Pilastri di luce

pilastri-di-luciAveva preso da qualche tempo a mettersi i tappi nelle orecchie prima di addormentarsi. All’inizio lo aveva fatto per non sentire il cane del vicino lasciato spesso da solo nella corte interna del condominio ad uggiolare tutta la notte. Poi si era accorto che gli favoriva il sonno perché gli permetteva di concentrarsi su un silenzio rassicurante ancorché artificiale, creando una sorta di isolamento dalla realtà, un’anestesia dai pensieri e dalla coscienza. Entrava in una capsula di oblio come se sedesse sul fondo di una piscina piena d’acqua, indifferente al mondo là fuori di cui si sarebbe occupato solo il giorno dopo, al risveglio, caso mai ci fosse stato.
Aveva anche trovato il modo per ridurre il più possibile il fastidio di sentire la presenza di un corpo estraneo nell’orecchio. Anziché usare due tappi di schiuma, ne divideva uno a metà. L’ingombro diventava minimo e il risultato ancor più assicurato per la maggiore aderenza.
Poi una domenica, nel cuore della notte, suo figlio Fenner entrò di colpo nella sua stanza. Lo svegliò scuotendolo più volte. Fece appena in tempo a notare il volto di lui pieno di terrore mentre gli urlava qualcosa contro, indicando fuori dalla finestra, che subito si era allontanato. Non era stato in grado di avvertirlo che aveva i tappi nelle orecchie e che quindi non aveva capito nulla. Né era valso richiamarlo ad alta voce perché Fenner non era tornato indietro.
Si mise a sedere sul letto. La stanza era ancora illuminata dalla luce lasciata accesa sul comodino quando la sera prima era sprofondato nel sonno scesogli sulle palpebre come una ghigliottina. Possibile che il figlio si fosse sbagliato e avesse fatto solo un brutto sogno? Cercò di svegliarsi anche se il sonno rimasto intrappolato nella sua testa ora lo stava tormentando. Provò di nuovo a togliersi i tappi dalle orecchie. Erano andati troppo in profondità. Le sue grosse dita non riuscivano ad afferrare la poca superficie di schiuma rimasta a disposizione per estrarli dal condotto uditivo. Ci tentò più volte, ma non c’era niente da fare. Si infilò i pantaloni. Nell’alzarsi per prendere la maglietta appoggiata alla sedia avvertì una fitta dolorosa sotto la pianta dei piedi rimasti scalzi. Si era ferito con dei vetri. Alzò lo sguardo. La finestra non c’era più. Gli infissi pendevano da un lato mentre i vetri erano sparsi ovunque. Tentò ancora una volta di togliersi i tappi, ma stava solo peggiorando la situazione perché sembravano scivolare sempre più verso l’orecchio interno. Calzò in fretta le scarpe e si avviò verso la porta di casa nella speranza di incontrare Fenner. Si sarebbe fatto spiegare da lui con calma quanto stava accadendo magari scrivendolo su un foglio. Ma non c’era nessuno. Il televisore giaceva rotto in due sul pavimento, e c’era un buco sul tetto tanto che si sentiva entrare il respiro della notte.
