Gin lemon

La signora sedeva spesso a quel tavolino d’angolo. Beveva un gin lemon fumando qualche sigaretta. L’aria era distinta, un viso serio, valorizzato da fluenti capelli castani, nascosti a volte da un cappello largo, altre volte raccolti in modo discreto dietro la nuca. Quarant’anni addolciti da qualche amore meno distratto di altri con qualche traccia sui lineamenti maturi e il corpo raccolto in vestiti raffinati, ma indossati con stile, senza strafare. Sembrava sempre aspettasse qualcuno, ma dopo circa mezz’ora guardava l’orologio come se il tempo fosse scaduto e, posati in fretta i soldi sul tavolo, si allontanava con il passo di chi abita il proprio mondo a proprio agio.  E come ogni mercoledì era a quel tavolino laggiù. Leggeva un libro che sfogliava pigramente. Aveva appena terminato la pagina undici quando da dietro la sua spalla vide inoltrarsi lentamente una mano. Non fece in tempo a spaventarsi che un uomo sui trent’anni gli cadde addosso per poi rovinare sul tavolino rovesciando bicchiere e posacenere. La donna, con entrambi i pugni chiusi, quasi volesse aggredirlo, si stizzì.
«Mi scusi sono mortificato…» fece lui cercando di riprendersi la dignità scivolata a terra con la sedia e tutto il resto. Teneva ancora in mano il cellulare in cui la donna scorse distintamente la foto del suo piede destro.
«Cosa fa? È impazzito?»
L’uomo si era accorto che la donna osservava insistentemente la foto sicché, vistosi scoperto, prese a balbettare:
«Lei non sa, lei non può capire…» cercò lui di giustificarsi confusamente «io la vedo spesso qui al mercoledì. Lei ha dei piedi bellissimi, io ne vado pazzo… io, io…» Era stravolto, rosso in viso, gesticolava non sapendo più dove mettere le braccia e il resto del corpo.
«Va bene… però adesso si calmi, non faccia così» fece la donna preoccupata si sentisse male tanto era paonazzo. «In fondo non è successo niente di terribile.. adesso si calmi… su, da bravo…» L’uomo si ammutolì. Non osava guardarla in faccia. Aveva gli occhi fissi a terra, come un bambino che si aspettasse la giusta punizione. «Però la foto… è venuta mossa…» disse la donna indicando il cellulare abbandonato lungo i fianchi. «Su, ci riprovi. Vuole che mi tolga la scarpa o va bene così?»

Insight

L’uomo camminava sul bagnasciuga mentre le onde trasparenti di spuma lo lambivano senza toccarlo. Ogni tanto si fermava a consultare un foglietto che teneva stropicciato nel pugno chiuso; giunto al faro, si girò più volte come cercasse conferma che quello fosse il posto giusto. Poi entrò dalla porticina e salì i gradini bianchi di pietra lucida di salsedine, incasellati a chiocciola in un volgersi che sembrava non finire mai; si arrestò a metà, col fiato corto, spiando quanta strada fosse rimasta. Continuò a salire come se non gli importasse nulla che la penombra stesse cancellando i gradini alle sue spalle e raggiunse la luce abbagliante che lo fece sobbalzare di gioia. Una donna giovane, dai lunghi capelli morbidi, un viso scolpito dall’amore, si girò verso di lui: stava per dire qualcosa, ma l’uomo la precedette:
«È lei il fotografo?» fece in un respiro affannoso.
«Lei chi cerca, scusi?» domandò sorpresa.
«Ho visto le sue foto su Internet, signora, e mi sono piaciute molto».
«Mi chiami Marta, per favore… Comunque non posso aiutarla. Io fotografo solo per hobby. Non è il mio lavoro far fotografie…»
«Lo so, lo so…» fece lui sedendosi sulla prima sedia che trovò. Aveva un’età indefinita, forse cinquant’anni tra ricordi e sogni in quegli occhi profondi. «È che lei, vede, fa delle foto sorprendenti… va oltre l’immagine; con la luce disegna la vita che abbiamo dentro, i sentimenti che ci agitano, le emozioni di chi ci conosce. E lo fa con uno stile tutto suo, con curiosità e meraviglia, ma anche con una carica di sensuale dolcezza…»
La donna abbozzò un sorriso, era imbarazzata. L’uomo aveva smesso di ansimare e ora stava guardando la distesa sperduta del mare innanzi a sé che pareva voler entrare nella lanterna.
«Ma come ha fatto a trovarmi?» chiese la donna che riprese a dar l’acqua ai kalankoe in fiore.
«Me lo sono segnato qui…» L’uomo si toccò la tasca dove aveva riposto il foglietto.
«Lei lo sa, vero, che questo posto non esiste?» insistette la donna avvicinandosi a lui. «È un posto dell’anima. L’ho creato io con la mia mente per ritrovarmi quando voglio stare sola. Io e lei, insomma, non siamo reali…» Lui la guardò confuso come se quella voce gli arrivasse da lontano. Non capiva. La donna tagliò corto: «A cosa le servono le foto?»
«In realtà me ne serve solo una. Voglio metterla sulla mia tomba. È per questo che voglio che sia lei a scattarla. Non voglio la solita foto-tessera, a mezzobusto, dall’aria stereotipata. Vorrei che mi fotografasse il viso, che si vedano gli occhi. Che si capisca quanto mi spiaccia morire e quanto io ami la mia vita, i miei cari, le mie cose…» Seguì una pausa fragile mentre la donna aveva preso a girargli attorno osservandolo meglio.
«Ci potrebbero volere delle ore» precisò lei più con l’intento di dissuaderlo che di avvertirlo.
«Me ne rendo conto, Marta, ma ho tutto il tempo… morirò solo il mese prossimo».

