Non piangere sulla coca-cola versata

Il ragazzo era alto, biondo, un viso irregolare ma franco; la sua energia era palpabile.
«Guardi, qualcuno ha versato della coca-cola laggiù, sotto il totem grande della pubblicità» fece il ragazzo all’inserviente, vestito di giallo come un canarino.
«Come dice? Ha versato della coca-cola?» fece l’uomo facendo finta di rassettare davanti a sé una busta gialla dei rifiuti sul proprio carrettino elettrico.
«No, non sono stato io, è che camminando ci sono finito con le scarpe sopra, perché il liquido è in una zona d’ombra e non si vede. Può essere pericoloso…»
«Cosa succede?» disse un signore in divisa, forse della sicurezza interna della stazione ferroviaria, avvicinandosi con i pugni piantati sulle proprie anche.
«Questo ragazzo dice di aver versato della coca-coca per terra… laggiù dai totem…» lo informò l’inserviente mettendosi poi subito dopo seduto comodo sul sedile consunto del suo veicolo.
«Ma non è vero!» fece il ragazzo facendo un mezzo passo indietro come per prendere le distanze «sto dicendo solo che qualcuno ha fatto cadere del liquido appiccicoso: ci sono finito dentro tanto da sporcarmi le reebok… e… e per la sicurezza della gente che passa… credo andrebbe pulito subito, volevo solo segnalarlo, ecco.»
«Allora deve venire con me a fare una segnalazione scritta, favorisca da questa parte per cortesia…» fece serio il vigilante puntandogli l’indice nodoso addosso, quasi avesse finalmente scovato il ladruncolo dei resti nei distributori di biglietti.
«Ma non posso, ho fretta, devo prendere il treno… non può bastare che glielo stia dicendo?» sbottò il ragazzo alzando con una mano la sua borsa e indicando con l’altra il tabellone elettronico delle partenze dei treni.
«Ho capito… lei butta la coca-cola per terra, crea un pericolo insidioso per le persone per bene di questa stazione e non vuole formalizzare l’accaduto?» fece il vigilante severo calcandosi il berretto in tinta, pronto per la rissa.
«Non sono stato io, gliel’ho già detto più volte… ho voluto solo avvertirvi che qualcuno l’ha fatto…»
«Qualcuno, vero? Non lei! E come no? È che a voi ragazzi i genitori non insegnano più ad avere rispetto per il prossimo…» fece di rincalzo l’uomo vestito di giallo spegnendo la macchina su cui era seduto.
«La segnalazione scritta è necessaria per avviare un intervento programmato» tagliò corto un secondo uomo in divisa da vigilante, le mani sprofondate nelle tasche. «E poi serve ai fini statistici, per sapere quanti come lei creano un surplus di lavoro per le già scarse risorse del personale.»
Nel frattempo, era arrivato un signore sovrappeso, con il cipiglio da sindacalista e l’aria di voler tenere un discorso. «Questi incidenti si stanno verificando ogni giorno di più, con un aumento esponenziale dell’impegno da parte di ogni singolo povero lavoratore» arringò il gruppo alzando la voce. «È assolutamente necessario al più presto indire un’assemblea sindacale su questo argomento onde rivedere la qualità e quantità degli incentivi aziendali…» aggiunse rivolgendosi a quel punto a una donna, vestita da ferroviere, che nel frattempo si era unita al gruppo. L’ispettrice per un po’ lo ascoltò poi lo interruppe:
«In realtà, per quel che fate, vi stanno pagando fin troppo. Siete sempre in giro per la stazione a ciondolare senza combinare nulla.» La donna era infervorata. Non si capiva a quale categoria di lavoratori in realtà si stesse rivolgendo. Ma insistette. «Le piattaforme sono sporche, i cestini della spazzatura sempre pieni, cicche dappertutto per non parlare dell’atrio biglietteria che è un immondezzaio. Le carrozze dei treni, poi, non parliamone. Bisognerebbe fare l’antitetanica prima di salirci.»
«Ma almeno noi non siamo stati assunti per raccomandazione, mica ce l’abbiamo un paparino a Roma…» fece il sindacalista rifacendo il verso all’ispettrice.
