto immaginare quell’ennesimo ritardo avrebbe potuto trattenersi in ufficio: con quello che aveva da fare! Eppure, dando un’occhiata alla tangenziale, sembrava che la strada fosse libera. Un’ambulanza stava infatti procedendo spedita verso nord senza fare slalom o avere rallentamenti. Diede un calcio a un sassolino innocente. Si era ripromesso mille volte di usare, in alternativa, l’auto o la bicicletta o comprarsi addirittura un motorino, ma poi finiva sempre, per pigrizia, per riprendere l’autobus.
Intanto l’ambulanza, anziché procedere per lo svincolo, dopo aver percorso la rotonda dell’aeroporto, sbucò all’improvviso sul rettilineo. Il suono della sirena, amplificato dalla via stretta e dalle case addossate le une all’altra per farsi coraggio, arrivò come una sciabolata sulle orecchie degli astanti; le macchine si accostarono per l’imperiosità di quell’incedere che non ammetteva tentennamenti. Arrivata all’altezza della fermata, l’ambulanza sembrò voler accelerare quando all’improvviso si arrestò con uno stridio sgradevole di freni. Le portiere a scorrimento si aprirono di scatto e due infermieri, uno tozzo e nerboruto e l’altro allampanato e gli occhiali spessi, ne scesero con la rapidità di un commando. Fecero slittare la barella che rimbalzò sull’asfalto più volte; si misero a correre tirandosela dietro.
«Venga, si sdrai» ordinò l’uomo muscoloso fermandosi proprio davanti ad Andrea.
«Come dice?» fece lui sporgendosi un poco in avanti come se gli avessero chiesto un’indicazione assurda.
«Le ho detto, per cortesia, di sdraiarsi sulla lettiga, così possiamo ripartire…» ribadì l’uomo, con piglio gelido e risoluto, indicando l’evidenza del lettino davanti a lui. Il barelliere allampanato si guardava invece attorno, come si trovasse lì per caso e non volesse immischiarsi; la scena, quasi fosse quella di un noto telefilm di avventure, stava avvenendo ora sotto gli occhi attenti di tutte le persone in attesa.
«Guardi che ci deve essere un errore, io sto benissimo» rispose Andrea sulla difensiva agitandogli davanti il palmo aperto della mano per fermarne l’irruenza.
«Nessun errore: questa è via Torre degli Agli, 15, lei si chiama Andrea Tranquilli, dirigente, sui sessanta non portati benissimo; abita in centro, incarnato piuttosto pallido… nausea, lieve tachicardia, pressione alta… devo continuare?»
«Non sono affatto pallido e non ho la pressione alta… ma insomma mi lasci in pace…»
In quel mentre uscì dall’ambulanza una giovane donna, camice immacolato e stetoscopio attorno al collo. Sembrava avvicinarsi al rallentatore, i capelli ricci e bruni svolazzavano serici nell’aria, lo sguardo penetrante di una persona sicura di sé.
«Dottoressa, il paziente non vuole collaborare…» le fece l’infermiere nerboruto facendo un passo verso di lei. La donna si avvicinò e senza dire una parola controllò gli occhi di Andrea e gli sentì il polso.
«Non le gira la testa?» chiese con una voce calda e morbida.
«In effetti… forse un pochino, ma che c’entra, chi vi ha mandato?»
«Si segga un attimo qui, per favore» le disse lei accompagnandolo docilmente alla barella.
In un attimo gli sbottonarono la camicia sistemando ventose e fili che collegarono a uno scatolotto tempestato di spie luminose che ben presto partorì un lungo scontrino pieno di dati. La dottoressa lo visionò con attenzione e poi scosse la testa.
«Bisogna fare presto…» sentenziò guardando l’infermiere nerboruto. «Portatelo subito dentro.»
«Ma perché, cos’ho?» chiese Andrea con una voce che gli era uscita in falsetto.
«Non le si sta forse annebbiando la vista?» chiese la dottoressa con un tono che non pareva una domanda.
«Forse un po’…»
In un attimo l’ambulanza ingoiò Andrea e la barella e i due portelloni slittarono di lato chiudendosi con lo slancio di una trappola per orsi.