Uscì. Il cielo, prossimo all’alba, era ancora così nero da poter essere il fondo di un pozzo. A tratti però lame di luce fredda lo solcavano come fulmini alla rovescia.
Raggiunse la strada. Pavlo, il suo vicino ucraino, gli si accostò. Era in lacrime. In braccio aveva il suo cane orribilmente mutilato. Anche se non ricordava per la verità che avesse mai avuto un cane. Pavlo gli rivolse la parola, in modo concitato, indicando con tutte e due le braccia un qualcosa di là dalla collina. Ma non c’era niente in quella direzione: solo pilastri di luce intermittenti e ogni tanto uno spostamento d’aria tiepida sul viso che non era vento. Considerò che negli occhi di quell’uomo, intagliato con una scure come ben poche altre persone conosciute durante la sua lunga esistenza, si poteva riconoscere la paura di un bambino. Avrebbe voluto chiedergli dov’era la moglie e la piccola Olena. Ma anche se avesse risposto, pensò, non avrebbe capito neppure una parola e così si limitò ad annuire tristemente come manifestazione di solidarietà.
Rimase ben presto solo nella via.
C’erano alberi abbattuti, un’auto capovolta, uno strano odore di fuliggine misto a ruggine e melassa. L’aria era molto pungente di un non so cosa di chimico che pizzicava la gola e gli occhi. Tutte le persone conosciute del quartiere le aveva viste sfilare accanto di gran fretta e in modo disordinato; aveva visto i vecchi coniugi Crane con la governante Hope, la vedova Thorpe e quel buon annulla di Jimmy Root; mentre Gwenda aveva persino trovato il tempo di fare la valigia che ora faceva saltellare sul marciapiede.
Scendendo a piedi si fermò al Belvedere O’ Connor. La città sottostante pareva tranquilla non fosse stato per il fatto che era immersa in un buio assoluto, malato, come indotto a bell’apposta per poter nascondere chissà quale insidia. Non c’era una sola luce in tutta la valle se non quei lampi improvvisi che proprio non si capiva da dove provenissero.
Quel che era onnipresente era il silenzio irreale, paradossale anche se era ben consapevole che era dovuto solo ai tappi nelle sue orecchie. In qualche modo però l’assenza totale di ogni suono era il filo conduttore perfetto per quella sensazione di tragedia incombente.
Non riusciva tuttavia a essere agitato. Il non poter sentire non lo rendeva partecipe del panico generale. Era nella sua bolla ai margini del Nulla. Né d’altronde avrebbe saputo dove andare in vestaglia e ciabatte.
Pensò a suo figlio e al fatto che lui l’avesse lasciato lì da solo, alla sua età.
Fenner se la sarebbe cavata, però. Se la cavava sempre. Era diventato un uomo, del resto. E questo lo confortava.
Si sedette sulla panchina.
Cercò automaticamente il pacchetto delle sigarette nelle tasche, invece trovò il cellulare. Per abitudine compose il numero di lei. Poi desistette. Non avrebbe sentito nulla per via di quei maledetti tappi!
Non restava che aspettare, sospirò. Solo aspettare. Che qualcosa accadesse.

