Vorrei la pelle scura

Il negozio era il più bello della città. Clientela selezionata, molta di provenienza straniera, rigorosamente solo su appuntamento.
La coppia era entrata da poco. Il portiere, un afroamericano possente che si muoveva con gesti lenti nel suo completo griffato per non lacerarlo all’altezza delle spalle e dei bicipiti, aveva  accennato, al loro passaggio, a un inchino.
Lui poteva avere poco meno di una settantina d’anni, ben portati, capello tinto appena fatto, con un’ombra di barba, molto elegante, in doppiopetto a righe in cashmere. Lei poteva avere invece un terzo degli anni di lui, molto formosa, molto bionda, strizzata in una longuette a tombino beige e in bilico su scarpe in nuance con tacco dodici.
Appena il vendeur capo, dal bancone, li vide, ancorché servisse una cliente, alzò subito l’interfono nel cui microfono riversò alcune sillabe incomprensibili. Di lì a pochi secondi si materializzò il Direttore che salutò affabilmente la coppia invitandola a seguirlo.
«Papino, dove andiamo?» chiese lei con una vocina inaspettatamente querula.
Lui si mise sulla scia del Direttore e non rispose. La donna seguì entrambi, ma solo dopo qualche attimo di titubanza.
Scesa una rampa di scale, impreziosita da una passatoia in raso rosso, il gruppo si fermò davanti a una porta blindata simile a quella di un caveau di banca. Il Direttore, prima digitò su una piccola pulsantiera a muro un complicato codice alfanumerico, poi appoggiò il pollice a un display. La grossa porta fece uno scatto metallico ma non si mosse. Il Direttore inserì allora una card in una feritoia e finalmente la aprì. Si accesero immediatamente delle morbide luci spioventi dal soffitto mostrando ai visitatori ciò che altro non era se non un ennesimo locale del negozio, solo che era interrato e con vetrine incassate nel muro che racchiudevano, a loro volta, borse, cinte, portafogli e tanti altri accessori, tutto rigorosamente in pelle.
«È quello che penso che sia?» fece l’uomo elegante tradendo una leggera emozione.
Il Direttore annuì soddisfatto. «Tutto quello che vedete ha quella preziosa caratteristica.»
«Quale caratteristica, topolino?» fece la bionda che intanto si era avvicinata alla vetrina a lei più vicina.
«La pelle» anticipò il Direttore con un’espressione che sottolineava l’evidenza della risposta. «È tutta pelle pregiata, duttilissima, adatta per oggetti di lusso di altissima e raffinata qualità.»
«Di che pelle si tratta?» chiese sempre più interessata la donna che sembrava aver abbandonato il tono sgraziato. «È vitello saffiano, pelle di elefante o di struzzo? Ma perché poi conservare tutte queste cose qua sotto?»
«È pelle umana, Tesoro» la interruppe bruscamente l’uomo elegante che nel frattempo si era acceso il suo Montecristo.
«Cosa?» fece lei sbarrando gli occhi e riprendendo la sua voce stridula «ma è disgustoso, orribile… come puoi pensare che io possa accettare un regalo simile… io…»
«Sono di bambini morti per fame e povertà, Signora» si intromise il Direttore che aveva assunto un tono dolce ma paziente, segno evidente che non era la prima volta che dava quella spiegazione. «Noi interveniamo presso i nuclei individuati, indiani soprattutto, ma anche di larghe zone dell’Africa e dell’Asia interna. Ritiriamo i corpi in cambio di sostanziose sovvenzioni alle famiglie e poi ci occupiamo, a procedura ultimata (peraltro molto elaborata e complessa), anche della sepoltura dignitosa della piccola salma, sempre seguendo le indicazioni dei genitori. Le assicuro che tutti questi bambini, come dire… valgono più da morti che da vivi. È come se, dopotutto, si praticasse l’espianto di un organo, solo che vien fatto su persone già decedute, sicché il consenso è burocraticamente meno complicato. Nonostante questo, in Italia, il commercio è purtroppo vietato. Ed è questa la ragione del caveau.»
«È… è pelle di bambini?» fece la donna che si era però ricomposta.
«È la pelle più pregiata» confermò con sussiego il Direttore. «Noi utilizziamo solo la pelle del dorso e della pancia, il resto lo restituiamo. È morbidissima, ma al contempo forte e malleabile. C’è un mercato molto fiorente, sa? Ovviamente nella nicchia dell’extralusso e solo per i nostri clienti più affezionati» e qui il Direttore lanciò un’occhiata di complicità all’uomo elegante che, chiuso nella sua bolla di pensieri, non se ne accorse. «Moltissimi vip del jet set internazionale, nomi famosissimi che lei neppure immagina, ma che non possiamo divulgare per la tutela della privacy, hanno le nostre borse e i nostri prodotti confezionati proprio con questo tipo di pelle. Solo che non lo vanno a dire in giro.»
«Ma i bambini soffrono?»
«Il Direttore ti ha appena spiegato che i bambini sono già trapassati quando… quando eseguono il prelievo…» precisò un po’ annoiato l’uomo elegante soffiando da un lato il fumo. «Le famiglie sono lautamente ricompensate per il loro ‘disturbo’. Nessuno insomma si fa male, anzi, sono tutti contenti… Ai bambini morti, dopo tutto, la pelle non serve più, mentre i prodotti sono eccellenti, visto il brand. È il business, bellezza, e tu non ci puoi fare niente» concluse lui cinicamente.
«Beh… allora, Papino, se stanno così le cose e se per te va bene, prenderei quella borsa là, che assomiglia tanto a una Birkin…»
«Ottima scelta, Signora, ottima scelta» fece il Direttore avvicinandosi alla vetrinetta.

