Quale tempo verbale privilegiare

Per quanto più sopra argomentato si può allora ritenere che vi siano dei tempi obbligatori per alcune parti della sentenza e dei tempi facoltativi.

Obbligatori, come si è visto dianzi, sono il tempo presente per l’intestazione della sentenza, per la motivazione della sentenza e il dispositivo, mentre per quanto concerne il segmento che contiene le conclusioni, il redattore della sentenza deve giocoforza arrestarsi alla formulazione fattane dalle parti.

Facoltativi sono invece i tempi verbali della parte narrativa della sentenza, vale a dire quella in cui si concentra la spiegazione del giudice del termini delle questioni da esaminare: lo svolgimento del processo.

Occorre poi tener bene a mente che il provvedimento giurisdizionale costituisce un unicum documentale, ancorché, come si è visto, composito sicché, per coerenza narrativa interna all’atto (come accade del resto per qualsivoglia altro prodotto letterario cui la sentenza è assimilabile ancorché, com’é noto, non dal punto di vista della tutela del diritto di autore) una volta scelto un determinato tempo verbale veicolare, quale tempo conduttore della narrazione, deve essere mantenuto in tutto il segmento relativo. Le parti delle sentenza sono strettamente legate in via logica fra loro e sono interdipendenti e l’una sorregge l’altra come le parti un arco.

E’ pertanto sicuramente da evitare l’uso verbale diverso da quello atteso e il mutamento verba-le all’interno di ogni singola sottoparte perché creerebbe una discontinuità narrativa che potrebbe essere nociva finanche alla comprensione del testo.

Ciò posto, a mio modo di vedere, tra i tempi possibili, proprio per la portata significazionale che ogni tempo verbale in sé veicola, secondo quanto più sopra esposto, mi sentirei di scartare il passato remoto, per quella portata di cesura netta tra il fatto accaduto nel passato e gli aspetti a valenza giuridica che da quel fatto scaturiscono, come dianzi spiegato, e che sono valutati nel presente.

Ciò che in altre parole appare distonico è lo scollegamento tra fatto e diritto come rappresentato e fatto valere da questo tempo verbale che viene invece contraddetto dalla stretta correlazione dell’uno con l’altro nell’ambito di una sentenza. Si profila disarmonico infatti che, al momento della decisione, mi debba come giudice occupare di un evento e di tutti gli effetti-conseguenza che ne derivano che siano confinati (e sigillati) nel passato, quando d’altra parte è vero l’esatto contrario se è certo che parte attrice/appellante fa valere in via di attualità le sue pretese oggi (al momento della decisione) ancorché in relazione a quello stesso fatto passato.

Sconsigliabile è anche l’uso del presente indicativo per tutta la sentenza costituendo una forzatura narrativa. Anche se realizza come l’imperfetto un’unica linea narrativa tra passato e presente (ma con l’imperfetto si badi bene è il passato, pur rimanendo tale, a diventare presente, mentre con il presente indicativo è il passato che smette di essere tale per divenire solo presente) può diventare una distorsione del piano narrativo che sa di lezioso e artefatto.

Sono dunque senz’altro preferibili il passato prossimo e l’imperfetto attesa la stretta rilevanza che gli effetti dell’evento hanno ancora per la decisione espressa in sentenza. Il fatto-presupposto entra e rimane nel campo decisionale del giudice proprio attraverso questi diversi tempi verbali, entrambi efficaci nel creare un ponte semantico con l’attualità della decisione.

Se allora il passato prossimo è la forma verbale probabilmente più corretta per l’importanza che spesso per la decisione ha l’accadimento temporale esatto del fatto o di taluni fatti, l’imperfetto ha il pregio di creare un’unica linea narrativa tra passato e presente che giova alla fluidità della decisione e alla sua leggibilità. L’esposizione diviene più leggera, più chiara e maggiormente fruibile.

L’imperfetto ha anche l’ulteriore pregio di costituire un tempo verbale di forte impatto emotivo nel lettore, di contrasto per chiaroscuri, valorizzando l’effetto troncante della decisione del giudice. I fatti “scorrono” alla sua attenzione ma vengono “fermati” dalla sua sentenza.

È come se, in altre parole, nel giudicare, il giudice affermasse che quella situazione oggetto del suo giudizio (e origine della controversia) sarebbe proseguita nel suo essere lite se non vi avesse apposto il proprio sigillo decisorio e definitivo.

È tuttavia anche il tempo verbale più complicato da gestire in sé (più agevolmente maneggiabile da uno scrittore-giudice piuttosto che da un giudice scrittore) e questo proprio per la sua capacità evocativa e immaginifica intrinseca e l’attitudine a saper esprimere una continuatività narrativa che, come si è visto, non è connotata da una dimensione temporale precisa.
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