«Codice verde?» chiese l’allampanato rivolgendosi alla dottoressa da sopra le lenti fortemente graduate. «Il call center lo vuole sapere.»
«Macché verde… codice giallo, dica: c-o-d-i-c-e g-i-a-l-l-o e facciamo presto, per carità.»
L’ambulanza schizzò in avanti con la sirena che dilaniò l’aria circostante. All’incrocio tirò dritto nonostante il semaforo rosso e una vecchietta sorda che avanzava sulle strisce pedonali con un treppiede.
Proprio mentre dal fondo della strada, lentamente, stavano arrivando tre autobus della stessa linea.
I biscotti al pan di zenzero
Posted in racconti di Poggiobrusco, racconti storici, tagged anziano, biscotti, blogtale, città, Londra, Mayfair, solitudine, tè on 8 settembre 2015| 39 Comments »
Adorava quel momento della mattinata; quando, seduta al tavolino nel bow window di casa, sorbiva il suo tè al gelsomino con i biscotti fatti in casa. Non che avesse davvero fame o una particolare voglia di tè, ma era per il fatto che era la sua routine, il dispiegarsi della sua stessa esistenza, e non l’avrebbe modificata per nulla al mondo.
E dire che la sua giornata era iniziata molte ore prima. Alle 5 per l’esattezza. Si lavava, si cambiava, si lisciava con un pettine d’osso i capelli che il tempo aveva trasformato negli steli di un soffione pronti a disperdersi nel vento e puliva casa con la leggerezza di una brezza primaverile, nonostante i novant’anni passati, mentre nell’atmosfera tiepida delle tre stanze, in Grosvenor street, un Mozart in particolare forma trillava soave spandendo note come brillanti monete d’oro. Poi, se era ancora presto, sedeva sulla poltrona aspettando immobile come un sasso il ragazzo del giornale; arrivava cigolando verso le 7 sulla sua bicicletta rabberciata spuntando all’improvviso dalla sagoma del grande olmo, la faccia concentrata sui pedali, per poi sbilanciarsi un poco in avanti, all’ultimo momento, giusto per far roteare con un gesto secco il quotidiano oltre la siepe di picaranta; lei aveva conservato nel tempo un ottimo udito sicché sentiva persino il sibilo del giornale mentre volteggiava nell’aria per poi schiantarsi contro la porta o gli scalini in cotto. Attendeva pazientemente di sentire il ragazzo sparire in fondo alla strada per poi alzarsi con rinnovato entusiasmo e raccogliere la tanto attesa copia del The Sun, ovunque fosse finita; la sistemava con cura nell’apposito cestino sul tavolino apparecchiato, accanto al tovagliolo di organza e le posate di argento, come se avesse aspettato un ospite speciale, e si sedeva ancora sulla bergère, rigida come l’asta di una bandiera, in attesa che la pendola rintoccasse le otto precise. Allora si rianimava di nuovo, dicendosi qualche parola gentile di incoraggiamento; rapida si preparava il tè che si serviva con il sorriso sulle labbra nella fragranza dei biscotti al pan di zenzero che aleggiava tutt’attorno, un dolce che, sapeva bene, sapeva trasformare la tavola in una festa per salutare come si deve il nuovo giorno.
Mozart a quel punto taceva sotto il braccio fermo del giradischi. Sicché, nel sopraggiunto silenzio della casa, lei consumava la colazione nella solennità dell’attimo, godendosi il via vai della gente per strada oltre il vetro nitido di quella vetrina come fosse davanti a una televisione.
Quindi arrivava finalmente il momento del quotidiano; lo apriva sempre allo stesso modo, lentamente, quasi si rompesse, spiegandolo con la mano pallida dalle mobili vene violacee; sì, non lo si poteva negare: era preoccupata, come ogni mattina del resto, ma pronta ad accettare serenamente la realtà, qualunque essa fosse. Il battito del cuore accelerava, i palmi delle mani si inumidivano. Aspettava ancora qualche attimo, gli occhi appena socchiusi, e poi si metteva avidamente a leggere i necrologi; li leggeva con attenzione, scorrendoli a uno a uno, senza perdere una parola o una virgola. Arrivata in fondo, prendeva la lente di ingrandimento e li rileggeva di nuovo con la stessa attenzione della prima volta. Poi posava il giornale sul tavolo e finalmente sospirava:
«Bene, meno male. Anche per oggi tutto è andato per il meglio: nei necrologi non c’è il mio nome. Vuol dire allora che ne approfitterò per uscire un po’ e fare un paio di commissioni.»
