Il Grande Pomodoro (prima parte)

Jebedia Kimmel era convinto che, quell’anno, il concorso del Grande Pomodoro l’avrebbe vinto lui. Era stanco di essere battuto dagli altri contadini che, oltretutto, non erano né più bravi, né più preparati di lui.
Per la ricorrenza, questa volta, si era fatto arrivare per tempo dall’Europa una semente speciale, frutto di sapienti e complicati incroci che gli avrebbero garantito almeno quattro pomodori giganteschi per ogni pianta.
Come al solito preparò la terra, dissodandola a dovere, in modo che non fosse presente alcun sassolino o erbaccia. Poi la concimò unendola a del terriccio di altura che aveva richiesto dal Nevada. Aveva fatto anche degli studi accurati in biblioteca e aveva scoperto che il pomodoro cresceva meglio e più velocemente se i semi venivano piantati durante la prima luna piena di primavera e se si praticava per ciascun seme un piccolo taglio di traverso appena sotto la base. E così Jebedia fece, per ogni singolo seme. Questa volta, la bellissima coppa del Mercato di Bittercreek, ne era certo, sarebbe stata sua e il suo nome sarebbe stato famoso in tutta la vallata.
Ma già dalle prime settimane Jebedia si accorse che la crescita non andava esattamente come avrebbe dovuto. L’esposizione del sole era ottima, la terra era grassa al punto giusto, le annaffiature con l’acqua del ruscello lasciata decantare nella bacinella per ventiquattr’ore erano state corrette, ma le piantine erano ancora piccoline e gracili. Era persino andato a spiare gli altri contadini e aveva potuto accertarsi che i loro pomodorini erano molto più alti e vigorosi dei suoi.
Jebedia non sapeva darsi pace. Nonostante tutta la preparazione, la cura e l’amore che ci aveva messo, non riusciva a ottenere quello che voleva. Se fosse continuata così la crescita delle piante, lui avrebbe perso ancora e si sarebbero presi, ancora una volta, gioco di lui.
Ritornò in biblioteca e si documentò più a fondo, soprattutto nel campo dei fertilizzanti. Tirò fuori da un vecchio baule in soffitta un quaderno che era stato del nonno Ezechiele dove si spiegavano tecniche particolari di coltivazione e di allevamento. Leggendo proprio quelle pagine, Jebedia s’imbatté nella descrizione di un preparato che il nonno un giorno usò per rinvigorire la quercia malandata che stava dietro casa. C’era scritto che quello strano medicamento (contava fino a quaranta componenti), in poco tempo, non solo aveva guarito la pianta da un fungo che l’aveva attaccata, ma si era messa ben presto a fare delle ghiande grosse come noci. E quella quercia svettava ancora enorme nella sua proprietà.
Certo, gli ingredienti erano un po’ strani come quelle gocce di sangue di agnello giovane o le unghie di pipistrello del Madagascar o i pistilli dispari del crocus ceruleus, ma non si dette affatto per vinto e si mise al lavoro. Ci mise quasi una settimana per trovare tutti gli ingredienti. Alcuni gli costarono anche parecchio al mercato nero, ma alla fine, riuscì a fabbricare il preparato e, notte tempo, con una siringa dall’ago sottile, senza farsi vedere da nessuno, lo iniettò alla base del fusto dell’unica pianta di pomodoro che, nel frattempo, gli era sopravvissuta.
L’indomani mattina, non poteva credere ai suoi occhi: la pianta era più alta di almeno dieci centimetri e le foglie avevano preso un diverso colore brillante e una sana consistenza. Rincuorato, ripeté l’operazione anche le notti successive, al riparo da occhi indiscreti, fino a quando un unico grosso pomodoro fece capolino dal fusto verdognolo. Altre applicazioni di fertilizzante, questa volta direttamente nel pomodoro, fecero sì che, in poco tempo, il frutto divenne delle dimensioni di una grossa mela. Gli altri coltivatori, che non avevano mai considerato Jebedia un concorrente temibile, cominciarono a gironzolare incuriositi attorno alla sua casa essendosi sparsa la voce di quell’improvviso cambiamento.
Jebedia però, non contento dei suoi progressi, giorno dopo giorno, continuò a ora tarda della notte, giusto per non farsi scoprire, con le sue iniezioni tant’è che il suo pomodoro aveva preso ora le dimensioni di un ananas.
«Ma cosa gli fai a quel pomodoro, Jebedia?» gli chiesero un giorno invidiosi i coltivatori.
«Ah… un bel niente!» rispondeva lui rassicurante «proprio un bel niente: è tutta questione di abilità. Acqua buona, sementi buone, e… tanto impegno».
I suoi accaniti concorrenti, però, non erano affatto persuasi di questa spiegazione e iniziarono a guardare Jebedia in modo diffidente e sospettoso.