Irraggiungibile

Quando la donna entrò in salotto, Ted quasi non se ne accorse. Alcuni fiocchi gelati che la moglie non era riuscita a scrollarsi di dosso, prima di varcare la soglia, caddero nella penombra della casa.
«Ciao, Tesoro… sono tornata!»
«Ehi, Barbara… hai fatto presto!» disse lui alzandosi dalla poltrona. «Pensavo saresti tornata fra qualche ora!»
Lei se ne stette dapprima immobile cercando una risposta da dare, ma poi non le venne in mente nulla. Si limitò quindi a sorridere e a posare la borsa sulla sedia dell’ingresso per poi sfilarsi il piumino bagnato.
«Sta cominciando a nevicare» aggiunse lei cercando con gli occhi la gattina che non vedeva. «Del resto lo avevano preannunciato al meteo… per fortuna la riunione è finita prima. Un punto dell’ordine del giorno è saltato.»
«Bene, sono proprio contento. Hai cenato? Hai fame? Ti preparo qualcosa.»
«No, Ted, non ho mangiato, ma sono proprio stanca… andrei piuttosto a dormire. Domani è un’altra brutta giornata. Vieni anche tu?»
«È ancora presto. Finisco di vedere la partita…» disse lui risedendosi in poltrona e fissando lo schermo come ipnotizzato. La gattina, nel frattempo, era sbucata da chissà dove e si stava strusciando ai piedi della padrona.
«Ti ha dato i croccantini quell’omone cattivo?» chiese lei accarezzandola. Non avendo ricevuto risposta dal marito, cui la domanda era in qualche modo rivolta, andò in cucina, seguita dalla micetta, e rapidamente lasciò andare nella scodella un pugnetto di cibo.
Dopo dieci minuti, Barbara passò davanti al marito ancora incollato allo schermo. Gli fece un sorriso che lui non vide e poi scosse un po’ la testa dicendo sottovoce:
«Ci vediamo domattina» e chiuse dietro di sé la porta della camera da letto.
Passò mezz’ora e poi un’altra mezz’ora.
Al cellulare di Ted arrivò all’improvviso un messaggio.
L’uomo, che non volveva distogliere lo sguardo dalla tv, cercò a tentoni lo smartphone tra i cuscini della poltrona. Lesse quindi distrattamente il messaggio. Era della moglie.
Scusami, Tesoro, sono bloccata in autostrada. C’è una bufera di neve e il telefonino si sta scaricando. Non so quando riuscirò ad arrivare. Non mi aspettare in piedi. Un bacio. Ti amo.’
Ted balzò in piedi. Si fece scorrere sotto gli occhi più volte quelle parole non riuscendo a credere a ciò che stava leggendo. Pensò a un brutto scherzo. In un attimo fu in camera da letto. Accese la luce. Non c’era nessuno però tra le coperte: il letto era ancora intatto. Ritornò nel salotto. Il piumino della moglie non era appeso all’attaccapanni, e i suoi vestiti di casa erano ancora al solito posto. La gattina, appollaiata sulla sedia dell’ingresso, lo guardava incuriosita. Avvertì un gelo alla nuca.
Compose il numero di cellulare della moglie.
Il segnale faceva fatica a stabilirsi.
Poi si udì:
Il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile.’