Una bella mattinata

Una bella mattinata. Con i raggi del sole che filtrano tra le tende della sala. È divertente vedere in trasparenza il pulviscolo che si agita come fossero tanti moscerini impazziti. Anche se cerchi di acchiapparli sgusciano tra le dita, come quel branco di aringhe che ho visto in un documentario alla tv, che cambiano improvvisamente direzione, tutte insieme, brillando, alla luce del sole.
Ciao, papà, tutto bene?‘ Lo so che stai facendo ancora il gioco dell’altro giorno di far finta di non vedermi, però sono qui… ho fame… mi prepari la colazione? Sì, sì mi rendo conto che è domenica e avrei potuto stare a letto ancora un po’, ma non avevo più sonno. Ehi?!? Mi ascolti? Forse è già tutto pronto sul tavolo in cucina? Oh ciao, mamma, allora la colazione l’hai preparata tu? Non mi guardare così… non mi sono lavato i denti e neppure la faccia, se è questo che vuoi dire… Prima mangio e poi mi metto a lustro così si va a Messa. Ma come mai avete tutti quest’aria un po’ triste? È successo qualcosa al gatto e non volete dirmelo? Oramai sono grande potrei capirlo, sapete? Mi rendo conto che è vecchio e che ha tutti i peli grigi… e oh… però! Il gatto è lì sul davanzale, lo vedo, mi sembra che sia in gran forma, che stia bene… non credete? E allora, cosa è successo? Però, aspettate un momento… sei china su di me mamma, ma dal riflesso dello specchio qui accanto vedo solamente che ti pieghi mentre io non ci sono. Come è possibile? Sei vicina a me… ecco sì… vicina ad un portaritratti… ma cosa sono diventato, mamma, una foto? E adesso perché piangi?’ Mamma… papà… che succede?

 