Priscilla


16 novembre 2028, h. 9.07

Oggi l’ho rivista. È proprio carina. Nella sua divisa celeste del TrandyMarket sta davvero bene. È forse un po’ piccolina, ma la linea del corpo è morbida e aggraziata; ha degli occhi azzurri profondi. Due laghi gelati d’alta montagna. Mentre parlava con una sua collega si è messa all’improvviso a sorridere ed è stato stupendo.

18 novembre 2028, h. 17.22

Priscilla, così l’ho chiamata perché non so il suo vero nome, oggi era al reparto cartoleria. Ha delle bellissime mani.

21 novembre 2028, h. 8.33

Mi sono nascosto dietro al carrello portapallet per vederla lavorare. Non c’era nessuno in quel momento nel reparto e ho potuto osservarla a lungo. Forse si è anche accorta di me perché si voltava ogni tanto nella mia direzione muovendo con eleganza i capelli a coda di cavallo fermati da un elastico rosa.
Sì, deve essere così: mi ha lasciato ammirarla mentre si muoveva sicura tra quaderni e fogli uso bollo. Poi è arrivata una sua collega, quella rossa con le lentiggini, alta alta e sgraziata, e sono scappato via.

23 novembre 2028, h. 17.10

Oggi mi ha parlato ed è stata una emozione fortissima che mi sembrava di soffocare. Stavo scegliendo dal frigo un yogurt alla ciliegia quando mi è arrivata all’improvviso alle spalle e mi ha chiesto “permesso” prima di riporre sullo scaffale interno una confezione di succhi di frutta. Me l’ha sussurrato in modo melodioso, guardandomi negli occhi. È stato un istante durato un tempo infinito.
Permesso”… che parola dolce e piena di significati reconditi!
Sapevo che era ancora al reparto cartoleria; l’avevo vista entrando nel market sicché non me lo sarei aspettato di vederla arrivare così agli alimentari. Evidentemente mi aveva notato anche lei e, avvicinandosi, ha voluto lanciarmi un segnale preciso… a questo punto mi sembra chiaro.

28 novembre 2028, h. 8.02

Mammina ora sta molto male.

1 dicembre 2028, h. 21.26

Mammina non c’è più. Quel brutto male me l’ha portata via, per sempre.
Ma su una cosa aveva ragione: è ora che mi faccia una famiglia. Che metta giudizio, come diceva lei. Non posso più vivere così, da solo, abbandonato a me stesso, per tutta la vita.
Mi devo fare coraggio con Priscilla.

4 dicembre 2018, h. 8.33

Ho avuto la conferma da Priscilla che le piaccio. Le ho chiesto dove potevo trovare le patate novelle e lei mi ha risposto con piglio professionale che non lo sapeva e che dovevo rivolgermi a un’altra collega. Mi ha sorriso dolcemente e mi ha guardato dritto dritto negli occhi un po’ più a lungo dell’altra volta in cui mi aveva chiesto solo “permesso“.
La voce era senza dubbio carica di sottintesi.
È deciso: la prossima volta l’aspetto che esca dal lavoro e mi faccio avanti.

5 dicembre 2018, h. 21.00

Ce l’ho fatta. Priscilla e io siamo finalmente insieme. Oggi, all’uscita dal lavoro non voleva salire sulla mia macchina. Ma io ho tanto insistito. Certo, ho dovuto tirarla dentro con forza e trattenerla, ma solo un poco; poi mi è sembrata contenta e tranquilla. Si è messa anche a piangere quando sono partito, io le ho detto però che non doveva preoccuparsi perché succede spesso quando i sentimenti sono più forti delle parole; che arriva prima o poi il momento in cui bisogna sapersi lasciar andare. Perché la vita è breve. E lei ha capito.
L’ho portata qui a casa per cominciare subito a formare una famiglia.
Ora siamo davvero una cosa sola, io e lei.
Gli occhi azzurri le sono rimasti per fortuna aperti ed è meravigliosa con la sua coda di cavallo.
Nel freezer a pozzetto ci sta tutta, temevo di no.
Per fortuna è così piccolina.