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Il testimone
Posted in racconti, racconti di Poggiobrusco, tagged amici, blogtale, città, Lughi, morte, surreale on 5 Mag 2013| 34 Comments »
I due uomini camminavano per la città parlottando rilassati, uno accanto all’altro. Si capiva subito che erano amici. Uno dei due, quello con i pantaloni color mattone e la camicia beige un po’ troppo sbottonata sul davanti per l’età, ogni tanto si fermava a gesticolare: raccontava qualcosa di divertente, perché l’altro rideva, facendo ricadere all’indietro la testa a mostrare denti bianchissimi.
«Senti, non so come dirtelo» fece a un certo punto quello più giovane, con il berretto da baseball calzato con la visiera alla rovescia. «Credo che siamo seguiti.»
L’amico, si fermò per l’ennesima volta, proprio davanti a un semaforo spento e, aiutandosi con le mani, domandò:
«Ha per caso una t-shirt grigina con su scritto ‘Notre Dame’ e jeans sdruciti?»
«Uhmm, direi di sì» rispose il giovane voltandosi indietro e drizzando il collo.
«Allora è Mario» disse attraversando la strada. «Nessun problema: è il mio testimone.»
«Ti sposi?»
«Macché! È un testimone, un possibile testimone processuale. Da quando sono nel vostro Paese, era l’unico mondo per sentirmi veramente tranquillo. Leggevo di continuo sui giornali ciò che accadeva qui: qualcuno per la via ti aggredisce per pochi centesimi e poi la fa franca perché nessuno mai vede niente… »
«E allora? Quel tizio ti guarda le spalle?»
«Ma no, mi so difendere benissimo da solo, come ben sai… Piuttosto, mi fa da testimone oculare, come ti ho detto. Dovesse accadermi qualcosa, e dovessi soccombere, lui potrà pur sempre raccontare cos’è successo, magari riuscendo a descrivere l’aggressore perché sia individuato, arrestato e punito, senza che un buon avvocato lo faccia assolvere per mancanze di prove. Almeno avrei quest’ultima soddisfazione. Mario, del resto, è un testimone perfetto: è incensurato, sveglio, ottimo osservatore, non è un mio parente e non lo pago, per cui agli occhi della legge è un teste disinteressato e, quindi, già di per sé, attendibile.»
«Come sarebbe a dire che non lo paghi?» chiese il giovane che si grattò i capelli attraverso il cappello.
«È un mio studente dell’università. Ha detto che su questa esperienza ci preparerà la tesi di laurea… insomma: lui è contento e io pure.»
«Lo sai che sei un po’ paranoico e piuttosto strano, vero?» disse il giovane ridendo. «Con tutto il rispetto parlando, ovviamente…»
L’uomo con i calzoni color mattone stava per replicare quando si sentì alle spalle uno stridio acuto di freni e una botta fortissima. I due si girarono.
«Hanno investito il tuo Mario!!!» urlò il giovane indicando un punto dietro di lui.
I due tornarono precipitosamente sui loro passi. Mario era disteso a terra, diversi metri più in là contro la vetrina di un negozio di scarpe: aveva una posa scomposta come fosse stato gettato lì dal vento. Perdeva copiosamente sangue dalla testa e un rivolo di materia densa e scura gli scivolava via lento dalla nuca. Attorno a lui si era già formato un capannello di persone.
«Mario! Mario!» esclamò il professore con una voce di cui non riusciva a modulare i toni. «Ma che è successo?»
«Sembra che una moto sia sbucata dal nulla e l’abbia investito in pieno proprio mentre scendeva dal marciapiede» disse un uomo impassibile, accanto a lui, guardando la via in un punto indefinibile. «Il semaforo non funziona già da qualche giorno.»
«Qualcuno ha preso il numero di targa, ha visto chi è stato?» fece il giovane agitatissimo.
«No, pare proprio di no. Non ci sono testimoni» si sentì dire.