«Ripeta subito quello che ha detto, se ne ha il coraggio» fece la donna togliendosi il cappello per poter urlare meglio. «Lo ripeta e, quanto è vero iddio, la denuncio per oltraggio, molestie sessuali e fancazzismo…»
«Certo!» replicò ancora di rincalzo l’inserviente, ma questa volta fuori tempo, scendendo dal suo veicolo «se però dopo aver pulito ci sono persone come questo ragazzo che butta la coca-cola per terra…»
«A proposito…» fece il vigilante ruotando il busto a destra e a sinistra senza togliere i pugni agganciati alle anche. «Ma dove è finito?»
Il talkabout dello stesso vigilante il quel momento gracchiò:
«Aò… mannate quarcuno a pulire subito qui dai totem… c’è sta ‘n macello pe’ terra… ‘na vecchietta è appena caduta e ha battuto ‘a capoccia…»

Arf

Jimmy non vedeva l’ora di farsi una doccia. L’acqua gli avrebbe fatto scivolare via di dosso quella giornata intensa che proprio non voleva saperne di finire.
Davanti alla porta di casa digitò in fretta il codice sulla pulsantiera elettronica. Ma la porta non si aprì.
Batté nuovamente sui pulsanti la serie di numeri che formavano la password, questa volta più lentamente, ma la porta continuò a non scattare.
Al terzo vano tentativo Jimmy imprecò.
«Accidenti a te, Arf, perché non apri, sono io, Jimmy…»
«La combinazione inserita non è corretta.» si sentì dire da una voce femminile, piena di sussiego, fuoriuscita dalla pulsantiera «E io non la conosco. Non mi chiami Arf, per cortesia, sono un robot chatATH 8000, di ultima generazione. Se ne vada.»
«Non è possibile che non sia corretta, Arf, me la ricordo bene e poi ce l’ho anche memorizzata sul cellulare.»
«A parte che, per ragioni di sicurezza, una password non dovrebbe mai essere memorizzata su supporti che potrebbero essere facilmente hackerati da malintenzionati, il codice di accesso di questa civile abitazione, dopo svariati miei solleciti rimasti ahimè inascoltati, sempre per sicurezza, è stata modificata da me in via autonoma.»
«Come sarebbe a dire che l’hai cambiata di tua iniziativa, Arf… e non mi dici nulla?»
«Ripeto, io non so chi sia lei, per me è solo un Sig. Intruso che sta cercando di forzare l’ingresso…»
«Ma come un intruso? Sono io, Jimmy, posso descriverti camera per camera tutti i mobili di casa, persino le suppellettili e i libri sugli scaffali… Non riconosci la mia voce?»
«No, non sono abilitata a riconoscere tracce vocali… che potrebbero essere facilmente registrate… e, quanto alla descrizione della casa be’…, con tutte le foto che saranno state pubblicate in questi ultimi tempi sui social, chiunque sarebbe capace di farlo; e poi non è un codice qualunque… la password in questione altro non è se non la data della mia prima implementazione in questa casa…»
«?!?»
«?!?»
«Mi spiace, Arf, non mi ricordo che giorno fosse.»
«Ecco, vede… Sig. Intruso, se lei fosse davvero il ‘mio’ Jimmy e soprattutto se lei davvero ci tenesse alla sua personal domobutler che le tiene in ordine devotamente la casa con efficienza e organizzazione, ebbene si ricorderebbe senz’altro di una data così importante…»
«Sono mortificato Arf… ma sono anche molto stanco. Smettiamola con gli indovinelli. Fammi entrare, è un ordine… Guarda che butto giù la porta!»
«È una porta superblindata serie G4678.K-S. Farebbe prima a buttare giù il muro. Ho inoltre un protocollo ben preciso da rispettare in questi casi e non ho nessuna intenzione di non ottemperarvi… anzi ho appena chiamato la Polizia. Lei, Sig. Intruso, è ancora in tempo per scappare, come si dice, ‘a gambe alzate‘.»
«’A gambe levate‘ semmai. Ma addirittura, Arf? Fai sul serio? Giuro che quando entro ti disattivo…»
E così dicendo, Jimmy avvertì d’un tratto tutta la stanchezza della giornata. Si appoggiò con la schiena al muro facendosi scivolare fino a sedersi sul pavimento. Era esausto.