Routine

routineA una certa ora, sempre la stessa, qualunque cosa stesse facendo, la interrompeva e iniziava il ‘suo’ rito per prepararsi per la notte. Andava in bagno, prendeva il libro da leggere, saliva in soppalco, dove aveva ricavato una suggestiva e comoda stanzetta, e chiudeva la porta: poi raggiungeva nel buio la lampada del comodino e la accendeva mettendosi a letto.
Tutto avveniva pressoché sempre allo stesso modo, lentamente, in automatico, come scandito da un orologio interiore. Un privilegio acquisito con l’età, ma anche un modo per entrare in sintonia con il sonno che di lì a poco lo avrebbe traghettato sino allo soglie del mattino. E così fece anche quella sera.
Spense il televisore, si alzò dalla poltrona, andò in bagno, salì gli scalini di legno, che scricchiolavano lievemente in modo diverso l’uno dall’altro, ed entrò in camera; chiuse quindi al buio la porta e andò alla lampada del comodino. Ma non si accese.
Aveva previsto che un’eventualità simile potesse accadere, prima o poi, tant’è che aveva comprato una lampadina di riserva e l’aveva riposta nello stipetto del comodino. Si chinò, aprì l’anta e, anche se non vedeva nulla, afferrò la lampadina dove sapeva sarebbe stata e sostituì quella fulminata. Ma non si accese.
Controllò la spina: era inserita nella presa. Il problema è più serio, si disse facendo una smorfia. Odiava quei fastidiosi contrattempi. Che fare, adesso?
Fu tentato di mettersi a letto senza leggere, ma poi pensò che questo lo avrebbe messo di pessimo umore e decise di andare a cercare una torcia per accertarsi cosa fosse accaduto. Tornò alla porta. La maniglia non c’era più.
Tastò a lungo i pannelli individuando solo la toppa della serratura: la maniglia di sicuro non era lì. Com’era possibile? Si piegò per cercarla per terra anche se non l’aveva sentita cadere. Il buio era totale e la sensazione di disorientamento improvvisa si era fatta soffocante. E udì un bisbiglio.
Dapprima era debole, un fruscio di seta o uno stormire di frasche e, poi, sempre più forte, come se il lucernario si fosse spalancato e un pipistrello sgomento fosse entrato sbattendo di qua e di là contro i muri della stanza. No, no. Non era quel tipo di rumore. Piuttosto… ecco, sì… era qualcuno che lo chiamava: ora ne era certo; era proprio il suo nome e la voce veniva da lontano anche se, allo stesso tempo, gli pareva scaturisse come un rivolo da un punto preciso dentro la sua testa. Gli si ghiacciò il sangue. Il suono smise.
Provò a rialzarsi rimanendo per un po’ in ascolto, levando davanti a sé il dito indice come per ricordare da che punto della camera provenissero quelle parole. L’aria era divenuta nel frattempo rarefatta e un gusto amaro gli pervase la bocca mentre la gola si contrasse quasi avesse respirato aria acida.
Poi, dal buio appiccicoso e compatto, una mano gelida lo afferrò sulla schiena tirandolo a sé per la maglia della notte e un’altra l’agguantò per i capelli tirandoli con violenza. Erano due mani ossute, fredde, dotate di una forza spaventosa. Le sentì chiudersi di scatto sul suo corpo fragile come una morsa senza ritorno. Cercò di aggrapparsi al termosifone, perché a quella ‘cosa’, capì, non avrebbe potuto opporsi. Urlò senza poterne avvertire le vibrazioni; al loro posto, di nuovo, quella voce sommessa, ronzante, un nastro mandato all’incontrario: qualcuno che si stava nutrendo dell’oscurità e della sua paura lo voleva a sé chiamandolo in modo sommesso ma deciso; lo chiamava, ripetutamente, come per ricordargli chi era. Cominciò a sentirsi masticare anche se non provò alcun dolore. Quindi venne a poco a poco letteralmente inghiottito dal nulla come se un mostro avesse spalancato le fauci sotto di lui. E sparì, trascinato via, appena pochi secondi dopo.