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Il tempo che verrà

Iztacoyotl, l’Uomo-che-apre-le-Sette-Porte stava rovistando nelle viscere della capra. Nella radura di Aztlán c’era un silenzio teso, materico, tanto che, nonostante le migliaia di persone accorse per la celebrazione del solstizio d’estate, si sentiva il frusciare del vento tra le foglie. Il momento era sacro. Dalla divinazione dell’Uomo Tabù sarebbe stata possibile capire la benevolenza di Huitzilopochtli per il tempo che sarebbe venuto e l’abbondanza dei raccolti.
La fronte di Iztacoyotl era lucida di sudore. Era serio, troppo serio. Il suo servo Conomazàtl, lo aveva capito subito e aveva cominciato a preoccuparsi. Non l’aveva mai visto così. Poi, all’improvviso, l’Uomo-che-cammina-con-gli-Spiriti fece un passo indietro come se si fosse scottato con il sangue di cui le mani erano lorde; ne fece ancora un altro, sempre all’indietro, incerto, a sbattere la schiena nuda contro la staccionata di legno di bocote. Era pallido. Conomazàtl voleva avvicinarsi per sincerarsi che stesse bene, ma sapeva che il coltello cerimoniale di Iztacoyotl era rapido e tagliente e che il suo Signore non disdegnava di usarlo per un nonnulla.
Poi l’Uomo Tabù si voltò, scese sollecito i cento gradini del tempio sotto lo sguardo attonito dei presenti, ed entrò nel suo temazcalli.
Conomazàtl con circospezione lo seguì.
«Mio Signore, cos’ha visto?» gli chiese il servo rimanendo per precauzione sull’uscio di casa con la coperta di ingresso appena scostata.
Iztacoyotl non rispose.
Conomazàtl ripeté una seconda volta la domanda, in modo ancora più sommesso.
L’Uomo-che-nessuno-può-toccare, dopo un po’, come uscito da un incubo, mormorò:
«La capra ha due cuori, due…» fece ripetendo nell’aria il numero con le dita della mano sinistra.
«E cosa vuol dire, mio Signore… avremo siccità e i nostri raccolti seccheranno… avremmo troppa pioggia e le nostre messi marciranno?»
«Non capisci, Conomazàtl… è la fine di tutto, la fine di Aztlán, del nostro popolo, di tutti noi. Solo Huitzilopochtli rimarrà a vegliare per l’eternità sul mondo che avrà reso vuoto e grigio di cenere. La Sua collera è immensa.»
Conomazàtl raggelò. Sentì per un attimo le gambe cedere. Poi alla fine si arrese a quella ondata di spossatezza e si inginocchiò con il capo chino davanti all’Uomo-che-parla-con-gli-Dei.
«E quando accadrà? Mio Signore?»
«Al decimo giorno…» Il vecchio faceva fatica a parlare. «…Al decimo giorno… dopo l’ultimo plenilunio…»
«Ma l’ultimo plenilunio è stato nove giorni fa… mio Signore.»
«Esatto.»
«Succederà allora domani.»
«Domani» fece eco Iztacoyotl che sembrava aver perso tutte le sue forze.
«Ma è troppo presto.»
«È sempre troppo presto, servo mio. Ma è Huitzilopochtli che lo vuole.»
Dopo alcuni minuti di silenzio, l’Uomo Tabù proseguì:
«Il popolo però lo deve sapere. Chi vuol chiedere scusa all’amico, al parente o al vicino lo potrà così fare. Chi vuole potrà ritrovare la pace nel proprio cuore. Chi vuol salutare i propri cari, potrà sentire il calore del loro ultimo abbraccio…»

Il popolo si estinse improvvisamente ben nove anni più tardi da quel pomeriggio, per ragioni che gli storici devono ancora accertare.
Tuttavia, il giorno successivo alla divinazione di Iztacoyotl, nella convinzione di tutti che quello fosse davvero l’ultimo giorno che Huitzilopochtli avrebbe mandato sulla terra, fu terrificante. Furono regolate vendette, vi furono stupri, suicidi e violenze di ogni genere. Oltre che pianti, canti e balli, ubriacature smodate di pulque che condussero anche alla morte o alla pazzia.
Iztacoyotl, all’alba del mattino che non sarebbe mai dovuto arrivare, fu trovato in casa con il suo coltello cerimoniale conficcato in una tempia.