La Lotta tra i Ciclopi

«Sciò, sciò, andare prego, andare.» Il giapponese, facendo un accenno di inchino, gesticolava all’indirizzo di un ragazzo che, seduto sulla gradinata del Duomo di Lughi, impediva al turista, con la sua presenza, di scattare una foto al gruppo statuario della ‘Lotta tra i Ciclopi’. Il complesso marmoreo cinquecentesco, capolavoro di Celestino del Tarqui, è in assoluto il monumento più fotografato dagli stranieri. Ma era anche il punto di ritrovo estivo della cosiddetta ‘compagnia delle catenelle’, un gruppo di giovani sfaccendati di Lughi, che gironzola monotonamente tra la vicina fontana di via Plinio, cinta da ogni lato da robuste catene medioevali, e il sagrato, appunto, del Duomo di San Properzio. Il ragazzo, a quel punto, non avendo nessuna voglia di andarsene, gli rispose seccato:
«Mi spiace, non capire, io di Lughi.»
«Io voglio tu via, così fare foto e tutti contenti.»
«Sarai contento tu, madeinjapan, io sono felice qui, bello sdraiato all’ombra.»
«Io venuto da Giappone per fotografare Ciclopi, tu fa’ gentile, tu sciò» insistette lo straniero che si aiutava con la mano come se mandasse via una mosca.
«Sarà che sei venuto pure dal Giappone, amicokungfu. Ma io vengo da quella casa là e ho fatto prima di te. Quindi tu fare sciò e non rompere le nonne.»
Il giapponese capì che se voleva fare la sua foto, doveva cambiare registro. Si avvicinò allora al ragazzo con molta pazienza e gli sganciò in mano trenta euro. Il giovane non voleva credere ai suoi occhi:
«Potevi dirlo subito che era così importante» esclamò raggiante il giovane prima di andarsene.
Il giapponese, dopo aver fatto un altro mezzo inchino alle spalle del ragazzo che si stava allontanando, tornò indietro di qualche passo per poter scattare la foto all’intera statua. Era visibilmente soddisfatto per l’abile strategia dimostrata. Poi si voltò verso il monumento. Il sorriso, in un lampo, gli si gelò sulle labbra: altri cinque giovani della compagnia delle catenelle si erano già distesi nell’esatto punto dove si era trovato il primo ragazzo. Uno di loro disse pure ad alta voce:
«Beh, mi serviva proprio un bel po’ di grana stasera per la pizzettina e il cinemino.»

Made in Japan

 