Ciliegie nere

ciliegie«Glielo assicuro, dottore, mi hanno incastrato.»
«L’hanno incastrata…» ripeté meccanicamente il PM Sbarbaro guardando un punto imprecisato tra l’uomo seduto davanti a lui e la parete di fronte. L’avvocato, un uomo corpulento spremuto sottovuoto nel suo spigato che aveva bisogno di una urgente stirata, stava pensando a cosa dire di intelligente, ma non gli veniva in mente nulla. Un agente penitenziario si avvicinò senza far rumore e allungò un foglio dattiloscritto al PM. Lui lo lesse con calma, spostando sulla punta del naso i suoi improbabili occhiali dalla montatura rosa. Riemerse quindi dalla lettura e disse al detenuto:
«Prosegua, prosegua pure…»
«Vede, dottore, stando qui in cella, nelle ultime ore, ho potuto riflettere molto su quanto è successo e ho capito come ha fatto.»
«Come ha fatto, chi?» domandò il PM posando il foglio.
«Il maresciallo Roversi. Non può che essere lui l’amante di mia moglie ed è lui che ha architettato tutto questo. Marina, mia moglie, l’ha evidentemente lasciato, forse per un altro ancora, e lui, per vendetta, l’ha uccisa; e, per farla franca, ha pensato bene di coinvolgere me.»
«Sa per certo che Roversi era l’amante di sua moglie?» chiese il magistrato osservando la punta della stilografica come se avesse trovato un difetto.
«In verità no, ho ricollegato il tutto, dopo. Ma non può essere che lui. Adesso le spiego: mia moglie Marina, dopo cinque anni di matrimonio, all’improvviso, mi ha messo alla porta. Mi dice che non mi ama più, che pensava fossi diverso, si era sbagliata, e che tutto era finito. Sa, le solite cose che dicono le mogli per sbarazzarsi dei loro mariti divenuti ingombranti. E dopo cinque anni! E per giunta con un figlio di mezzo!»
«E cosa gli ha fatto pensare al maresciallo?»
«Quando ancora mi faceva vedere mio figlio ho notato in casa un calendario dei Carabinieri, che lei non ha modo di frequentare altrimenti, e, una volta, anche dei guanti sulla console del corridoio, sa quelli di ordinanza, con tanto di cifre, AR… e ogni tanto Marina, con noncuranza, mi chiedeva di lui; insomma a quel tempo non ci badai più di tanto. Poi, un giorno, Roversi, che conoscevo bene perché frequentava il mio ufficio in comune (ancora non sospettavo di lui), mi invitò alla sagra delle ciliegie di Collefili, dove mi fece consegnare una cassetta di ‘duroni’, sa, quelle ciliegie grosse e nere…»
«Le conosco bene, vada avanti…»
«Sì, certo, e con l’occasione facemmo due passi su per la collina. Mi disse che voleva andare via da Collefili e se potevo parlare con quel mio parente al Ministero. Siamo quindi arrivati, camminando, a un laghetto. Ha gettato nell’acqua un ramo e mi ha fatto sparare con la sua pistola: una cosa così, per divertirsi un po’. Alla sagra, peraltro, mi hanno visto decine di persone…»
«E poi?»
«E poi mio cugino è riuscito a farlo trasferire ad Alvona. Nel frattempo i miei rapporti con Marina sono peggiorati. Ho cercato di capire cosa le stesse succedendo. Diceva che era depressa per una dieta sbagliata che le aveva rovinato il metabolismo. Insomma era diventata isterica. Le consigliavo sempre di andare da uno specialista, ma lei si fidava solo delle sue amiche e non mi stava mai a sentire. Divenne intrattabile e smise di farmi vedere persino mio figlio. Ma io avevo già capito il perché: aveva un amante e voleva rifarsi una vita. Poi è arrivato il giorno del fatto.»
«È sicuro che vuole proseguire?» mormorò l’avvocato avvicinando il suo testone a quello del cliente.
«Certo che ne è sicuro!» fece il PM spazientito per quella interruzione.
«Rientrando a casa, quella dei miei genitori, che nel frattempo mi avevano ospitato, ho trovato un pacchettino a me indirizzato nella cassetta delle lettere» continuò il marito senza neppure voltarsi verso il legale. «L’ho aperto e dentro c’era della polvere scura e un biglietto con la grafia di mia moglie. Diceva testualmente: ‘Volevi tuo figlio? Eccotelo. L’ho bruciato e queste sono le sue ceneri’. Sono corso da mia moglie, impazzito dal dolore. Ultimamente mia moglie era così fuori di sé, come le ho detto, che avrebbe potuto persino fare una cosa tanto orribile. Dal momento che nessuno rispondeva al citofono, sono salito su al piano. La porta era aperta e… e…»