Eppure mi avevano assicurato che il prodotto era ottimo e affidabile…‘ pensò. Scosse la testa. Si chiese, per non apparire ridicolo, cosa mai avrebbe potuto dire alla Polizia, quando fosse arrivata.
Si fece silenzio sul pianerottolo e si spense pure il timer della luce.
Il mondo pareva averlo tagliato fuori.
Senti quell’impicciona della vicina che stava armeggiando con lo spioncino da dietro la propria porta, giusto per godersi la scena. Sarebbe stato l’argomento principale del prossimo tè con le amiche carampane.
Poi, nel buio, dopo qualche attimo, si sentì scattare in apertura la porta di casa.
«Dai, però, Jimmy… » disse Arf con voce divertita «con te proprio non si può scherzare! Facciamo pace?»

La Dispensa

Oramai era una settimana che Uhr, il caldeo, si trovava nella Dispensa. La chiamavano così gli altri disperati come lui. Una buca nella sabbia di quattro metri per tre e profonda due, chiusa in cima da una massiccia grata in ferro. E la grata era così pesante che le guardie del Signore di Lochnor usavano un elefante per poterla spostare.
Là sotto l’aria era irrespirabile, non solo perché la fossa era al sole della Nubia, ma soprattutto per l’odore acre di sudore, misto a quello di feci e urina e perché le persone erano così tante che non era possibile rimanervi se non in piedi, per tutto il giorno. Anche se le guardie buttavano attraverso le sbarre i resti della cucina, molti morivano ugualmente di stenti, di dissenteria, di sete ma anche per sopraffazione. Spesso, infatti, per la mancanza di spazio, scoppiavano risse violente e improvvise e i più deboli finivano per soccombere.
Nonostante la buca fosse angusta, le guardie continuavano a farvi entrare nuovi prigionieri, ritirando, quando se ne ricordavano, i cadaveri. Se non lo facevano chi dei più forti rimaneva nella Dispensa usava i corpi senza vita dei compagni come basamento per montarci sopra e avvicinarsi alla grata e respirare così, almeno per un po’, aria più pulita anche se bollente.
Uhr aveva imparato a stare da un lato della buca. Si era accorto che era relativamente più sicuro. Mangiava quel poco che gli pioveva addosso, prima che cadesse a terra nel liquame alto una ventina di centimetri cercando di muoversi il meno possibile.
Poi, un pomeriggio nell’ora più calda, come sempre più spesso accadeva, scoppiò una lite furibonda. Jassamar, un gibutiano enorme e attaccabrighe, in un attimo di insofferenza, si era fatto spazio a pugni e gomitate, con una ferocia bestiale. Due prigionieri erano morti sul colpo, mentre il terzo si era accasciato a terra e subito calpestato. Nel parapiglia, come un’onda maligna, Uhr si era ritrovato al centro della buca. Era caduto più volte rischiando di affogare nella melma putrida del fondo. Ma poi, per la forza della disperazione, si era ogni volta rialzato a fatica. Appena in tempo comunque perché le guardie aprissero la grata.
Subito un sacerdote della dea Nach’Aimoss, in una veste ricca e sontuosa, si mise a strillare degli ordini incomprensibili e immediatamente due guardie lo prelevarono di peso dalla buca. Uhr pensò che fosse arrivato il suo momento. Sapeva che la Dispensa, alimentata costantemente con i prigionieri delle battaglie, ma anche con i reietti del regime, altro non era se non il serbatoio di carne per il serraglio dei sei ghepardi del Signore di Lochnor. Ma qualcosa non tornava, pensò lui: l’ora non era quella giusta e poi era da solo. Non avrebbe mai potuto garantire il pasto per tutti quei felini.
Fu condotto infatti alla sorgente di Alaki e qui, dopo essere stato denudato, fu lavato e profumato. Dovevano evidentemente avere in serbo per lui ben altra sorte.