Yan Yan

Yan Yan si distese sul futon lercio. Era stanchissimo. Lo stomaco brontolava. Il cibo che passavano era insufficiente e maleodorante. Oramai erano due mesi che si trovava in quella struttura, con turni massacranti e condizioni di vita pessime. Non c’erano però alternative, pensò mentre cercava di rimanere un po’ sveglio per riordinare le idee, intanto che i compagni di lavoro riempivano il dormitorio. Ma il sonno, come al solito, arrivò in un sussulto trascinandolo in un baratro nero senza sogni.
Yan Yan, nonostante fosse molto giovane, era responsabile di filiera: line manager, lo chiamavano. Doveva controllare che sulla piastra fossero inseriti correttamente i componenti B6m, R2s e HH32. Poi le schede madri venivano inviate altrove in una sezione vicina dello stesso stabilimento. Non tutti i lavoranti tuttavia erano bravi e veloci come lui e spesso doveva intervenire rapidamente quando qualcuno di loro era in difficoltà. Se i vigilanti se ne fossero accorti le sanzioni sarebbero state severe. Aveva visto un operaio che era stato sbattuto con violenza contro un muro per avere invertito i pin del pannello frontale del case cagionando il blocco momentaneo dell’intera catena di montaggio. Il lavorante era rimasto per terra una buona mezz’ora, con un rivolo di sangue che gli fuoriusciva da un orecchio; poi, senza riprendere conoscenza, l’avevano trasportato via come un sacco di soia e sostituito con un altro addetto, sbucato da chissà dove.
Yan Yan, come responsabile di filiera, godeva di una certa libertà di movimento. Una volta era addirittura salito furtivamente all’ultimo piano dello stabile per capire dove si trovasse. Lui e i suoi compagni erano infatti arrivati a notte fonda chiusi in un container dopo una settima di viaggio e, una volta all’interno del complesso, non erano più usciti. Le finestre erano tutte murate mentre il portone di ingresso era blindato e presidiato da una squadra di vigilanti. Attraverso un piccolo buco nel muro, praticato da qualcuno prima di lui, aveva però potuto accorgersi che intorno allo stabilimento c’era solo aperta campagna a perdita d’occhio. Campi di erba secca e colline brulle. Poteva trovarsi in un qualunque paese del globo.
Gli era giunta anche voce che non erano i soli a lavorare alla catena. C’era anche un altro gruppo di operai che faceva il turno di notte. Del resto, lo si poteva capire dal fatto che il lavoro, tra un turno e l’altro, andava avanti ugualmente tanto che i lotti da loro trattati non avevano numeri sequenziali all’inizio di ogni ciclo.