«E?» fece il PM che aveva assunto l’espressione come di chi ascolta una voce in lontananza.
«E ho visto mia moglie, sul pavimento della sala, in un lago di sangue. La testa, quasi non c’era più. Si era suicidata. Neppure mio figlio c’era. E ho chiamato voi. Oh, la mia povera Marina!»
«Solo che noi abbiamo trovato le sue impronte sull’arma del delitto e facendo lo stub, per la rilevazione dei residui da sparo sulle sue mani, abbiamo rinvenuto le relative tracce… E facendo due più due…» concluse il PM alzando un poco il naso come se avesse voluto vedere dentro a uno scatolone.
«È per questo che le dico che sono stato incastrato, dottore. Lo so, non mi crederà mai. Ma l’arma trovata accanto al corpo di mia moglie non può che essere quella che mi diede Roversi quel giorno in cui sparai al laghetto, a Collefili, lui l’ha fatto apposta; lo stub è risultato poi positivo perché la polvere che mi sono fatto cadere addosso, aprendo il pacchettino a casa mia, non era la cenere di mio figlio, ma polvere da sparo; capisce? Roversi si è fatto pure trasferire da me in modo da procurarsi per tempo un alibi: insomma, un piano congegnato nei minimi particolari, ma sono innocente» e l’uomo nascose il viso tra le mani come volesse piangere. L’avvocato gli mise un braccio sulla spalla per solidarietà. Era poco professionale, ma era un gesto che si sentiva di fare.
«Ha ragione, un piano ben congegnato. Per fortuna ci ha aiutato Caterina» fece il PM dopo aver fatto decantare per la tensione.
«Chi?» fece il marito alzando il viso e cambiando espressione.
«Caterina.»
«Non capisco.»
«Abbiamo sentito le amiche di sua moglie. Sa, le donne parlano poco con noi uomini, probabilmente perché non le ascoltiamo abbastanza. Ma si confidano molto tra di loro. È vero: è risultato che la vittima era molto angosciata per la propria salute. Non era però per motivi di dieta, come dice lei. Aveva un brutto male, sua moglie, al seno…»
«E perché non me l’ha mai detto?»
«Perché lei la picchiava e la maltrattava, la sua ‘povera’ Marina. Per i motivi più insignificanti, in verità, ma soprattutto per gelosia. Lei si era convinto che avesse un amante, il maresciallo Roversi, appunto, ma non era vero; erano solo conoscenti, perché lui è il fratello della sua più cara amica, come probabilmente le aveva detto: probabilmente non erano neppure amici; insomma la convivenza fra di voi era divenuta, come dire?, insopportabile e sua moglie, piuttosto che denunciarla, ha fatto una scelta coraggiosa, nonostante il figlio piccolo. E qui entra in gioco Caterina.»
«Già, Caterina…» fece l’avvocato che interrogava con un’espressione dubitativa il proprio cliente.
«Caterina era la donna di servizio di sua moglie» proseguì il PM che aveva letto sul viso del suo interlocutore uno stupore genuino. «Se si fosse occupato di più delle sue cose, forse ora lo ricorderebbe. La vittima si era lamentata anche con lei dei continui furti in casa e lei le aveva consigliato…»
«Ah sì, è vero, ora mi viene in mente, avevo consigliata di licenziarla… o di parlarne con le sue amatissime amiche, che sanno sempre tutto, loro…» interruppe con sarcasmo.
«Esatto, e sua moglie, perdurando i furti, così ha fatto: ne ha parlato con le sue amiche. Non è vero dunque che sua moglie non le desse mai retta.»
L’uomo si incupì.
«La vittima, in altre parole, non se l’era sentita di licenziare Caterina, dopo tanti anni che era a servizio, e comunque senza avere le prove dei furti. E allora l’abbiamo cercata per ogni dove, facendo fatica a trovarla: era nascosta davvero bene.»
«Nascosta, chi? Caterina?»
«Ma no, che dice? La webcam! Era sistemata propria in sala, dove abbiamo trovato il corpo di sua moglie. Era stata piazzata tra due statuine di ceramica sul trave del caminetto proprio per controllare la sua colf. Ha ripreso tutto: da quando lei è entrato all’improvviso in casa con la pistola in mano e sua moglie le ha chiesto: ‘e tu che ci fai qui?’. Devo continuare?»