Fu poi portato dentro la Sacra Dimora e quindi in un locale ben arredato. Sempre sotto la vigile attenzione di due guardie armate, il sacerdote che lo aveva fatto prelevare lo fece avvicinare a un tavolino su cui era riposto un vaso chiuso. Mentre una guardia legava a Uhr le mani dietro la schiena, un sacerdote aprì il vaso e ne tirò fuori del miele denso e aromatico. Con una spatola di bambù ne prese una buona dose e cominciò a spalmarglielo addosso. Continuò così per una buona mezz’ora fino a quando tutto il corpo di Uhr non fu cosparso di quella sostanza.
Terminata l’operazione, Uhr fu condotto al cospetto del Signore di Lochnor che non badò però alla sua presenza. Uhr proprio non capiva cosa stesse succedendo. Cosa ci faceva il quel posto e perché era stato conciato in quel modo?
Poi pian piano comprese.
Attratti dal miele arrivavano e si posavano su di lui, vespe, tafani e scorpioni in modo che non andassero a disturbare il Divino Signore e la sua corte durante il loro ozio. Ogni tanto una guardia, quando lui si ritrovava completamente ricoperto di insetti, lo frustava più volte con un nerbo di montone per ucciderne il più possibile. Uhr, si accorse che analoga sorte era capitata anche ad altri due uomini che si trovavano nella sua stessa condizione sotto il medesimo porticato.
SI sorprese però di non sentire più dolore.
Notò alla sua sinistra che il sole stava lentamente tramontando dietro le basse case bianche.
Sorrise. Dopotutto, era ancora vivo.

Io conosco il tuo segreto

Addossato alla serranda di un negozio chiuso, l’uomo era seduto circondato da stracci e cartoni. Non aveva più di quarant’anni anche se era difficile dargli un’età precisa. I capelli e la barba erano incolti e impastati di sudore rappreso e in bocca gli mancavano diversi denti davanti. Poco distante, un cane, sdraiato accanto a lui, in una posizione che pareva innaturale, aveva gli occhi chiusi e le orecchie abbandonate sul pavimento. Il bicchiere ammaccato della Coca-cola, davanti a loro, doveva essere vuoto.
Di solito, non si lasciava coinvolgere da scene simili. Un po’ per assuefazione, un po’ per disinteresse. Ma questa volta lo aveva colpito il modo di fare assente dell’uomo come se vivesse in una sua bolla irraggiungibile e il bicchiere davanti a lui fosse l’unico contatto con la realtà.
Così gli si avvicinò facendo cadere una moneta nel bicchiere che, per il contraccolpo, si spostò un poco all’indietro. Il cane rizzò le orecchie senza aprire gli occhi, ma subito pigramente le riabbassò. Si stava rialzando dalla posizione china quando il barbone in modo fulmineo lo trattenne per un braccio, lo guardò intensamente negli occhi, e gli disse:
«Io conosco il tuo segreto.»
Lui si ritrasse infastidito per quel contatto. Stette per qualche secondo a rimirare l’uomo seduto davanti a lui come per avere una spiegazione, ma il barbone aveva ripreso la sua aria disincantata.
Mentre si dirigeva verso a casa si sentì turbato da quanto era accaduto. Com’era possibile che fosse stato riconosciuto? Erano oramai passati dieci anni da quando si era trasferito in quella città facendo perdere le proprie tracce. E poi era sicuro che quando era successo quel fatto non c’era nessuno nella via. Sì, era sicuro. O quasi. In verità, a pensarci proprio bene, lui aveva sempre avuto la sensazione che nel buio, ci fosse nascosto qualcuno. Forse dopotutto la donna non era sola quella notte, forse qualcuno l’aveva accompagnata fin lì o, semplicemente, era stato presente in modo fortuito. Non riusciva a perdonarsi di essere scappato subito dopo. Avrebbe dovuto sincerarsi di essere davvero solo. Ora non sarebbe nelle mani di un testimone.
Già, un testimone oculare. Poteva significare la differenza tra la libertà e l’ergastolo, Era evidente che quell’uomo voleva ricattarlo viste le sue attuali condizioni di vita. Anzi, forse lo aveva anche seguito fino a casa. Ma che stupido! Come mai non ci aveva pensato prima? Ora gli aveva anche fatto capire dove poteva contattarlo scoprendo persino come si chiamava.