Il suo turno andava dalle 7 del mattino alle 19 di sera; interrompevano solo per un quarto d’ora per il pranzo e un quarto d’ora per la cena, girandosi semplicemente dalla postazione di lavoro per non contaminare i componenti sterili. Ogni quattro ore poteva dormire sul posto per non più di 5 minuti o, a scelta, andare in bagno o andare a bere l’acqua scura del rubinetto. Poi, a fine turno, sciamavano tutti da un unico portone facendo un percorso tale da non poter incontrare l’altro personale. I lavoranti del secondo turno di notte, dopo aver riposato nell’unico dormitorio, raggiungeva il luogo di lavoro per un altro percorso e un diverso accesso. I due turni, insomma, non si incontravano mai. Che il suo futon fosse utilizzando da altri, Yan Yan lo aveva compreso però subito, per il fatto che trovava infatti sempre qualcosa di spostato tra le sue cose e un odore non suo sul materassino.
Una sera, seminascosto dal futon, trovò 25 yuan. Il guadagno di una giornata di lavoro. Chi l’aveva usato in sua assenza li aveva persi. Yan Yan scrisse un biglietto cercando di nasconderlo insieme ai soldi in una piega del materassino. Non voleva che gli altri occupanti di quella squallida stanza lo scoprissero.
Il giorno dopo rinvenne nello stesso posto un biglietto di carta azzurra. Era di ringraziamento ed era firmato Kumiko. Chi occupava il futon nell’altro turno era una donna! Lui dormiva nello stesso posto doveva giaceva una femmina. Ecco perché di tutto quel mistero sul personale del turno di notte.
Trascorsero così alcuni giorni e poi Yan Yan decise di conoscere meglio Kumiko scrivendole ancora con quelle stesse modalità. Continuava a fantasticare su di lei, su chi potesse essere. Kumiko, dopo alcune titubanze, gli rispose. Così, seppe che lei aveva sedici anni, veniva dallo Guangxi, dove aveva fatto la sarta, e che lavorava a quella stessa catena di montaggio da circa sei mesi.
Yan Yan e Kumiko, da allora, si scrissero per diverse settimane fino a desiderare di incontrarsi, anche se era davvero difficile per l’inconciliabilità dei turni e la severità dei controlli.
Poi, un giorno, si misero d’accordo che l’uno avrebbe almeno cercato di vedere l’altra.
Lei si fece coraggio: scappò per pochi minuti dal dormitorio e riuscì a scorgerlo nella sua divisa da manager di linea. Il giorno dopo lui fece lo stesso: lei si era messa tra i capelli un fiore di stoffa che aveva preparato quando ancora si trovava a Shuxian.
Nessun si accorse di nulla. Ma trascorsero alcuni altri giorni senza che lui scrivesse più.
Lei non sapeva più cosa pensare. Era amareggiata. Non gli era evidentemente piaciuta. Come dargli torto. Quella vita non l’aveva resa certo più bella ed era tanto smagrita.
Dopo una settimana lui scrisse in un biglietto: “Sposiamoci”.
Lei rispose: “Va bene, però prima fuggiamo”.