L’avevo già notato quando era disceso dal pullman turistico che aveva vomitato una miriade di giapponesini sulla piazzetta di Lughi. E l’avevo notato non tanto perché aveva una camicia ampiae lunga con la Venere del Botticelli stampata davanti e dietro, ma perché era il più vispo di tutti e non stava mai fermo. Saltellava da ogni parte con la sua macchina fotografica sparando potenti flashate un po’ dappertutto. Ritraeva i compagni di viaggio, un piccione pasciuto che se andava a spasso per la piazzetta, un vecchietto che transitava cautamente appoggiandosi al suo bastone. Sorrideva e scattava, scattava e sorrideva. La sua fotocamera mi ricordava le pistole di John Wayneche sparavano in continuazione senza scaricarsi mai.
Con un’agilità felina, l’uomo s’inerpicò persino sopra al piedistallo della statua del Poggi Perti per fare istantanee a 360 gradi. Probabilmente fotografò anche me che, comodamente seduto ad un tavolino del Bar del Cinghiale, mi stavo bevendo il mio ‘cucciolo’.
Poi, come avesse una sola anima, il gruppo si spostò verso la scalinata di San Properzio. Con tutta probabilità era intenzione dell’allegra comitiva visitare la chiesa, attrattiva principale della zona, insieme alla Pieve di Punta Moreno, dei turisti stranieri.
Poco prima di salire gli scalini, una connazionale, suppergiù dell’età del giapponesino botticelliano, s’avvicinò a lui dicendogli qualcosa. Stava leggermente china la donna mentre parlava, ma dovette essere qualcosa di risolutivo e irrevocabile perché lui, a quelle parole, rimase perplesso, tanto da grattarsi vistosamente la testa e levarsi di dosso, subito dopo, tracolla e macchina per riporle ordinatamente nello zainetto. Il suo viso ero imbronciato come se avesse subito un’ingiustizia.
Il gruppo si avviò quindi alla chiesa in modo compatto e in silenzio come solo i gruppi dei giapponesi sanno fare. Il fotografo rimase però per ultimo e quando tutti gli altri già erano spariti all’interno della cattedrale lui si arrestò rimanendone fuori. Rapido, tirò giù lo zainetto e, ripresa la macchina, ricominciò a fotografare freneticamente la facciata, le nicchie esterne, le statue e il portone principale. Sembrava lui stesso un dispositivo automatico.
Con la coda dell’occhio vide quindi una coppietta che, dietro alla statua del Cristo Redentore, appollaiata su di un gradino, si stava sbaciucchiando di sommo gusto. Il giapponese, quatto quatto, arrivò vicino a loro e iniziò a lavorare alacremente di flash. L’uomo, sorpreso, si scostò di scatto dalla ragazza guardando storto il giapponese. Poi si alzò con noncuranza, sorridendo perfino alla sua campagna e, arrivato a un metro dal giapponese, gli mollò uno schiaffone così forte che lo fece volare in mezzo al sagrato. Ma mentre il corpo del malcapitato prendeva una direzione, la fotocamera ne aveva presa un’altra. Dopo una larga parabola colpì infatti lo spigolo di un gradino della scalinata per poi fare tutti i rimanenti a ruzzoloni. Il giapponese rimase a terra per qualche minuto. Sembrava ancora più piccolo rannicchiato com’era. Quando si riebbe, massaggiandosi la guancia e la mascella, senza neppure guardare l’energumeno che aveva ripreso a impastare saliva con la sua bella, scese le scale con il passo del condannato a morte. Lo sguardo era fisso sulla macchina fotografica che non dava segni di vita. Nell’urto si era aperta e il processore e i dispositivi di allineamento e di autofocus fuoriuscivano, come le interiora di un’animale spiaccicato da una vettura. Il teleobbiettivo ero tutto storto e in parte era rientrato, il puntatore elettronico era addirittura spaccato in due. Giunto al cospetto della macchina l’uomo s’inginocchiò vicino a lei prendendone in mano delicatamente i resti. Sembrava volesse rianimarla. Accarezzava la memoria digitale come per sentire al suo interno lo spessore delle foto andate perdute per sempre. Rimase così immobile, con quella bestiola di ferro e di vetro appena spirata in mano, con la testa bassa e i capelli arruffati dal vento. Era assorto e si sarebbe detto che dicesse una preghiera. Forse pensava a dove avrebbe potuto seppellirla.
Sentitosi toccare su di una spalla, l’uomo sussultò pensando che fosse ancora il giovinastro. Era invece quella signora che prima aveva parlato con lui. Evidentemente era uscita dalla chiesa avendo notato che lui non vi era entrato. Sempre in ginocchioni, l’uomo le spiegò ogni cosa accompagnandosi con gesti inequivocabili che ripercorrevano tutta la sua disavventura. Indicò anche il ragazzotto che gliele aveva suonate e che era ora intento ad esplorare con le mani cosa la signorina nascondesse sotto la gonna.
La connazionale, mentre l’altro raccontava, giocava con una mano tra i suoi capelli. Ero carezze affettuose, di consolazione, ma anche di rimprovero per un ‘te l’avevo detto io’ che non fu pronunciato ma che era nell’aria.
L’uomo allora si alzò per riporre religiosamente i resti della macchina nello zaino. Nel frattempo era ritornato tutto il gruppo che non si era accorto di nulla. Sul pullman risalì prima il fotografo che si massaggiava ancora la guancia, poi la donna e quindi, uno dopo l’altro, il resto della comitiva.
Ad un certo punto al fotografo si avvicinò un altro giapponese vestito di tutto punto come se fosse appena uscito da una riunione manageriale. Tra loro iniziò una discussione. O meglio il giapponese manager stava parlando in modo autoritario all’altro che aveva il capo chino. Più il manager parlava più si accalorava, più l’altro abbassava la testa. Poi, ad un certo punto, il fotografo tirò fuori dallo zainetto i resti della fotocamera digitale. Il manager li prese, li rigirò tra le mani e poi li tirò in faccia al fotografo. Non contento, iniziò quindi a spingerlo con violenza. Lo spinse più volte e lungo tutto il corridoio del pullman fino a quando non fu riverso sui sedili che si trovano in fondo al veicolo. Era chiaro che la macchina fotografica che si era rotta era del manager che stava dimostrando con veemenza tutto il suo disappunto. Vidi anche alcuni connazionali, quelli che non erano impegnati a ridere a crepapelle, che stavano cercavano, senza molta convinzione per la verità, di fermare il manager che infieriva sul fotografo.
Poi il pullman si mosse e, lentamente, caracollando, sparì dalla mia vista.