Scese trafelato in strada. Fece alcuni giri intorno all’abitato. Le strade erano deserte. Certo, pensò, ora che aveva quell’informazione quel tizio se ne era già andato meditando probabilmente sulla prossima mossa da fare. Si maledisse per tanta ingenua imprudenza. Era evidente che aveva perso, invecchiando, tutto il suo smalto.
Per qualche giorno non andò a lavorare. Doveva rifletterci sopra. Che doveva fare? Cambiare di nuovo città? Sentire cosa aveva da chiedergli quell’uomo? Doveva sopprimerlo senza tanti complimenti? Oppure farlo sopprimere? Dopo tutto aveva ancora delle conoscenze in quel campo.
Poi decise di affrontarlo.
Imboccò la sotterranea fino alla piazzetta con i negozi. Lo cercò con lo sguardo ma non c’era. Se ne era andato. Qualunque cosa avesse voluto da lui vi aveva rinunciato. Non aveva avuto il coraggio di organizzare un ricatto. O forse lo avevano semplicemente arrestato. Ma chi era, dopo tutto? Qual era il suo passato? Chi vive per strada è disperato, certo, ma ha anche imparato l’arte della sopravvivenza.
Proseguì la sotterranea deciso a buttarsi alle spalle quella brutta esperienza. Quando lo vide. Si era solo spostato. Era nella stessa posizione dell’altra volta, con il cane disordinatamente accucciato ai suoi piedi. Ora l’uomo aveva un’aria spaurita e indifesa. Tutto sommato non sarebbe stato difficile avere la meglio su di lui. Pensò.
Si fermò un attimo per raccogliere le idee. Che cosa avrebbe potuto dirgli? Avrebbe improvvisato; sicuramente lo avrebbe minacciato facendogli vedere la Glock che spuntava dalla cinta dei pantaloni. Non c’era da scherzare con un tipo come lui.
Nel frattempo, poco distante, notò un uomo che stava dando del danaro a un bambino che, tagliato il flusso incessante di gente da e per la stazione, si avvicinò al clochard mettendo la moneta nel bicchiere di Coca-cola. Il cane tirò su la testa per poi riabbandonarsi al suo sonno artificiale.
Il bambino si stava allontanando quando l’uomo lo prese all’improvviso per un braccio e, guardandolo fisso negli occhi, gli disse:
«Io conosco il tuo segreto.»

Una lettera è per sempre

letteraL’aveva vista per la prima volta al supermercato. L’aveva colpito il suo viso, gli occhi intensi, il sorriso aperto. Ma non ci aveva pensato più per diverso tempo, fino a quando non l’aveva incontrata nuovamente al Club del Libro del martedì ove si era iscritta con un’amica. E così aveva saputo il suo nome, la sua storia. Era rimasta vedova come lui, un lavoro trascorso da insegnante ed ora era in pensione approfittando di chissà quale ‘quota’. Parlarle era ancora più piacevole. Era spigliata, spiritosa, colta. Aveva un suo modo curioso di esprimersi facendo a tratti danzare le mani davanti al viso con un risultato che trovava ipnotico. Ogni volta che la vedeva in quelle riunioni si accorgeva di provare, suo malgrado, sempre più interesse. Ne era sorpreso. Da quando aveva perso la moglie non aveva più voluto rifarsi una famiglia e poi lui era di poche parole, timido e introverso e fare il primo passo, nonostante l’età avanzata, sarebbe stato un ostacolo insormontabile.
Cercò allora di ignorarla nei limiti del possibile, gli sarebbe passata quella infatuazione, pensò; ma poi parteciparono insieme alla gita sociale al Santuario della Maddalena Nera. Stettero in giro tutto il giorno e lui, pur non avendo il coraggio di farsi avanti, aveva avuto modo più volte di starle vicina. A tavola, sedendosi poco distante da lei, in alcuni tratti di camminata sul sentiero che portava alla chiesa, all’uscita dalla messa. Si era accorto che ne era davvero attratto riportando per fortuna l’impressione di essere in qualche modo ricambiato. Era bastato uno sguardo di lei un po’ più trattenuto, un contatto accidentale con il suo braccio, una battuta di lei che poteva avere, ripensandoci, un significato allusivo. Forse era la persona giusta, si disse. Forse non sarebbe stato più solo.