Una notte, all’improvviso

«Cos’è stato Aldo…?» fece la donna svegliandosi di soprassalto. «Aldo, mi senti? Cosa è stato?»
«È il terremoto cara, dormi, adesso smette.»
«Non c’è mai stata una scossa così lunga però, ma che succede?»
Entrambi si erano seduti sul letto. Erano intontiti dal sonno. Tutta la stanza si muoveva.
«Ecco vedi, ha smesso.»
«Ma che ore sono, albeggia?» chiese lei avendo notato fuori dalla finestra un chiarore montante.
«Non è possibile, sono le due del mattino.»
Entrambi, un po’ a tentoni, benché conoscessero bene la propria camera, scesero dal letto e si accostarono al vetro della finestra.
Il chiarore diventava sempre più forte.
«È una bomba atomica, Aldo, hanno fatto esplodere una bomba atomica… non guardare dalla finestra, chiudi gli occhi» redarguì lei girando la testa di lato.
«Ma cosa dici? Sei la solita catastrofista» fece lui sostenendo lo sguardo in direzione della luce divenuta di colpo accecante.
«Oddio, non ci vedo più… Emma» fece poi retrocedendo e cadendo nuovamente sul letto. «Non ci vedo più.»
«Te l’avevo detto di non guardare…»
In quell’istante la finestra andò in frantumi sfondata da un’aria calda e malata. Sul pavimento precipitò una grandine di grumi di vetro.
«Se è una atomica allora dobbiamo andare subito in cantina…» osservò lui muovendo solo le braccia in direzione della porta.
«Non ce l’abbiamo una cantina, testone» fece lei sedendogli accanto e accarezzandogli il volto. «Ti ricordi? Quando abbiamo scelto questa casa dicesti che non avevamo bisogno di una cantina perché, sono le tue parole precise, tanto il vino alla nostra età non lo beviamo più…»
«Allora moriremo?»
«Sì… tanto non c’è modo di sopravvivere a una bomba atomica…»
«Credo anch’io»
«Ehi, perché quella faccia? Non avrai mica paura di morire…» domandò lei abbozzando un sorriso amaro.
«No, abbiamo avuto insieme una vita piena e felice. È che mi dispiace che io non possa vedere per un’ultima volta il tuo viso…»
«Però mi puoi abbracciare.»

No match (seconda parte)

prosegue da --> No match (prima parte)

PUNTATA PRECEDENTE: il comandante Page, durante il viaggio di avvicinamento, sulla sua Unità spaziale E3000, verso la Sedicesima Luna del Cane Maggiore, con il compito di colonizzarla con il suo equipaggio, è stato svegliato dalla sua ibernazione a seguito di un guasto. Accerta infatti al risveglio che qualcuno alla partenza ha sabotato il computer addetto alla navigazione oltre che il sistema di comunicazione verso l’esterno; ora la nave spaziale è diretta verso un buco nero che, tra 156 anni luce, li inghiottirà. Scopre però anche che non tutte le scialuppe di salvataggio sono fuori uso. Una, che era stata spostata per la riparazione e non correttamente riallocata, si è salvata dalla cortocircuitazione. Cerca di pensare a cosa poterne fare per reagire alla situazione venutasi a creare.