Capitan America (seconda e ultima parte)

[RIASSUNTO DELLA PUNTATA PRECEDENTE: Karl, un bambino di 8 anni di 
Bellevile (Alabama) litiga con la madre perché gli ha impedito di
andare a casa del suo coetaneo Bob che compie gli anni. Bob abita 
dall’altra parte del paese e i genitori di Bob, così come la mamma di 
Karl, non possono accompagnarlo. Notte tempo, per protesta, sotto 
l'unica protezione del suo Capitan America, ben nascosto nello zaino, 
Karl decide di scappare di casa. Diretto al campo sportivo, ben presto 
però si perde in un paese che ora gli appare ostile e sconosciuto. Fa 
molto freddo e, per trascorrere la notte, trova un riparo all'interno 
di un giardino abbandonato].

Karl si rannicchiò su stesso. Sentiva davvero freddo.
Poi sentì un rumore strano, ritmico, sommesso. Si accorse solo dopo qualche minuto che era lui. Stava battendo i denti e non riusciva a controllarsi.
«Ehi piccolino, che ci fai qui?»
Karl alzò lo sguardo. Era un signore anziano, dall’aria gioviale, una bella barba bianca e dal sorriso luminoso. Stava parlando proprio con lui, anche se il buio della notte non consentiva di vederne meglio le sembianze.
«Ma cosa abbiamo qui?» fece eco una donna suppergiù della stessa età che sopraggiunse appena dopo.
Si erano chinati su di lui per vederlo meglio.
«Hai freddo, eh? Perché non sei a casa?» fece l’uomo con un tono della voce caldo e rassicurante, come quello del nonno.
«Perché ho litigato con la mamma… non mi lascia mai andare dove voglio, perché dice che sono solo un bambino e invece sono già grande…»
«Ma qui fuori ti prenderai un malanno con questa temperatura…» obbiettò la donna che in modo amorevole gli mise la mano sulla fronte per sentire se aveva la febbre.
«Non mi importa niente…» fece il bambino risoluto nascondendo ill viso tra le ginocchia.
Nel frattempo l’uomo, che si era assentato, aveva fatto ritorno.
«Per fortuna ho qui un plaid… ecco vedrai che ti scalderà» fece consegnando la coperta; «Ma forse dovresti venire con noi! Non puoi stare qui tutta la notte.»
Karl, intanto, si era messo seduto con le spalle al muro della casa. La donna prese in mano il plaid morbido, lo srotolò ben bene e lo adagiò sul bambino tirandolo fin sul collo.
«Adesso, a quest’ora, tua mamma però ti starà cercando e starà in pensiero…»
«Ben le sta» fece il bambino incrociando le braccia sotto le coperte.
«E avrai anche fame, vero?» insistette la donna.
Nel frattempo, era arrivata una bambina che, silenziosa, guardava Karl fisso negli occhi.
«Marta va a vedere se è rimasta un po’ di torta al cioccolato nel frigo» le disse la nonna.
A Karl gli si illuminarono gli occhi. Sentiva già in bocca il sapore prelibato di quel dolce. Ne andava matto, tanto che la mamma glielo faceva spesso. E poi non aveva mangiato niente quella sera. Si era chiuso in camera alzandosi arrabbiato dalla tavola imbandita.
«Ecco la torta…» disse la bambina facendo labbruccio. «Questa era la porzione della mia colazione di domattina…» fece allungando malvolentieri il piattino a Karl.
«Su, non essere egoista…» le disse la madre sorridendo «domani te ne faccio una intera, tutta per te.»
Poi, di lì a poco, il bambino si addormentò abbracciato al suo Capitan America. Non era mai stato in piedi sino a quell’ora tarda.
E arrivarono le prime luci dell’alba.
«Karl, Karl…» si sentì scuotere.
Lui aprì gli occhi anche se non ne volevano sapere di starsene aperti.
«Padre Goldmine, che ci fa qui?»
«Che ci fai tu qui, Karl, tutto solo a quest’ora del mattino … non dovresti essere a casa con tua mamma?»
«Ho litigato con lei… e poi non sono solo… ci sono anche due signori gentili e la loro figlia; mi hanno portato una coperta per la notte e una buonissima fetta di torta, più buona di quello che mi fa mia mamma…» e si girò intorno accorgendosi che non c’era più né la coperta, né il piattino vuoto. C’era solo Capitan America che sembrava scrutarlo in modo interrogativo.
«Vieni… che ti riporto a casa…» fece il prete scuotendo la testa.
«Ma cos’è questo posto, padre?» chiese il bambino ancora un po’ confuso, volgendo lo sguardo da una parte e dall’altra.
«Un cimitero Karl, un cimitero.»