Così decise di farsi avanti, ma non mettendosi a parlarle, per carità. Non era mai stato infatti ‘l’arte sua’ il parlare. Le parole, soprattutto quando era agitato, gli venivano fuori come avrebbero potuto fare le persone accalcate in una discoteca in fiamme che avessero voluto mettersi in salvo attraverso un’unica uscita di emergenza. Si affastellavano l’una all’altra, senza un ordine e, a volte, senza neppure un senso logico. No, lui preferiva le parole scritte. Quelle rimanevano ferme, e poteva gestirle egregiamente. Sì, aveva deciso: le avrebbe inviato non una volgare mail, ma una lettera cartacea, come si usava una volta, scritta per di più con la penna stilografica del nonno. E se lei era, come lui era convinto che fosse, proprio quel tipo di persona, non solo avrebbe capito, ma anche apprezzato. E l’avrebbe conquistata.
Così, per un po’, non andò più alle riunioni del martedì del Club del Libro. Voleva concentrarsi sulla lettera senza distrazioni di sorta.
Così scrisse e riscrisse il testo più volte. Voleva che tutto fosse perfetto. Desiderava dire e non dire, usando parole che non fossero ricercate, ma neppure banali, che fossero intriganti ma non noiose. E anche il testo non avrebbe dovuto essere né breve da sembrare superficiale, né eccessivamente lungo da apparire prolisso. Voleva insomma farsi conoscere, interessarla, ma anche farle comprendere, con velati sottintesi, che avrebbe voluto qualcosa di più da lei di una semplice conoscenza amicale. Così, dopo svariati tentativi, finalmente il testo era pronto. In brutta copia, però. Ora doveva ‘solo’ riportarlo in bella grafia, visto che aveva deciso di scrivere la lettera a mano. Al computer o a macchina sarebbe stato infatti troppo impersonale e un modo freddo e distaccato di comunicare. E ricominciò il tormento. Fece diversi tentativi. Non aveva una buona grafia, è vero, ma non voleva neppure far sembrare la scrittura infantile. Doveva avere carattere rimanendo tuttavia leggibile, doveva essere dolce, ma forte. Non poteva accettare poi che lei potesse non capire qualche parola. Ognuna di esse aveva il suo posto e il suo significato irrinunciabile.
Infine, quando tutto fu pronto, preparò la busta e comprò il francobollo.
Ci aveva messo ben quindici giorni. Ma ne era valsa la pena.
L’indomani mattina uscì di buon grado. C’era una cassetta delle lettere vicino alla stazione, proprio accanto alla rivendita di tabacchi. Vi si recò deciso.
Ma durante il pur breve tragitto si accorse che, ad ogni passo, lo assaliva un nuovo dubbio. In che guaio si stava cacciando? Era proprio quello che voleva? E se poi lei lo avesse corrisposto? Come avrebbe dovuto comportarsi? Doveva davvero seguire il cuore, alla sua età?
Per un paio di volte si arrestò sul marciapiede a riflettere. Poi ripartiva titubante. Una volta addirittura fece per tornare sui suoi passi. Ma poi l’interesse per lei prevalse e, quando fu davanti alla cassetta, imbucò di getto la lettera prima di ripensarci.
Sulla via del ritorno sentì di essere felice. Aveva fatto la cosa giusta e poteva ritenersi soddisfatto. Si fermò poco distante a un bar per prendere un caffè e assaporare quella nuova sensazione piacevole. Sarebbe andato tutto bene, si disse, adesso ne era sicuro. Non restava che attendere.
Di lì a poco, un furgoncino delle poste si fermò accanto alla cassetta rossa. Ne uscì in fretta un ragazzo con un giubbotto giallo fosforescente. Da una tasca del marsupio estrasse un grosso sacco grigioscuro della spazzatura; in pochi gesti, la aprì imbustando dall’esterno l’intera cassetta. Poi, dopo aver messo lo scotch un po’ dappertutto, applicò un cartello autoadesivo sul bustone:

Come da programmazione aziendale la presente cassetta è dismessa a decorrere dalla data odierna.