Avrebbe potuto piuttosto far caricare sulla capsula superstite di salvataggio le celle di ibernazione di due coloni. Bastava programmare il computer ausiliario che ancora funzionava e il gioco era fatto. ‘Perché no?’, pensò battendo le mani una contro l’altra. ‘Un maschio e una femmina’. Per poi spedirli a destinazione sulla Sedicesima Luna: in fondo erano quasi arrivati, mancavano solo pochi mesi di navigazione. Certo, ci sarebbe voluto molto più tempo per creare una colonia vera e propria e avrebbero incontrato molte più difficoltà da soli, ma era pur sempre un inizio e un modo perché l’operazione avesse comunque successo. Del resto le strutture logistiche erano state già installate da tempo sul posto e tutto era pronto. L’idea era così folle da sembrargli buona.
Che fare invece del resto dell’equipaggio? Svegliarli tutti avrebbe creato solo caos a bordo e un probabile isterismo di massa alla notizia del sabotaggio, soprattutto tra i non militari. Lasciare l’equipaggio in ibernazione poteva essere invece la scelta migliore perché tutti sarebbero andati incontro alla morte senza neppure accorgersene; dopotutto, con il computer di navigazione in avaria, senza alcuna chance di ripararlo o di chiedere aiuto, non c’era nessun’altra opzione possibile da praticare, che fosse stato solo sull’Unità o circondato da altre 1.500 persone a creargli problemi. Forse avrebbe potuto invece svegliare unicamente quello schianto di Annabel Kochinsky, Area Subartica Est, anni 35, Ufficiale di prima classe addetta all’Approvvigionamento. Almeno avrebbe avuto un po’ di compagnia. Ci avrebbe pensato su, con calma e a mente fredda.
Si mise allora subito a riprogrammare il computer per la individuazione dei due coloni; andavano scelti tra soggetti di buona salute tra i 25 e i 30 anni, compatibili tra loro per carattere, competenze e attitudini oltre che per i 158 parametri comportamentali del Protocollo Axel.
Un paio d’ore dopo, quando tutto fu pronto e la scialuppa superstite fu ricollocata sulla sua rampa di lancio, il Comandante Page lanciò il programma ormai completo. Il computer ausiliario non ebbe dubbi sulla scelta che terminò in 5 millisecondi esatti. Individuò un certo Arthur Green di anni 29 della Colonia Vega e una tale Lorna Cooper-Lancaster, del Michigan inferiore, di anni 25. Dalle schede risultava che lei apparteneva a una famiglia facoltosa e molto in vista nel Mondo Interno, con un curriculum di tutto rispetto quanto a istruzione e carriera. Di lui invece non c’era scritto pressoché nulla se non che era stato imbarcato il giorno stesso della partenza con visto provvisorio e nulla osta verbale. Insomma, forse era un clandestino; giù al Comando qualcuno si era dovuto sdebitare per qualcosa.
Certo, una strana accoppiata’ pensò lui grattandosi il naso importante ‘ma è il computer che ha scelto e chi sono mai io per interferire?’ e guardò le foto dei due giovani; erano entrambi di bell’aspetto con una faccia simpatica e sorridente: sembravano voler accettare di buon grado quella sfida.
Il Comandante raggiunse la rampa di lancio della capsula superstite. Vennero caricate senza nessuna difficoltà le due celle di ibernazione; programmò anche il computer di bordo della capsula in modo che avviasse il ciclo di scongelamento una volta arrivata a destinazione. Poi, Page rimase per qualche attimo a osservare, attraverso l’oblò posteriore, quel carico prezioso di vite umane ignaro nel loro sonno artificiale. Era il suo riscatto. Sorrise e, chiudendo gli occhi, trattenne il respiro e premette il pulsante start.
La capsula si mosse, prima lentamente, e poi si fiondò a elevatissima velocità verso il buio siderale; il Comandante fece appena in tempo a scorgere la scia luminosa rossa intermittente lasciata dietro di sé prima che virasse.
Quindi, ancora un po’ commosso da quanto era appena accaduto, tornò al computer ausiliario per interrogarlo sulla sua compatibilità con Annabel. Era solo una formalità, pensò, visto che aveva già notato come lei lo guardava ogni volta che lo incontrava nei corridoi del Comando, ma non voleva avere sorprese, non in quella situazione balorda in cui si era venuto a trovare. Così impostò i dati e fece partire il programma. Anche in questo caso il computer ci mise una manciata di nanosecondi a dare il suo responso. Solo che il nominativo prescelto era quello di Thomas Wolfe, Canada orientale, di anni 42, tecnico di secondo livello, reparto propulsori.
Ci deve essere un errore’ si disse. E fece altri tentativi, badando bene ogni volta che la procedura fosse quella corretta. Il computer proponeva però sempre lo stesso risultato. Provò anche a flaggare in esclusione la scheda di Thomas Wolfe e il programma rispose “NO MATCH”.
Recuperò la scheda di Wolfe. Era un bell’uomo, di colore, un viso franco e simpatico, curriculum ineccepibile. Le rispondenze con la sua scheda avevano dato un punteggio altissimo nel Protocollo Axel; anzi il programma aveva aggiunto persino una “stellina d’oro”  come persona particolarmente raccomandata anche per la compagnia.
Il comandante Page spense il monitor e per un attimo perse il suo sguardo nell’immensità dello spazio.
«Bene!» disse poi sospirando ad alta voce nel silenzio più totale della sua Unità. «Dove sarà il bar?»