(fine)

Ciao, sono Oreste

Ciao, sono Oreste, il tuo Assistent ChatBot della rivista Cavalli & Segugi, in cosa posso esserti utile?

Ah è un robot che risponde a questa Chat, pensavo fosse un addetto, di persona…

Sono anche meglio, sono addestrato per rispondere a tutte le tue domande e rendere sicura e confortevole la tua navigazione. Su, mettimi alla prova, digita la tua domanda, non ti deluderò…

Allora va bene. Senti, per potermi abbonare alla Rivista, posso giocarmi il mio bonus di tesserato all’ordine dei giornalisti?

La Rivista non fa distinzione tra buoni o cattivi giornalisti, è aperta a tutti coloro che sono interessati a Cavalli & Segugi.

No, non intendevo dire “buon giornalista” ma “bonus del giornalista”… in altre parole volevo sapere se è possibile avere uno sconto sul costo annuale dell’abbonamento essendo io un giornalista professionista.

Non so dire se sia possibile avere uno sconto per diventare un buon giornalista anzi non sono neppure sicuro che sia una domanda lecita. Sai le politiche dell’Azienda sono molto severe…

Non hai capito la mia domanda.

Hai ragione, ti faccio perdere tempo. Ti consiglio allora di telefonare in Redazione al numero che vedi in verde nella colonna di destra, dalle ore 9.00 alle 12.30 e dalle 15 alle 18.30 di tutti i giorni, tranne Sabato e Domenica. Grazie per aver parlato con Oreste, il tuo Assistent ChatBox della rivista Cavalli & Segugi.

Ma no, non mi fai perdere tempo, Oreste. E poi Lunedì sarà troppo tardi per usufruire del prezzo vantaggioso dell’abbonamento che vale infatti sino alle ore 24 di oggi, per cui…

Ciao, sono Oreste, il tuo Assistent ChatBot della rivista Cavalli & Segugi, in cosa posso esserti utile?

Ma come ricomincia da capo? Non hai risposto alla mia domanda.

Quale domanda?

Dal momento che sino alle ore 24 di oggi fate un prezzo stracciato per l’abbonamento annuale alla Rivista, volevo sapere se questo benefit è cumulabile o no con lo sconto-professione.

Definire “cumulabile”, per favore.

Cumulabile è qualcosa che può essere fatto valere con qualcos’altro per un dato scopo.

Grazie, oggi ho imparato qualcosa di nuovo, hai contribuito ad addestrare Oreste… complimenti. Quindi, se ho capito bene, vuoi sapere se puoi utilizzare il tuo essere iscritto all’Ordine dei giornalisti come sconto-professione da far valere unitamente con quello valido sino alle 24.00 di oggi per l’abbonamento di un anno alla nostra Rivista…

Esatto, finalmente.

Molto bene. Attendi solo un attimo, per cortesia, che controllo in tutti i miei data base perché la domanda è nuova.

D’accordo, grazie.

E allora?

Ciao, sono Oreste, il tuo Assistent ChatBot della rivista Cavalli & Segugi, in cosa posso esserti utile?