La cascina di Malvino

Malvino aveva comprato da qualche mese quell’antica cascina ed era già riuscito a restaurarne buona parte. Il giardino era ancora simile a una giungla, ma avrebbe atteso la primavera per il lavoro più impegnativo; l’annesso fienile era invece del tutto impraticabile né sapeva che destinazione darne. I precedenti proprietari lo avevano usato prima come cantina e poi come legnaia. Insomma, ci avrebbe pensato su. Erano altre per ora le urgenze. Certo, il restauro lo affaticava molto, ma l’uomo era ugualmente soddisfatto: aveva sempre voluto ritirarsi in campagna, una volta in pensione, e il prezzo che gli avevano fatto per il corpo centrale, l’ampio giardino e il fienile, era stato davvero buono tanto da sembrargli un affare.
‘È costato poco perché ci sono i fantasmi’ gli avevano detto, malevoli, i vicini. ‘T’hanno buggerato’.
Ma Malvino ai fantasmi non credeva. Aveva paura solo dei vivi. Questa convinzione però non l’aiutò a dormire. Nel silenzio della campagna si sentivano, infatti, molto bene rumori indefinibili, che avrebbe definito sospetti e inquietanti. Una notte, non potendone più, decise di mettersi sotto la quercia davanti a casa e attendere, nascosto nell’erba alta, il vicino, giusto per farlo pentire per quello stupido scherzo. Si accorse però ben presto che il trambusto era concentrato in una parte sola della casa e proveniva più esattamente da dentro il fienile. Quella notte stessa entrò circospetto con torcia e randello, ma non riuscì a vedere niente: c’era troppa roba là dentro e mancava la luce elettrica. Decise che se erano topi li avrebbe fatti sloggiare con le buone o le cattive. La mattina seguente tirò fuori quanto accumulato da anni in quel posto. Assi, cassette, tini, legna, mobili sfasciati. Ciò che ritenne di non poter riutilizzare lo bruciò. Il locale, alla fine, con molta fatica, fu sgombro, anche dai topi. Quella sera si addormentò tranquillo, anche se a notte fonda fu svegliato di nuovo dagli stessi rumori. Sì, c’era indubbiamente qualcuno o qualcosa lì dentro, anche perché il grosso lucchetto che serrava ora la porta era ancora ben chiuso. L’uomo non si perse d’animo. Il giorno dopo installò una webcam in una spaccatura del muro del fienile, appena sopra la porta. Collegò un sensore di movimento e un microfono. Trascorse un’altra notte insonne, ma gongolava nel letto perché avrebbe scoperto ben presto di che mistero si trattasse. L’indomani, pieno di aspettative, accese il computer. Restò molto deluso però nel constatare che non era stato registrato nulla. Mandò avanti veloce il video e lo schermo rimase per tutto il tempo scuro. Si sentivano solo rumori, quelli sì, sotto forma di fruscii, piccoli crepitii, schiocchi, ma nient’altro. Stava per spegnere il pc quando di colpo lo schermo s’illuminò. Sobbalzò sulla sedia. Vide che nella parte alta dei muri del fienile, tutt’attorno, si erano accese nello stesso istante decine e decine di torce di fuoco a illuminare, a giorno, il locale in una scena da tregenda. ‘Ma cos’è?’ si chiese a voce alta.
«Io lo so!» si sentì dire. Malvino si girò spaventato. «Oh, mi scusi. Sono don Remo, il parroco del paese. La porta era aperta e… ma non volevo spaventarla.» Un giovane in abito talare, dal viso radioso, lo stava guardando sulla soglia. «Sono nuovo anch’io, sa? Sono arrivato in paese solo da qualche settimana. Non ho mai creduto a questa storia di fantasmi e ho fatto una ricerca negli archivi della Curia. Quello che vede nel video non è mai stato un fienile. È piuttosto una cappella del Cinquecento. E non è mai stata sconsacrata.»