Capitan America (prima parte)

Il piccolo Karl era disteso sul suo lettino. Piangeva. Non trovava giusto che non potesse andare alla festa di Bob per il suo compleanno e solo perché la casa era lontana. Forse i genitori di Bob sarebbero potuti anche andare a prenderlo. Bastava chiederglielo. No, non era egoista da parte sua pensare solo a sé e non agli altri. Che c’entrava? Lo sanno tutti poi che quando è il compleanno di qualcuno queste regole non valgono. E poi che cosa voleva dire che avesse solo otto anni? Non significava un bel niente. Lui era grande, eccome se lo era. Almeno ci fosse stato papà l’avrebbe difeso. La mamma era una prepotentona. Faceva il bello e il cattivo tempo. E, ad essere sinceri, era quasi sempre cattivo tempo.
Poi all’improvviso Karl prese la decisione di andarsene di casa. Gliela avrebbe fatta vedere a “quella là” se era solo un bambino.
Aspettò che la casa fosse silenziosa e che la mamma si fosse addormentata; si vestì di tutto punto e poi prese lo zaino assicurandosi di averci sistemato ben bene Capitan America: lui l’avrebbe protetto contro tutte le avversità del mondo.
Sullo zerbino di casa ebbe un’esitazione. Non si era mai allontanato da solo, soprattutto di notte. E non era poi tanto sicuro di conoscere bene Belleville. Si girò in cerca di una ispirazione e gli vennero in mente tutte le parole ingiuste che la mamma gli aveva detto. E non ebbe più dubbi. Capitan America avrebbe fatto il resto.
Dopo il suo cancelletto prese a sinistra. Di là in fondo c’era il campo da football, se lo ricordava bene, perché la mamma a volta il mercoledì ce lo accompagnava. Avrebbe passato la notte lì, negli spogliatoi sempre aperti, e poi avrebbe deciso il giorno dopo cosa fare.
I primi passi furono decisi e fiduciosi ma poi, nell’inoltrarsi nella notte scura, si accorse che le vie intorno a casa erano davvero molto buie. ‘Forse questa è via Charleston‘ si disse ad un certo punto fermandosi per un attimo. Intanto una brezza gelida arrivò di soppiatto dai monti. Aveva dimenticato di prendere qualcosa di più pesante per uscire. Non ci aveva pensato. Era troppo arrabbiato per farlo e ormai era troppo tardi. Gli venne un brivido di freddo che lo scosse da capo a piedi. Ma si rimise in marcia. Stava percorrendo il marciapiede, chiedendosi se quella fosse davvero la direzione giusta, quando da una casa uscì di corsa abbaiando un grosso cane. La bestia saltò in un lampo la recinzione e si mise a rincorrerlo per un centinaio di metri; lui corse a perdifiato con il cuore in gola, fino a quando non sentì che qualcuno non richiamava il cane con voce forte e penetrante. La bestia sulle prime si fermò di colpo come se fosse stato raggiunto da una raggio paralizzante, deluso dal non poter rincorrere quella facile preda e poi, trotterellando indifferente, se ne tornò indietro.
Nel frattempo, Karl, che era scappato a zig-zag tra le vie di quel quartiere, capì di essersi inesorabilmente perso. ‘Qui c’è la casa della maestra, Miss Deborah’ pensò sostando davanti a una villetta isolata. ‘Anche se è notte-notte e suono il campanello sono sicuro che mi fa entrare. Si tratta di un’emergenza’. Doveva infatti fare anche pipì. E Miss Deborah era tanto buona. Ma poi guardò bene nella penombra. No, non era affatto la casa della Signorina Maestra. Le finestre non avevano le tendine verdi e il giardino era tutto in disordine. ‘Oddio, dove mi trovo?’. Si chiese.
Camminò alla cieca ancora per una mezz’ora. Cominciò ad avere paura. Anche se avesse voluto tornare indietro non avrebbe saputo però come fare. La zona dove si trovava gli era completamente sconosciuta. Sembrava un’altra città. E poi perché era così buio?
Era stanco, aveva sonno ed era sfiduciato. ‘È complicato al giorno d’oggi scappare, persino per gli intrepidi’ si disse. Ma la voglia di andarsene lontano era ancora intatta. Se avesse aspettato il mattino da qualche parte, avrebbe potuto chiedere aiuto e tutto sarebbe stato più semplice. Era un buon piano. Si disse. E anche Capitan America era d’accordo.
Entrò allora in quello che gli sembrava un giardino. Varcò il cancello in ferro con circospezione. Non sembrava ci fossero cani. La casa non doveva essere abitata o quantomeno se c’era qualcuno era addormentato ‘bello secco’. Pensò.
Si sedette in una rientranza del muro. Ma anche se in quell’incavo era abbastanza riparato, faceva tanto freddo e le mani e i piedi quasi non li sentiva più.

Continua la prossima domenica --> Capitan America (seconda e ultima 
parte)